10
set

Cristo liberatore e lo "spirito impuro"

Liberazione di un indemoniato, ex voto. Cesena, Madonna del Monte.
Liberazione di un indemoniato, ex voto. Cesena, Madonna del Monte.

"Nella sinagoga
vi era un uomo
posseduto da uno
spirito impuro.
Cominciò
a gridare:
«Che vuoi da noi,
Gesù Nazareno?
Io so chi tu sei:
il Santo di Dio!»"


(Marco 1,23-24)

Siamo nella cosiddetta “giornata di Cafarnao”: nell’arco di un giorno e nello spazio di questa cittadina che s’affaccia sul lago di Tiberiade, Gesù compie una serie di atti miracolosi. Uno di questi eventi si svolge nella sinagoga locale (quella che Giovanni inserì come fondale per il celebre discorso di Gesù sul “pane di vita”): all’improvviso una persona si alza nell’assemblea, mentre Gesù sta insegnando con grande autorità, e gli si scaglia contro interpellandolo e apostrofandolo (Marco 1,21-26). Chi travolge quest’uomo apparentemente normale, facendone un avversario di Cristo?

In lui agisce un’inattesa presenza specifica, sollecitata dalla parallela presenza di Gesù. È una presenza vitale e personale che interloquisce con Cristo, paradossalmente riconoscendolo come «Santo di Dio», rivelandosi quindi come dotata di una trascendenza e di un’origine divina. Si ha, perciò, un’epifania di Satana il quale sa di avere come avversario Dio stesso, presente e operante in Gesù Cristo. Non possiamo qui ridurre l’evento a una guarigione da una malattia grave, come la demenza (Marco 5,1-20) o l’epilessia (9,14-29), casi che in seguito considereremo e rubricati dagli evangelisti come possessioni diaboliche.

Sappiamo, infatti, che nell’antico Vicino Oriente si era inclini a porre sotto l’insegna del demoniaco tutto il negativo della storia: le malattie fisiche, le devianze psichiche, gli influssi sociali nefasti, il peccato personale, il male in generale. Qui, invece, si ha una presenza personale specifica; è l’incontro con un essere misterioso che si erge contro Cristo dichiarandosi suo avversario; con lui Gesù ingaggia un duello che si risolve con un comando efficace e salvatore: «Esci da quest’uomo!». E, in finale, l’urlo che si ode rappresenta il grido di sconfitta di Satana. La salvezza non viene da formule e gesti esoterici, da filtri o pozioni magiche, ma solo da un ordine autorevole e operativo di Cristo.

Al centro di questo racconto non c’è, quindi, lo “spirito impuro”, il diavolo, ma Cristo liberatore dal male. Il cristianesimo rigetta ogni forma di dualismo che veda come arbitri della storia e dell’essere due divinità antitetiche: il demonio non è il principio del male che combatte il principio divino del bene. Satana (in ebraico “avversario”) è inferiore a Dio ed è da lui controllato e dominato. Anche se, dunque, la sua presenza dev’essere ridimensionata, il diavolo (in greco, “colui che divide”) è un essere personale che agisce con forza. Certo, l’uso del termine “persona” è per lui un po’ improprio, perché si tratta di un concetto positivo, usato anche per Dio (ad esempio, le tre “persone” della Trinità).

Satana è, invece, l’antitesi di Dio, nel quale l’essere persona è pienezza assoluta; è l’antitesi anche dell’uomo, la cui persona dovrebbe essere segno di intimità, di donazione, di amore. Lo scrittore francese agnostico André Gide scriveva: «Se il diavolo potesse, direbbe: Io sono colui che non sono». E curiosamente lo stesso autore concludeva: «Non credo nel diavolo; ma è proprio quello che il diavolo spera: che non si creda in lui». A lui farà eco Giovanni Papini quando diceva che «l’ultima astuzia del diavolo fu quella di spargere la voce della sua morte».

