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Il caso di pornéia

Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553), Donna sorpresa in adulterio, 1532. Budapest, Museo di Belle Arti.
Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553), Donna sorpresa in adulterio, 1532. Budapest, Museo di Belle Arti.

"Io vi dico: chiunque
ripudia la propria moglie,
se non in caso di
pornéia,
e ne sposa un’altra,
commette adulterio".


(Matteo 19,9)

Eccoci di fronte a un passo che ha suscitato una valanga di interpretazioni e commenti e che ha creato una divaricazione persino all’interno delle stesse Chiese cristiane. Facciamo
subito due premesse. La prima è estrinseca. Il testo ricorre anche in una delle sei “antitesi” che Matteo colloca nel Discorso della Montagna. In esse si illustra non tanto il superamento, ma la pienezza che Cristo vuole far emergere dal dettato biblico. Sul ripudio matrimoniale egli affermava, citando il versetto del Deuteronomio (24,1) sul divorzio: «Fu detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie – eccetto il caso di pornéia – la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio» (5,32).

La seconda premessa riguarda il contesto del nostro passo (19,1-9). In esso Gesù, provocato dai suoi interlocutori che lo volevano mettere in contraddizione con la norma sulla liceità
del divorzio «per una qualsiasi mancanza», come si affermava nel Deuteronomio, risale alla Genesi che dichiara l’uomo e la donna destinati a diventare «una sola carne» (2,24). Questo è il progetto divino sulla coppia al quale Cristo si allinea, per cui «l’uomo non deve dividere ciò che Dio ha congiunto» (Matteo 19,6). Quella del Deuteronomio è, dunque, un’eccezione concessa «per la durezza del vostro cuore» (19,8). Gesù, quindi, propone nella sua visione del matrimonio il modello dell’indissolubilità.

Ma a questo punto come spiegare l’inciso – da noi lasciato con il termine greco pornéia – che presenta un’eccezione? È probabile che qui si sia di fronte a un elemento redazionale introdotto da Matteo per giustificare una prassi in vigore nella comunità giudeo-cristiana delle origini. Sarebbe, quindi, una sorta di norma ecclesiale locale che veniva incontro alla domanda rabbinica sull’interpretazione della clausola del Deuteronomio concernente il caso del divorzio «per una qualsiasi mancanza». Nell’ebraismo si confrontavano due scuole teologiche, l’una più “liberale”, incline a concedere un largo raggio di casi di divorzio (rabbí Hillel), un’altra più restrittiva e orientata ad ammettere solo l’adulterio come giustificazione per il divorzio.

Quale sarebbe, allora, l’eccezione riconosciuta dalla Chiesa giudeo-cristiana ed espressa con il vocabolo greco pornéia? Non può essere, come si traduceva in passato, il “concubinato” non essendo esso un matrimonio in senso autentico, né una generica “fornicazione”, cioè l’adulterio, perché in questo caso si sarebbe usato il termine proprio moichéia. Tra l’altro, è interessante notare che alcune opere dei primi tempi
cristiani – come Il pastore di Erma (IV,1,4-8) – e autori come Clemente di Alessandria (Stromata 2,23) dichiarano che il marito che lascia la sposa adultera non può risposarsi perché permane il precedente legame matrimoniale.

Nel giudaismo del tempo esisteva un termine, zenût, equivalente alla pornéia matteana (“prostituzione”) che indicava tecnicamente le unioni illegittime come quella tra un uomo e la sua matrigna, condannata già dal libro biblico del Levitico (18,8;20,11) e dallo stesso san Paolo (1Corinzi 5,1). In pratica, anche se non era in uso allora questa fattispecie giuridica, si tratterebbe di una dichiarazione di nullità del matrimonio contratto, linea seguita dalla Chiesa cattolica sui casi di nullità del vincolo matrimoniale precedente. Sappiamo, però, che le Chiese ortodosse e protestanti hanno interpretato l’eccezione della pornéia come adulterio e, perciò, hanno ammesso il divorzio, sia pure limitandolo a questo caso. In realtà, la visione di Cristo sul matrimonio era netta e radicale, nello spirito di una cosciente, piena e indissolubile donazione reciproca.

