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ago

Il Messia di chi è figlio?

Sacra parentela, dipinto originario della Germania, circa 1500. Philadelphia, Museum of Art.
Sacra parentela, dipinto originario della Germania, circa 1500. Philadelphia, Museum of Art.

"Gesù chiese
ai farisei: «Che
cosa pensate
del Cristo?
Di chi è figlio?».
Gli risposero:
«Di Davide»".


(Matteo 22,41-42)

Questa volta non sono i suoi avversari a punzecchiare Gesù, come accade ripetutamente nella pagina del capitolo 22 di Matteo, una pagina costellata di “controversie”, ossia di polemiche con farisei e sadducei. Ora è lui stesso che provoca i farisei riuniti in un’assemblea, rivolgendo loro il quesito che abbiamo citato, apparentemente banale. Non era, infatti, noto a tutti i lettori della Bibbia che il Messia sarebbe disceso dal filo genealogico davidico? Ricordiamo che la parola “Cristo” è la versione greca dell’ebraico “Messia” (Mashiah) che significa “consacrato”, e che “figlio” è usato spesso in senso lato per indicare un discendente. Dov’è, dunque, la difficoltà?


Essa è da cercare nel prosieguo della discussione. Gesù, infatti, mette sul tappeto del dibattito un celebre Salmo messianico, il 110, ritenuto opera di Davide come si evince dal titolo che gli era stato apposto: «Di Davide. Salmo». L’inno, composto dal famoso sovrano considerato appunto dalla tradizione come l’antenato del Messia, «mosso dallo Spirito » (22,43), inizia con un oracolo divino che è così introdotto: «Disse il Signore [Yhwh Dio] al mio Signore [il re Messia] ». Segue l’oracolo: «Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici sotto i tuoi piedi». Davide, quindi, chiama il Messia «mio signore». Facile è l’obiezione di Cristo: «Se dunque lo chiama “Signore” come può essere suo figlio?» (22,44-45). Se il Messia-Cristo è “figlio di Davide”, come può Davide definirlo suo “Signore” e quindi a lui superiore?


I farisei si trovano impastoiati in una disputa di taglio rabbinico, un genere nel quale peraltro eccellevano. Gesù li avviluppa nella stessa rete che essi più di una volta avevano teso contro di lui con i loro quesiti. A questo punto, però, ci si attenderebbe di vedere come Gesù – qui raffigurato nella veste di un rabbí giudaico – riesca a risolvere la contraddizione tra un Messia contemporaneamente figlio e Signore di Davide, secondo l’analisi appena fatta del Salmo 110. La conclusione di Matteo è spiazzante: «Nessuno era in grado di rispondergli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo» (22,46). Marco, che ambienta questa scena nell’area del tempio di Gerusalemme, senza introdurre i farisei come interlocutori, conclude semplicemente: «la folla numerosa lo ascoltava volentieri» (12,37).


La risposta a quell’apparente contraddizione è ovviamente possibile solo in sede cristiana. Per il giudaismo, infatti, il Messia rimane creatura umana e come tale non potrà essere definito “Signore”. Nel cristianesimo il Cristo ha certamente una reale dimensione storica e, quindi, è ancorato nella sua umanità a una discendenza, quella davidica, attestata dalla genealogia che lo stesso Matteo pone in apertura al suo Vangelo: «Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo » (1,1). Egli è, dunque, realmente «figlio [discendente] di Davide», legato alla linea della promessa messianica (2Samuele 7; Salmo 89). Ma contemporaneamente è figlio di Dio e, in questa luce, è “Signore” di Davide. Il mistero centrale del cristiano, l’Incarnazione, risolve dunque anche l’enigma del Salmo 110, posto da Gesù all’attenzione dei farisei.

Pubblicato il 02 agosto 2012 - Commenti (2)
24
feb

La madre e il suo bimbo

Gioie materne, opera di Stefano Ussi (1822-1901), Firenze, Galleria d’Arte Moderna
Gioie materne, opera di Stefano Ussi (1822-1901), Firenze, Galleria d’Arte Moderna

"Si dimentica forse una donna del suo bimbo, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece mai ti dimenticherò!"
(
Isaia 49,25)

«Il cuore di una madre è un abisso in fondo al quale si trova sempre un perdono ». Così scriveva il romanziere francese ottocentesco, Honoré de Balzac, nella sua opera La donna di trent’anni, illuminando un segreto profondo del cuore materno. È su questa base che si sviluppa anche la stupenda dichiarazione che il profeta Isaia raccoglie da Dio nei confronti del suo «figlio primogenito», come è chiamato nella Bibbia Israele (Esodo 4,22). È interessante notare che una studiosa tedesca, Hanna-Barbara Gerl, anni fa ha elencato, accanto a ottanta immagini maschili applicate dalle Sacre Scritture al Signore, una ventina di tratti femminili e questo versetto isaiano ne è una straordinaria attestazione.

Nello stesso libro profetico più avanti si leggerà quest’altra affermazione divina: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (66,13). Curiosamente a Dio viene a più riprese assegnato un termine ebraico che in prevalenza è applicato alla donna, rahamîm, un vocabolo che designa le “viscere”, il “grembo”. Esso si trasforma in un aggettivo che esprime affetto, clemenza, tenerezza, misericordia. Tra l’altro, la stessa radice che sta alla genesi della parola rahamîm è ripresa dai due attributi «clemente e misericordioso » che il Corano dedica a Dio in apertura a tutte le “sure” o capitoli.

Il Signore fa questa confessione di amore materno proprio quando sta scoprendo le infedeltà di Israele che rincorre altri padri e madri, ossia gli idoli. Per riprendere l’idea di Balzac, il cuore divino perdona sempre, non può “dimenticare” suo figlio (il verbo è ripetuto tre volte), non può non fremere di commozione quando ha ancora tra le braccia la sua creatura amata. E a questo proposito vorremmo di nuovo evocare una scenetta che abbiamo tempo fa presentato nella nostra antologia di frammenti biblici luminosi.
Intendiamo riferirci al Salmo 131 in cui il fedele stesso si rappresenta «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre». Ora, il bambino svezzato non è più il neonato che quasi inconsciamente si attacca per istinto al seno della madre: nell’antico Vicino Oriente lo svezzamento ufficiale avveniva attorno ai tre anni con un rito tribale. Si suppone, quindi, un legame di intimità più consapevole e non un mero rapporto di dipendenza biologica.

È per questo, allora, che la relazione materno- filiale (come la parallela paterno-filiale che pure la Bibbia applica a Dio e al suo popolo) si trasfigura in un simbolo mistico. Basti solo pensare all’“infanzia spirituale” esaltata da santa Teresa di Lisieux che introduce una concezione della fede fortemente personale, in cui l’amore, l’intimità e la donazione trionfano. Rimane, comunque, il primato dell’amore divino che non si «dimentica» mai, che non spegnemai la fiamma del suo ricordo appassionato, che non si lascia stravolgere dall’infedeltà o dalla cattiveria del figlio.
Per usare una colorita espressione di Tertulliano, il primo scrittore cristiano di lingua latina a noi noto, «qualunque ingiuria, quando si scontra contro l’amore, si spunta come la freccia contro un macigno».

Pubblicato il 24 febbraio 2011 - Commenti (0)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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