Pubblicato il 10 settembre 2012 - Commenti (2)
26
apr

Lo spirito impuro

Teschio di capra, 1957, di Georgia O’Keeffe (1887-1986). San Antonio, Texas, McNay Art Museum.
Teschio di capra, 1957, di Georgia O’Keeffe (1887-1986). San Antonio, Texas, McNay Art Museum.

"Quando lo spirito impuro esce dall’uomo,
si aggira per luoghi deserti
cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito»
".

(Matteo 12,43-44)

Gesù con queste parole sembra “sceneggiare” una storia diabolica, introducendo elementi dal sapore mitico. Innanzitutto precisiamo subito chi sia il protagonista, denominato “spirito impuro” (o “immondo”). La locuzione ricorre spesso nei Vangeli (ad esempio, in Marco 11 volte) ed è l’equivalente del “demonio”. Alla base c’è il concetto biblico rituale della “purità” che riguardava il tempio e la vita religiosa: quanto vi si opponeva era ritenuto “impuro”, cioè profano, sottratto all’orizzonte divino e, quindi, in qualche modo ostile a Dio. L’apice supremo di questa “impurità” è ovviamente Satana.

Ora, lo “spirito impuro”, nel racconto di Gesù, è rappresentato mentre viene espulso da una “casa”, ossia dal cuore di una persona che l’ha scacciato attraverso la conversione. Eccolo, allora, vagare nel deserto. Questo tratto è per noi sorprendente perché ha il sapore di qualcosa di fiabesco e, appunto, di mitico. In realtà, c’è una spiegazione legata alla cultura dell’antichità biblica. Il deserto è, in pratica, un mare di sabbia e, come il mare è il simbolo del nulla, del caos, così anche le aree desertiche raffigurano l’assenza della vita, dell’esistenza, della fecondità. Nasce, così, l’idea che esse siano popolate di demoni.

Quando si celebra il grande rito dell’espiazione comunitaria nella solennità del Kippur, il capro che reca su di sé i peccati del popolo e che viene quindi detto “di Azazel”, nome di un demonio dell’antica tradizione popolare cananea ed ebraica, viene allontanato nel deserto. Là egli porta le colpe di Israele perché vi si estinguano (si legga, al riguardo, il complesso rituale del Kippur nel capitolo 16 del libro del Levitico). Inoltre, nella Bibbia si evocano talora i se‘irîm, di per sé “i capri”, ma in realtà si tratta dei “satiri”, ossia di misteriosi esseri o geni zoomorfi che si assembrano e vagano nei luoghi desertici o nelle città in rovina. Il profeta Isaia, quando maledice Babilonia, la città dell’oppressione, annunzia che essa sarà ridotta a un campo di rovine nel quale «si stabiliranno le bestie selvatiche, i gufi riempiranno i palazzi, vi dimoreranno gli struzzi e vi danzeranno i satiri» (13,21).

La stessa scena è ripetuta dal profeta per il tradizionale nemico di Israele, Edom, nelle cui città devastate «i satiri si chiameranno l’un l’altro; là si poserà anche Lilit» (34,14), un demone mitologico femminile, destinato a una certa popolarità nel folclore e nelle tradizioni giudaiche posteriori. Non dobbiamo, dunque, stupirci che la Bibbia, parola di Dio incarnata, cioè legata a una cultura e a coordinate storiche e sociali antiche, assuma anche elementi mitici.

Essi servono a dare vivacità al messaggio che si vuole comunicare sul mistero del male e di Satana, la cui opera è appunto quella di stimolare la libertà umana inclinandola contro Dio, il bene, la giustizia e la verità. Ecco, allora, il deserto come sua sede perché simbolo di caos, di morte e di male, ed ecco anche il desiderio del demonio di rientrare nella casa del cuore e della coscienza delle persone ove poter esercitare il suo influsso nefasto.

