13 ott
San Giovanni evangelista di Antonie Van Dyck (1599-1641). Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola.
“ Questo è l'amore:
camminare
secondo i suoi
comandamenti.
E il comandamento
che avete appreso
fin dal principio
è questo:
Camminate
nell'amore!"
(2Giovanni 6)
«Dovessi scrivere io un trattato di morale,
avrebbe cento pagine, novantanove
delle quali assolutamente
bianche. Sull’ultima scriverei: conosco un solo
dovere, quello d’amare. A tutto il resto dico no».
Così annotava, nel settembre 1937 nei suoi Taccuini,
lo scrittore ateo francese Albert Camus.
Egli che era, però, un uomo in ricerca coglieva il
cuore della morale cristiana, quell’unico, primo
e fondamentale comandamento che Cristo
ci ha lasciato e che soprattutto l’evangelista
Giovanni ha illustrato, sia attraverso le
parole di Gesù nell’ultima sera della sua vita terrena,
sia con le proprie parole nelle tre Lettere
che recano il suo nome.
Noi abbiamo scelto un frammento della Seconda
Lettera, che è quasi un biglietto di una
manciata di versetti (tredici), così come la Terza
Lettera indirizzata a un non meglio noto Gaio,
un discepolo dell’apostolo, elogiato per la sua
generosa ospitalità verso i missionari cristiani
itineranti. In entrambi i testi l’autore si presenta
come «il Presbitero», l’Anziano, titolo riservato
ai capi delle comunità cristiane e che la tradizione
ha voluto identificare con Giovanni.
Il destinatario, nel nostro caso, è la Chiesa locale,
certamente una comunità dell’Asia Minore,
suggestivamente chiamata «la Signora eletta
da Dio», circondata dai suoi «figli» che sono i fedeli.
Tuttavia, all’orizzonte si intravedono ombre
cupe: «Molti seduttori si sono introdotti nel
mondo: essi non confessano che Gesù Cristo è
venuto nella carne. Costoro sono il seduttore e
l’anticristo!» (versetto 7). Si fa strada quella che
verrà denominata eresia “gnostica” che, volendo
esaltare la purezza spirituale della
“conoscenza” (in greco gnosis) divina, aveva
cancellato la pesantezza della “carne” di
Cristo, giungendo alla negazione dell’Incarnazione,
il mistero cristiano centrale.
San Giovanni, nel prologo innico del suo
Vangelo, era stato netto: il Logos divino, il “Verbo”,
si è fatto sarx, “carne”, in Gesù Cristo
(1,14), inserendosi a pieno titolo nell’umanità.
Ora questa dottrina fondamentale è messa in
crisi. Ma, accanto a questo smarrimento teologico
e ideale, ce n’è un altro morale e pratico: si
sta raffreddando il fuoco dell’amore. Ecco, allora,
l’appello caloroso del passo da noi citato
che evoca «il comandamento nuovo», anzi, «il
mio comandamento», come lo chiamava Gesù,
«che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato
voi» (Giovanni 13,34; 15,12).
Per questo si parla di «un comandamento appreso
fin dal principio», perché ha le sue radici
in Cristo e nel suo lascito spirituale, vincolato
all’esempio stesso della sua donazione nella
morte. Molto intensa è l’immagine che ora «il
Presbitero» presenta ai suoi interlocutori: «camminare
nell’amore». La via è il simbolo della
vita e il cristiano deve avere come insegna
permanente dei suoi giorni e delle sue ore
proprio quella parola, agápe, “amore”, la parola
che brilla negli scritti giovannei e che anche
in questo biglietto affettuoso, sebbene striato
dall’ansia per la degenerazione della fede di
quei cristiani, risplende nell’attesa «di venire
da voi e di poter parlare a viva voce, perché la
nostra gioia sia piena» (versetto 12).
Pubblicato il 13 ottobre 2011 - Commenti (2)
16 giu
Mary Parker (1799-1864), Monte Sinai, acquerello, Londra, Victoria & Albert Museum.
"Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà.”
