11 ago
El Greco (1541-1614): Il Salvatore, Toledo, Cattedrale.
"Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità.
(1 Timoteo 2,3-4)."
L’epistolario paolino si chiude con un fascicolo
di tre scritti omogenei che dal
Settecento si usa chiamare “Lettere pastorali”,
a causa del loro tema dominante e
dei loro destinatari, Timoteo e Tito collaboratori
dell’Apostolo. La loro originalità ha fatto
ipotizzare a molti esegeti biblici una mano diversa
rispetto a quella di Paolo, forse quella di
un discepolo: ad esempio, su un vocabolario
di 848 parole greche diverse che qui vengono
usate, ben 305 non si ritrovano mai nelle lettere
paoline classiche. Tuttavia, è anche possibile
che queste pagine testimonino un’evoluzione
nel pensiero e nello stile dell’Apostolo,
ormai giunto nell’ultima fase della sua esistenza
(si legga il suo bellissimo “testamento”
in 2Timoteo 4,6-8, che a suo tempo abbiamo
proposto in questa nostra rubrica).
Ora, dalla Prima Lettera indirizzata al discepolo
Timoteo – di sangue misto (padre greco e
madre ebrea) e fatto circoncidere da Paolo per
quieto vivere nei confronti della comunità
giudeo-cristiana – abbiamo estratto un passo
molto citato ed effettivamente di grande forza
tematica. A prima vista sembra essere la proclamazione
di una sorta di salvezza universale,
a prescindere dalle religioni, dalle scelte
personali, dalle situazioni contingenti, così da
riportare in vigore l’idea di un inferno vuoto.
In realtà, come è esplicitato nel testo e nel contesto,
l’Apostolo introduce due nodi capitali.
Innanzitutto egli sta parlando della “volontà”
di Dio, cioè del suo progetto che ha rivelato
a profeti e apostoli attraverso Cristo, un
piano che vorrebbe la salvezza di tutte le creature.
Come si legge nel libro del profeta Ezechiele:
«Forse che io ho piacere della morte
del malvagio – oracolo del Signore – o non
piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?
» (18,23). Per questo egli offre con insistenza
la sua grazia, che è come una mano sicura
che strappa dalla palude del peccato l’uomo,
suo capolavoro (Geremia nel capitolo 18
della sua profezia e Paolo in Romani 9,21 usano
l’immagine del vasaio).
C’è, quindi,
un’azione divina che interviene efficacemente
sulla sua creatura e sulla sua storia.
Tuttavia, il Creatore non smentisce sé stesso,
cancellando con la sua potenza la libertà
che egli ha concesso all’umanità. Ecco perché
il progetto divino sa già che l’uomo può ribellarsi
e scegliere di procedere su un’altra via rispetto
a quella tracciata dal disegno di Dio. È
un po’ questa l’amarezza o, se si vuole, la delusione
di Dio che potremmo rappresentare
con le parole addolorate che Gesù rivolge a
Gerusalemme: «Quante volte ho voluto raccogliere
i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini
sotto le ali, ma voi non avete voluto!» (Luca
13,34). Affermava Benedetto XVI nell’enciclica
Spe salvi: «Possono esserci persone che
hanno distrutto totalmente in sé stesse il desiderio
della verità e la disponibilità dell’amore...
È questo che si indica con la parola inferno
». Grazia divina e libertà umana devono,
quindi, incrociarsi per la salvezza.
Una seconda nota è da cercare nel contesto
ove si delinea la via sulla quale si compie
la salvezza. È quella «verità» che Dio vorrebbe
fosse conosciuta: «Uno solo è Dio e uno solo
è il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo
Cristo Gesù, che ha dato sé stesso in riscatto
per tutti» (2,5-6). La via della salvezza è stata,
dunque, aperta da Cristo col suo sacrificio
liberatore e tutti – esplicitamente o su percorsi
del loro spirito e della loro vita che solo
Dio conosce – devono incamminarsi su questo
itinerario di salvezza e redenzione che ha
la meta luminosa della gloria, allorché «Dio
sarà tutto in tutti» (1Corinzi 15,28).
Pubblicato il 11 agosto 2011 - Commenti (2)
10 mar
James Jacques Tissot: La maledizione (particolare), c. 1896-1902. New York, The Jewish Museum.
"Si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori
del bene e del male."
(Genesi 3,5)
Nel giardino dell’Eden c’era un albero che non è registrato nei manuali di botanica. In ebraico si chiama ’es da’at
tob wara’, «l’albero della conoscenza del bene e del male», e non è una pianta fisica ma metafisica, simbolica. Forse anche
qualche nostro lettore è convinto che si tratti di un melo, ma è vittima di un abbaglio. L’equivoco nasce da una sorta di gioco
di parole, possibile però soltanto in latino. In quella lingua, infatti, hanno un suono molto affine questi tre vocaboli: malus
(melo), malum (male) e malus (cattivo). Ecco spiegato l’inganno che ha generato la celebre “mela di Eva”, legata appunto al
“male” che ne è seguito.
Il discorso, in verità, è serio e tocca il cuore
della morale. Cerchiamo, quindi, di illustrare
il significato di quell’albero misterioso
e comprenderemo appieno anche il passo
biblico che abbiamo proposto alla nostra riflessione.
Innanzitutto l’immagine vegetale
è per la Bibbia segno di sapienza, indica un
sistema di vita: il Salmo 1, ad esempio, presenta
il giusto come un albero radicato nei
pressi di un ruscello, le cui foglie non avvizziscono
e i cui frutti sono gustosi e costanti.