Pubblicato il 26 aprile 2012 - Commenti (2)
19
apr

Bestemmiare lo Spirito

Anima dannata, busto in cera di scuola lombarda, XVII secolo. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
Anima dannata, busto in cera di scuola lombarda, XVII secolo. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

"Qualunque peccato
 o bestemmia
verrà
perdonata
agli uomini, ma
la bestemmia
contro lo Spirito
non verrà
perdonata"

(Matteo 12,31)

Questa frase di Gesù, già di sua natura sorprendente, si fa quasi sconcertante nel suo prosieguo che suona così: «A chi parlerà contro il Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a chi parlerà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato, né in questo mondo né in quello futuro» (12,32). Per sciogliere l’imbarazzo di queste dichiarazioni partiamo innanzitutto dalla realtà della “bestemmia” che, nel linguaggio biblico, ha un’accezione differente da quella comune per noi. Il famoso comandamento: «Non nominare il nome di Dio invano », certo, indirettamente può essere applicato alla bestemmia come imprecazione infamante contro la divinità, ma il suo valore primario va in ben altra direzione, marcata da quell’ “invano”.

In ebraico il termine rimanda alla “vanità” dell’idolo; quindi in causa è la degenerazione della religione e l’arrogarsi da parte dell’uomo di decidere a suo piacimento quale sia il vero Dio, modellandolo a proprio vantaggio e appropriandosi, così, di una tipica qualità divina. Perciò la «bestemmia contro lo Spirito» è un peccato superiore a una semplice parolaccia o insulto contro la divinità. È un attacco radicale e consapevole alla realtà intima e profonda di Dio rappresentata dal suo Spirito. Non è un peccato di debolezza come quello dell’adultera che può pentirsi ed è perdonata da Cristo (Giovanni 8,1-11). È, invece, una sfida cosciente scagliata contro Dio.

È a questo punto che dobbiamo interpretare l’applicazione successiva. Da un lato, si afferma la possibilità di remissione del peccato di negazione nei confronti del Figlio dell’uomo. La giustificazione è nel fatto che la sua dignità è per così dire velata dalla sua apparenza umana che può generare incertezza, sospetto o reazione negativa. Si ricordi, per esempio, la replica di Natanaele all’apostolo Filippo che lo invitava a conoscere Gesù di Nazaret: «Da Nazaret può venire qualcosa di buono?» (Giovanni 1,46).

D’altro lato c’è, invece, l’atteggiamento soprattutto degli scribi e dei farisei che vedono gli atti gloriosi di Cristo, i suoi miracoli, le liberazioni dal male demoniaco, ma chiudono coscientemente gli occhi della mente e del cuore, perché il riconoscimento di questa “diversità” di Gesù infrangerebbe il loro sistema di potere e le loro elaborazioni teologiche. Essi, dunque, negano l’evidenza delle opere che lo Spirito di Dio manifesta in Cristo: la «bestemmia contro lo Spirito » è, allora, il rifiuto consapevole della verità conosciuta come tale, è il rigetto cosciente della parola e dell’opera di Gesù, pur sapendola vera e santa, per proprio interesse “blasfemo”.

In questa luce, è comprensibile la conclusione logica: a costoro non è possibile concedere il perdono «né in questo mondo né il quello futuro», perché manca il presupposto fondamentale del pentimento e della confessione della colpa. Essi si mettono fuori dell’orizzonte della salvezza di propria scelta. Il commento ideale a tale dichiarazione di Gesù è in queste parole di quella grandiosa omelia che è la Lettera agli Ebrei: «Se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per quel peccato, ma soltanto una terribile attesa del giudizio e la vampa di un fuoco che dovrà divorare i ribelli» (Ebrei 10,26-27).

Pubblicato il 19 aprile 2012 - Commenti (2)
09
feb

Poveri in spirito

Beato Jacopone daTodi, Maestro di Prato, secolo XV. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.
Beato Jacopone daTodi, Maestro di Prato, secolo XV. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.