Pubblicato il 21 giugno 2012 - Commenti (3)
24
feb

Non desiderare!

Susanna e i vecchioni del Veronese (1528-1588). Madrid, Museo del Prado.
Susanna e i vecchioni del Veronese (1528-1588). Madrid, Museo del Prado.

"Io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.".
(Matteo 5,28)

Si è spesso ironizzato su questa frase del Discorso della Montagna, mostrandone l’eccesso. D’altronde, non è forse vero che «il desiderio è la liana dell’esistenza», come dice un testo sacro indù, il Dhammapada? La risposta a questo interrogativo e ai relativi corollari sarcastici è duplice. Iniziamo puntando la nostra attenzione sul verbo “desiderare”, in greco epithyméin. Esso rimanda al sottofondo ebraico del nono e decimo comandamento del Decalogo che suonava così: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo» (Esodo 20,17; nel Decalogo parallelo di Deuteronomio 5 si anticipa la donna rispetto alla casa). Là si usava il verbo ebraico hamad, che aveva un valore particolare, ricalcato da quello greco presente nel Vangelo di Matteo.

Di scena con quel termine non era la semplice emozione istantanea e spontanea di fronte a una persona o a una realtà attraente, bensì una decisione profonda della volontà che pianifica un progetto vero e proprio per conquistare l’oggetto del desiderio, anche attraverso una macchinazione o una tensione psicologica intima o una costante concupiscenza. Pensiamo al celebre racconto del c. 13 del libro di Daniele ove quei due anziani tentano di sedurre Susanna, con una passione frenetica e insensata, senza alla fine riuscirvi.

Ecco, Gesù ammonisce che si può compiere adulterio anche senza giungere, forse per motivi estrinseci, a commetterlo realmente, ma solo attuandolo con il cuore, con la scelta interiore, con una programmazione coerente e cosciente di tradimento.

A questo punto introduciamo la seconda osservazione di indole più generale. Essa rimanda al contesto che già in una precedente analisi di un altro versetto matteano del Discorso della Montagna – quello sull’insulto aggressivo al fratello (5,22) – abbiamo puntualizzato. Nell’architettura di quel Discorso ci si imbatte in quelle che sono state chiamate le “sei antitesi” (5,21-48). Gesù, a prima vista, sembra opporre a sei precetti della Legge biblica altrettanti comandamenti suoi, di taglio antitetico. In realtà, come già notava uno studioso, David Daube, nella sua opera del 1956 The New Testament and the Rabbinic Judaism, «la relazione tra le due parti dello schema (“Avete udito... ma io vi dico...”) non è di puro contrasto. Il secondo elemento dell’antitesi rivela il senso racchiuso nel primo, anziché sopprimerlo».

Gesù, quindi, assume l’antico comandamento biblico, ne rifiuta l’interpretazione riduttiva e letteralista che era propria di un certo atteggiamento del suo tempo (e, per certi versi, costante nei secoli) e ne mostra la vera anima, la forza sottesa, qualora quel comandamento sia compreso nel suo significato profondo al di là della lettera.

Anche nel nostro caso del “desiderio” si intuisce questa logica radicale, protesa a celebrare la verità genuina e l’autenticità del matrimonio: «Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio! Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla...» (5,27-28). Cristo propone una spiritualità matrimoniale e una morale sessuale di pienezza che egli vede già iscritta nel sesto comandamento del “non commettere adulterio” (Esodo 20,14), il cui vero valore va oltre il mero dettato letterale del tradimento, ovviamente condannato.

Pubblicato il 24 febbraio 2012 - Commenti (3)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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