C’è, poi, la “conoscenza”, la da’at che, nella
cultura biblica, non è solo intellettuale, ma
è anche un atto globale della coscienza che
coinvolge volontà, sentimento e azione. È,
pertanto, una scelta radicale di vita. Infine,
ecco «il bene e il male» che, com’è ovvio, sono
i due perni della morale.
A questo punto siamo tutti in grado di
identificare quest’albero simbolico: è l’incarnazione
della morale nella sua pienezza,
che proviene da Dio, colui che pianta nel
cuore di ogni creatura umana questa realtà
viva e decisiva. I frutti, quindi, sono solo donati,
non possono essere sottratti. L’uomo e
la donna sono là, con la loro libertà, sotto
l’ombra di quell’albero e compiono una scelta
drammatica. Sollecitati dal serpente, emblema
del tentatore che scuote la nostra libertà,
essi strappano il frutto, ossia – fuor di
metafora – vogliono decidere in proprio quale
sia il bene o il male, rifiutando di riceverli
come codificati da Dio.
Si comprende, allora, il significato profondo
dell’invito del tentatore: strappare quel
frutto vuol dire diventare arbitri («conoscitori
») del bene e del male, artefici autonomi
della morale, creatori di ciò che è giusto e di
ciò che è perverso a proprio piacimento. È
appunto «diventare come Dio». È, questa, la
radice del “peccato originale”, anzi, è l’essenza
ultima di ogni peccato. È un po’ quello
che i Greci definivano come hybris, ossia la
sfida che il ribelle lancia contro la divinità.
Con questa scelta si giunge non nel cielo sognato
da Adamo ed Eva e fatto balenare loro
dal serpente come la grande illusione; si precipita,
invece, nel cuore della tenebra, nell’abisso
del peccato e della colpa.
Detto in altri termini, l’anima oscura del
peccato è la superbia, non per nulla considerata
come il primo dei vizi capitali: è la folle
aspirazione a sostituirsi a Dio definendo autonomamente
il bene e il male. La storia umana
è l’amara documentazione dei risultati ottenuti,
una volta imboccata questa via. Risuona,
allora, il monito di un sapiente biblico
del II secolo a.C., il Siracide: «Dio in principio
creò l’uomo e lo lasciò in mano al suo proprio
volere. Se vuoi, osserverai i comandamenti:
l’essere fedele dipende dalla tua buona
volontà… Davanti agli uomini stanno la
vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che
egli sceglierà» (Siracide 15,14-15.17).
Pubblicato il 10 marzo 2011 - Commenti (0)
19 dic
"Spezzerannole loro spade per farne aratri, trasformeranno le loro lance in falci. Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. "
(Isaia 2,4)
L’orizzonte planetario è attraversato da un movimento: da ogni angolo della terra si mettono in moto processioni di popoli che convergono verso un monte. Non è il più alto né il più famoso, eppure esso è come un faro di luce che irradia i suoi bagliori sulla distesa delle regioni e dei continenti. Quei flussi umani giungono ai piedi della montagna, ed ecco che dalla sua vetta, ove si leva un tempio, esce personificata la parola di Dio che va incontro all’umanità in ricerca.
Di fronte a questa presenza le genti che sono accorse lasciano cadere a terra spade e lance che hanno recato con sé per difendersi dagli altri popoli a loro estranei. Gli artigiani prendono quelle armi e le forgiano in aratri e falci, ossia in strumenti di sviluppo pacifico. Ormai si chiudono le scuole di guerra e si aprono centri di studio e di ricerca per il bene dell’umanità; le pianure non sono più campi di battaglia, ma terreni coltivati, agli armamenti sono subentrati gli armenti.
Abbiamo voluto “sceneggiare” una delle grandi pagine di quel Dante della poesia ebraica e vertice dei profeti d’Israele che è Isaia. È facile sciogliere il significato della parabola. Il suo è, infatti, un inno dedicato a Sion, la sede del tempio di Gerusalemme e della casa di Davide, quindi della presenza divina nello spazio, nella storia e nella Parola (la Tôrah, la Legge e la rivelazione del Signore).
La speranza di questa convergenza planetaria verso il vero Dio per l’edificazione di un
mondo di pace è collocata dal profeta «alla fine dei giorni» (2,2).
È, perciò, una meta sperata come fine ultimo della vicenda umana, ma già ora si deve cominciare a costruire questo ordine di serenità, di collaborazione, di sviluppo. E in prima fila dovrebbero essere proprio i fedeli. Esclama, infatti, Isaia nella conclusione del suo cantico-visione (1,1): «Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore» (2,5). Naturalmente questo affresco grandioso ha due connotati che meritano una sottolineatura particolare.
Da un lato, la pace-shalôm, che non è solo cessazione delle ostilità tra i popoli, ma anche
inaugurazione di una nuova era di armonia e di benessere, apre il sipario sul regno del Messia, un regno di giustizia e di pace, di difesa dei poveri e di fraternità. È ciò che Isaia dipingerà nelle due pagine stupende di 9,1-6 e 11,1-9, due testi da meditare, cari alla tradizione natalizia cristiana che li applica a Cristo e alla sua opera. Un forte messaggio di speranza nel futuro e di attesa fiduciosa.
D’altro lato, affiora qui quella linea universalista che serpeggerà in vari passi della letteratura profetica e sapienziale d’Israele e che avrà una sua celebrazione ultima nella visione neotestamentaria. A questo proposito vorremmo evocare solo un annuncio presente proprio nel libro di Isaia, ma appartenente a un autore posteriore che si è voluto mettere sotto il patronato del grande profeta di Giuda. Anche questo oracolo è collocato «in quel giorno», equivalente, in pratica, alla formula isaiana «alla fine dei giorni»: «In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria [le due superpotenze d’allora], una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti così: Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (19,24-25).
Pubblicato il 19 dicembre 2010 - Commenti (0)
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