"Beati i poveri in spirito
perchè di essi è il regno dei cieli".
(Matteo 5,3)

Una domanda preliminare spontanea: perché mettere tra le parole “difficili” dei Vangeli questa che è una delle frasi più celebri del cristianesimo? Non appartiene forse a quelle beatitudini che sono il gioiello letterario e spirituale posto in apertura al Discorso della Montagna, da alcuni definito come la Magna Charta della fede cristiana? Il tema della povertà non è forse emblematico della vita e della testimonianza in atti e in parole di Cristo e dei suoi seguaci, anche se spesso la cristianità s’è dimostrata al riguardo poco fedele, come ammoniva nelle sue Laudi Jacopone da Todi («povertate poco amata, pochi t’hanno desponsata»)? In verità, ci sono alcuni problemi sia letterari, sia storici, sia teologici che s’incrociano attorno alle beatitudini e che esigono una serie di precisazioni.

Innanzitutto c’è il fatto della loro collocazione in un contesto topografico diverso. Matteo scrive: «Vedendo le folle, Gesù salì sul monte... e si mise a parlare» (5,1-2). Luca: «Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante... e alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva...» (6,17.20). La soluzione del contrasto è semplice: Luca evoca il contesto storico reale in cui si svolse quel discorso, una pianura di Galilea. Matteo, invece, che nel suo discorso raccoglie altri interventi pronunziati da Cristo in sedi diverse, introduce una cornice simbolica, quella del monte, alludendo così al Sinai e a Mosè: non per nulla si parlerà nel discorso del nesso intimo tra la Legge antica e l’annunzio di Gesù. Rilevante è, poi, la differenza tra le due redazioni delle beatitudini: in Matteo (5,3-12) sono nove (l’ultima è un’espansione dell’ottava, forse un suo commento), mentre in Luca (6,20-23) sono solo quattro, a cui però si aggiungono altre quattro “maledizioni” (“Guai!”) parallele e antitetiche. Questo dato, frequente anche in altri confronti tra i testi evangelici, dimostra che i loro autori, tenuta ferma la sostanza, si comportano non come storici in senso stretto creando dei freddi manuali o dei verbali documentari, bensì come “evangelisti” la cui fedeltà è viva e duttile, si apre alle istanze delle comunità alle quali le parole e le memorie di Cristo devono essere trasmesse inmodo concreto e incarnato.

Giungiamo, così, alla prima beatitudine, quella sulla povertà. Luca la presenta in maniera diretta e profetica: «Beati voi, poveri!», riflettendo i destinatari del suo Vangelo che erano in difficoltà sociale ed economica. Così aveva fatto anche Gesù interpellando la folla dei miseri con il “voi” e con la promessa essenziale della felicità del regno di Dio a loro riservata. Matteo adotta, al contrario, un linguaggio più sapienziale alla terza persona: «Beati i poveri...», anche perché il Gesù da lui tratteggiato è il nuovo Mosè che parla rivolto anche ai secoli futuri. Inoltre, apporta una precisazione: «Beati i poveri in spirito».

Questa aggiunta è stata spesso oggetto di equivoco perché, letta alla maniera occidentale, sembrerebbe riferirsi soltanto a un distacco spirituale dalle ricchezze e dagli agi e non a un comportamento reale di donazione agli altri e di sobrietà. In realtà, la puntualizzazione “in spirito” perfeziona la celebrazione della povertà comune a Matteo e Luca: la formula, che è nota anche nei documenti giudaici scoperti a Qumran sul Mar Morto, significa non una scelta astratta e ideale bensì radicale, che parta appunto dallo “spirito” per diventare norma dell’atteggiamento concreto. Siamo proprio nell’atmosfera delle beatitudini che non impongono un codice di leggi o regole, ma un’opzione totale, fondamentale e assoluta nei confronti dei valori evangelici.

Pubblicato il 09 febbraio 2012 - Commenti (2)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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