James Jacques Tissot: La maledizione (particolare), c. 1896-1902. New York, The Jewish Museum.
"Si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori
del bene e del male."
(Genesi 3,5)
Nel giardino dell’Eden c’era un albero che non è registrato nei manuali di botanica. In ebraico si chiama ’es da’at
tob wara’, «l’albero della conoscenza del bene e del male», e non è una pianta fisica ma metafisica, simbolica. Forse anche
qualche nostro lettore è convinto che si tratti di un melo, ma è vittima di un abbaglio. L’equivoco nasce da una sorta di gioco
di parole, possibile però soltanto in latino. In quella lingua, infatti, hanno un suono molto affine questi tre vocaboli: malus
(melo), malum (male) e malus (cattivo). Ecco spiegato l’inganno che ha generato la celebre “mela di Eva”, legata appunto al
“male” che ne è seguito.
Il discorso, in verità, è serio e tocca il cuore
della morale. Cerchiamo, quindi, di illustrare
il significato di quell’albero misterioso
e comprenderemo appieno anche il passo
biblico che abbiamo proposto alla nostra riflessione.
Innanzitutto l’immagine vegetale
è per la Bibbia segno di sapienza, indica un
sistema di vita: il Salmo 1, ad esempio, presenta
il giusto come un albero radicato nei
pressi di un ruscello, le cui foglie non avvizziscono
e i cui frutti sono gustosi e costanti.
C’è, poi, la “conoscenza”, la da’at che, nella
cultura biblica, non è solo intellettuale, ma
è anche un atto globale della coscienza che
coinvolge volontà, sentimento e azione. È,
pertanto, una scelta radicale di vita. Infine,
ecco «il bene e il male» che, com’è ovvio, sono
i due perni della morale.
A questo punto siamo tutti in grado di
identificare quest’albero simbolico: è l’incarnazione
della morale nella sua pienezza,
che proviene da Dio, colui che pianta nel
cuore di ogni creatura umana questa realtà
viva e decisiva. I frutti, quindi, sono solo donati,
non possono essere sottratti. L’uomo e
la donna sono là, con la loro libertà, sotto
l’ombra di quell’albero e compiono una scelta
drammatica. Sollecitati dal serpente, emblema
del tentatore che scuote la nostra libertà,
essi strappano il frutto, ossia – fuor di
metafora – vogliono decidere in proprio quale
sia il bene o il male, rifiutando di riceverli
come codificati da Dio.
Si comprende, allora, il significato profondo
dell’invito del tentatore: strappare quel
frutto vuol dire diventare arbitri («conoscitori
») del bene e del male, artefici autonomi
della morale, creatori di ciò che è giusto e di
ciò che è perverso a proprio piacimento. È
appunto «diventare come Dio». È, questa, la
radice del “peccato originale”, anzi, è l’essenza
ultima di ogni peccato. È un po’ quello
che i Greci definivano come hybris, ossia la
sfida che il ribelle lancia contro la divinità.
Con questa scelta si giunge non nel cielo sognato
da Adamo ed Eva e fatto balenare loro
dal serpente come la grande illusione; si precipita,
invece, nel cuore della tenebra, nell’abisso
del peccato e della colpa.
Detto in altri termini, l’anima oscura del
peccato è la superbia, non per nulla considerata
come il primo dei vizi capitali: è la folle
aspirazione a sostituirsi a Dio definendo autonomamente
il bene e il male. La storia umana
è l’amara documentazione dei risultati ottenuti,
una volta imboccata questa via. Risuona,
allora, il monito di un sapiente biblico
del II secolo a.C., il Siracide: «Dio in principio
creò l’uomo e lo lasciò in mano al suo proprio
volere. Se vuoi, osserverai i comandamenti:
l’essere fedele dipende dalla tua buona
volontà… Davanti agli uomini stanno la
vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che
egli sceglierà» (Siracide 15,14-15.17).
Pubblicato il 10 marzo 2011 - Commenti (0)