(Esodo 34,6)
Quelle che noi abbiamo citato sono solo
le prime parole di un passo biblico che
è stato definito da un esegeta francese,
André Gelin, «la carta d’identità di Dio». Prima
di scorrere queste righe, ricostruiamo la scena
che funge da fondale. È l’alba. Mosè si è arrampicato
lungo le pendici erte e pietrose del monte
Sinai, reggendo tra le mani le due tavole
marmoree che dovranno accogliere il nuovo
Decalogo, dopo che le precedenti erano state
spezzate di fronte all’idolo del vitello d’oro eretto
dal popolo (Esodo 32,19-20). La vetta della
montagna sacra è immersa nelle nubi.
Mosè le varca e si trova nell’oscurità che
all’improvviso è squarciata da una voce possente.
È Dio stesso che si autopresenta con le
parole che abbiamo evocato. È un autoritratto
sorprendentemente dolce che si modella
sulla promessa che il Signore stesso aveva fatto
a Mosè quando costui gli aveva chiesto di
poter vedere il suo volto. «No, tu non potrai
vedere il mio volto, perché nessun uomo
può vedermi e restare vivo». Tuttavia, uno
svelamento ci sarà: «Farò passare davanti a te
tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome,
Signore, davanti a te... Ti porrò poi nella cavità
di una rupe e ti coprirò con la mano, finché
non sarò passato. Poi toglierò la mano e
vedrai solo le mie spalle, ma il mio volto non
lo si può vedere!» (Esodo 33,18-23).
Ora Mosè sa che il Dio invisibile è là, davanti
a lui, perché sta proprio proclamando il suo
nome “Signore”, in ebraico il nome sacro e impronunciabile
Jhwh. Ma subito dopo Dio aggiunge
quattro attributi che completano la sua
“carta d’identità”. Il primo è in ebraico rahûm,
che la versione “misericordioso” rende solo in
modo pallido perché il termine originale allude
alle viscere materne, a una sorta di affetto
“viscerale” appunto, totale e assoluto come
è quello di una madre o di un padre. Il secondo
aggettivo è hanûn e anche qui la traduzione
“pietoso” è esangue e debole, perché l’originale
rimanda alla “grazia”, al dono, alla gratuità
di un rapporto d’amore.
La terza qualità divina è la sua paziente attesa
che l’umanità si converta, prima che egli
debba intervenire con la sua “ira”, che in
ebraico è curiosamente (e antropomorficamente)
raffigurata con le “narici” sbuffanti
(’appîm). L’ultimo tratto è affidato a un binomio
di parole che sono quelle tipiche per definire
l’alleanza tra il Signore e Israele. In
ebraico sono hesed e ’emet, “amore” e “fedeltà”,
coppia di termini destinati a esprimere
quella ricca trama di relazioni, di sentimenti,
di affetti che intercorrono tra due persone
che sono legate tra loro da un vincolo d’amore
e da un patto di fedeltà.
La terza qualità divina è la sua paziente attesa
che l’umanità si converta, prima che egli
debba intervenire con la sua “ira”, che in
ebraico è curiosamente (e antropomorficamente)
raffigurata con le “narici” sbuffanti
(’appîm). L’ultimo tratto è affidato a un binomio
di parole che sono quelle tipiche per definire
l’alleanza tra il Signore e Israele. In
ebraico sono hesed e ’emet, “amore” e “fedeltà”,
coppia di termini destinati a esprimere
quella ricca trama di relazioni, di sentimenti,
di affetti che intercorrono tra due persone
che sono legate tra loro da un vincolo d’amore
e da un patto di fedeltà.
A questo punto il nostro frammento si allarga in un canto dell’amore, hesed, di Dio. Esso è modulato su due simboli numerici,
il 1000 e il 3+4 (allusione al 7). La giustizia divina è, certo,
perfetta perché adotta il 7, che in Oriente è segno di pienezza;
l’amore, però, usa il 1000, che è invece indizio di infinito.
Ascoltiamo, allora, le ultime parole che in quell’alba nebbiosa, sulla
cima del Sinai, Dio proclamò a Mosè: «Il Signore conserva il suo amore
per mille generazioni, perdona la colpa, la trasgressione e il peccato;
ma non lascia senza punizione, castiga la colpa dei padri nei figli e
nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (34,7).
Pubblicato il 16 giugno 2011 - Commenti (0)
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