27
ott

Il gioco di Dio

Due fanciulli, Pablo Picasso (1952), Musée National Picasso, Parigi
Due fanciulli, Pablo Picasso (1952), Musée National Picasso, Parigi

" Ero con lui come
una giovane,
ero la sua delizia
ogni giorno,
giocavo davanti a
lui in ogni istante,
giocavo sul globo
terrestre..."
                                                                            (Proverbi 8,30-31)

«Mentre la beata Umiliana giaceva nel suo letto, ecco un bambino di quattro anni, dal volto bellissimo. Giocava con impegno proprio nella sua cella davanti a lei che gli disse: “Carissimo bambino, non sai fare altro che giocare?”. E il bambino: “Che altro vuoi che faccia?”. E la beata: “Voglio che tu mi dica qualcosa di bello su Dio”. E il bimbo: “Credi che sia bene che uno parli di sé stesso?”. E con queste parole disparve». Questo episodio della vita della beata Umiliana de’ Cerchi (1219-1246), narrato dal suo biografo, fra Vito da Cortona, ha certamente alla base un’allusione alla frase evangelica sul diventare piccoli come bambini per essere grandi nel Regno dei cieli (Matteo 18,4).

Tuttavia, l’originalità sta nell’applicazione a Dio stesso dell’immagine del bambino che gioca. Ora, nel passo biblico che noi abbiamo estratto da un inno grandioso in cui la Sapienza divina si autopresenta, si ha una sorprendente metafora per definirla: è quella da noi tradotta con «giovane». In realtà, in ebraico abbiamo un termine che non ricorre altrove nella Bibbia, ’amôn (si trova, però, due volte nella variante hamôn) e che potrebbe designare anche un “architetto, artefice”, ma è possibile pure la resa “ragazzo, giovane”.

Sia nell’uno sia nell’altro caso la Sapienza del Creatore – che in questo inno è personificata sotto i tratti di una figura femminile – sarebbe raffigurata con simboli che evocano arte, festa, bellezza. A spingerci verso l’immagine della ragazza è proprio il verbo successivo che per due volte parla di “gioco”. Nelle distese immense dei cieli, negli spazi mirabili della natura Dio sembra del tutto immerso in un atto creativo libero e appassionato, un po’ come accade al bambino quando sta giocando. Tutte le sue energie intellettuali e fisiche sono assorbite in quel piacere intimo e totale. È ciò che si ripete per l’artista quando è coinvolto nella sua attività creatrice: nulla lo distrae e il suo spirito e il suo corpo sono totalmente consacrati all’opera che sta uscendo dalle sue mani.

Ebbene, non di rado in teologia si è ricorsi proprio al simbolo del gioco e della creazione artistica per parlare “analogicamente” di Dio. Chi conosce qualcosa di questa scienza sacra avrà sentito parlare, ad esempio, dell’“analogia estetica” sviluppata dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, oppure di quella “ludica” (cioè legata all’immagine del gioco) suggerita dall’americano Harvey Cox. Il gioco puro, senza l’inquinamento dell’interesse o della violenza come avviene oggi in certi sport, il gioco innocente e libero del bambino può essere un’analogia, cioè un modo umano adatto a descrivere la divinità, la felicità di Dio e in Dio.

L’abbandono di tutto l’essere che l’artista, come si diceva, sperimenta nell’istante creativo si trasforma in un segno visibile dell’infinita perfezione della mente e dell’azione del Creatore. C’è, a questo proposito, un testo molto suggestivo di Lutero che, ammiccando idealmente al passo del libro dei Proverbi da noi proposto, così dipinge la meta ultima della storia e dell’essere: «Allora l’uomo giocherà con il cielo e con la terra, giocherà con il sole e con tutte le creature. Tutte le creature proveranno anche un piacere immenso, un amore immenso, una gioia lirica, e rideranno con te, o Signore, e tu a tua volta riderai con loro».

Pubblicato il 27 ottobre 2011 - Commenti (1)
24
feb

La madre e il suo bimbo

Gioie materne, opera di Stefano Ussi (1822-1901), Firenze, Galleria d’Arte Moderna
Gioie materne, opera di Stefano Ussi (1822-1901), Firenze, Galleria d’Arte Moderna

"Si dimentica forse una donna del suo bimbo, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece mai ti dimenticherò!"
(
Isaia 49,25)

«Il cuore di una madre è un abisso in fondo al quale si trova sempre un perdono ». Così scriveva il romanziere francese ottocentesco, Honoré de Balzac, nella sua opera La donna di trent’anni, illuminando un segreto profondo del cuore materno. È su questa base che si sviluppa anche la stupenda dichiarazione che il profeta Isaia raccoglie da Dio nei confronti del suo «figlio primogenito», come è chiamato nella Bibbia Israele (Esodo 4,22). È interessante notare che una studiosa tedesca, Hanna-Barbara Gerl, anni fa ha elencato, accanto a ottanta immagini maschili applicate dalle Sacre Scritture al Signore, una ventina di tratti femminili e questo versetto isaiano ne è una straordinaria attestazione.

Nello stesso libro profetico più avanti si leggerà quest’altra affermazione divina: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (66,13). Curiosamente a Dio viene a più riprese assegnato un termine ebraico che in prevalenza è applicato alla donna, rahamîm, un vocabolo che designa le “viscere”, il “grembo”. Esso si trasforma in un aggettivo che esprime affetto, clemenza, tenerezza, misericordia. Tra l’altro, la stessa radice che sta alla genesi della parola rahamîm è ripresa dai due attributi «clemente e misericordioso » che il Corano dedica a Dio in apertura a tutte le “sure” o capitoli.

Il Signore fa questa confessione di amore materno proprio quando sta scoprendo le infedeltà di Israele che rincorre altri padri e madri, ossia gli idoli. Per riprendere l’idea di Balzac, il cuore divino perdona sempre, non può “dimenticare” suo figlio (il verbo è ripetuto tre volte), non può non fremere di commozione quando ha ancora tra le braccia la sua creatura amata. E a questo proposito vorremmo di nuovo evocare una scenetta che abbiamo tempo fa presentato nella nostra antologia di frammenti biblici luminosi.
Intendiamo riferirci al Salmo 131 in cui il fedele stesso si rappresenta «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre». Ora, il bambino svezzato non è più il neonato che quasi inconsciamente si attacca per istinto al seno della madre: nell’antico Vicino Oriente lo svezzamento ufficiale avveniva attorno ai tre anni con un rito tribale. Si suppone, quindi, un legame di intimità più consapevole e non un mero rapporto di dipendenza biologica.

È per questo, allora, che la relazione materno- filiale (come la parallela paterno-filiale che pure la Bibbia applica a Dio e al suo popolo) si trasfigura in un simbolo mistico. Basti solo pensare all’“infanzia spirituale” esaltata da santa Teresa di Lisieux che introduce una concezione della fede fortemente personale, in cui l’amore, l’intimità e la donazione trionfano. Rimane, comunque, il primato dell’amore divino che non si «dimentica» mai, che non spegnemai la fiamma del suo ricordo appassionato, che non si lascia stravolgere dall’infedeltà o dalla cattiveria del figlio.
Per usare una colorita espressione di Tertulliano, il primo scrittore cristiano di lingua latina a noi noto, «qualunque ingiuria, quando si scontra contro l’amore, si spunta come la freccia contro un macigno».

Pubblicato il 24 febbraio 2011 - Commenti (0)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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