28 apr
I quattro evangelisti, Jacob Jordaens (1593 - 1678), Parigi, Louvre.
"Erano assidui nel seguire l’insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere. "
(Atti, 2,42)
San Girolamo, nella sua Lettera XIX, definiva
gli Atti degli apostoli – la seconda
opera dell’evangelista Luca, anch’essa dedicata
a un misterioso personaggio di nome
Teofilo – come frutto del lavoro di uno “storico”
accurato e di un “artista” raffinato (il greco usato
è uno dei più eleganti del Nuovo Testamento,
inferiore forse solo a quello della Lettera agli
Ebrei). Ed effettivamente questo libro – fatto di
18.374 parole greche, inferiore quantitativamente
solo al Vangelo dello stesso autore
(19.404 parole) – ci offre un vivace e documentato
ritratto della Chiesa delle origini.
La storia, infatti, s’intreccia sempre con la dimensione
spirituale e teologica.
È il caso del versetto-sommario che vogliamo
approfondire. In esso troviamo le quattro colonne
che reggono l’architettura interiore della
Chiesa di Gerusalemme. Il primo posto è riservato
all’annunzio del Vangelo affidato agli apostoli:
è la didaché e, come suggerisce questo vocabolo
greco, riassume in sé i vari aspetti di
quell’annunzio che è anche “insegnamento” didattico
nella catechesi dei credenti e non solo la
prima proclamazione ai non cristiani (quello
che in greco è chiamato il kérygma, appunto il
primo “annunzio”). Altrove (Atti 6,4) si parla della
«diaconìa della parola», ossia di un servizio
che esige un impegno totale e assoluto da parte
degli apostoli, per cui la «diaconìa della carità»
ai poveri verrà affidata a sette uomini “laici”
che verranno poi chiamati “diaconi”.
Proprio in questa linea, ecco la seconda colonna,
espressa in greco con un termine che è
entrato anche nelle nostre comunità praticanti,
la koinonía. Si tratta della «comunione fraterna
» che fu vissuta con entusiasmo e in
modo concreto in quei primi anni del cristianesimo,
e ciò viene descritto con intensità da
Luca: «La moltitudine dei credenti era un cuor
solo e un’anima sola. Nessuno diceva sua proprietà
quello che possedeva ma tutto era tra loro
comune... Nessuno tra loro era bisognoso
perché quanti possedevano campi o case li vendevano,
portavano il ricavato e lo deponevano
ai piedi degli apostoli perché venisse distribuito
secondo le necessità di ciascuno» (4,32-34).
È quella sorta di “comunismo” religioso e ideale
che rifletteva sia elementi biblici (in Deuteronomio
15,4 si legge: «Non vi sarà nessun bisognoso
in mezzo a voi»), sia componenti giudaiche
e persino di stampo greco pitagorico o stoico.
Non dobbiamo dimenticare, però, che gli
stessi Atti degli apostoli segnalano le prime
difficoltà nell’applicazione di questa
norma comunitaria: il caso di Anania e Saffira
(capitolo 5) è emblematico.
La terza colonna è la “frazione del pane”, come
si dice in greco, ossia il pane eucaristico
spezzato nella celebrazione della comunità liturgica.
E, quarta colonna, «le preghiere»: se
l’Eucaristia era il peculiare rito cristiano, ciò
non toglieva che i primi giudeo-cristiani frequentassero
ancora il tempio di Gerusalemme,
ritrovandosi in un’area specifica, «il portico di
Salomone» (5,12), cantando i Salmi biblici e il
repertorio delle benedizioni e preghiere giudaiche,
dimostrando così un legame vivo con la
propria matrice culturale e spirituale.
Pubblicato il 28 aprile 2011 - Commenti (0)
28 gen
Trasfigurazione, opera di Giovanni Battista Paggi (1554-1627), Firenze, San Marco.
"Io sono la luce del mondo. Chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita."
(Giovanni 8,12)
A Gerusalemme si stava celebrando la festa autunnale delle Capanne, in ebraico sukkôt, commemorazione della lunga peregrinazione del popolo ebraico nelle lande assolate e desolate del deserto del Sinai, mentre cercava di avvicinarsi alla terra di Canaan, la meta dell’esodo dall’oppressione egiziana.
Anche Gesù è in città e partecipa in mezzo alla folla alle celebrazioni del tempio. Uno di questi riti comprendeva l’accensione a sera di grandi falò sulle mura e negli spazi urbani maggiori, così che Gerusalemme in quelle notti era quasi avvolta in un’onda luminosa che squarciava le tenebre.
All’improvviso Gesù – che già nei giorni precedenti (la festa durava una settimana) aveva proclamato a gran voce alcune dichiarazioni destinate a insospettire le autorità religiose fino a spingerle a un tentativo d’arresto – leva ora alta la sua parola.
Si crea silenzio nell’uditorio. Egli, prendendo spunto proprio da quelle fiamme che si innalzano nel cielo stellato d’Oriente, si presenta in modo sorprendente e sconcertante come «la luce del mondo». È noto che, in tutte le culture religiose, la luce è un simbolo di Dio perché riesce a esprimere nettamente due qualità specifiche del divino che i teologi chiamano la trascendenza e l’immanenza.
Da un lato, infatti, la luce è esterna a noi, non la possiamo prendere tra le mani e strappare o dominare, ci “trascende”, ossia ci supera, è “altra” e diversa rispetto a noi, rappresentando quindi il mistero e la distanza che intercorre tra noi e Dio. D’altro lato, però, essa ci avvolge, ci rivela, ci riscalda, ci fa vivere ed è perciò “immanente”, cioè rimane con noi e dentro di noi, raffigurando in tal modo la vicinanza della divinità alle sue creature.
Ecco, allora, giustificati la sorpresa e lo sconcerto che l’affermazione di Gesù suscita tra i presenti: non dimentichiamo che sarà lo stesso Giovanni, nella sua Prima Lettera, a definire Dio proprio così, «luce e in lui non ci sono tenebre» (1,5). L’appello diventa provocatorio: Gesù invita a non guardare più a quelle alte fiamme luminose che brillano nella notte gerosolimitana, ma a cercare un’altra luce che permette di non vivere più sotto l’incubo delle tenebre spirituali. Come è noto, infatti, l’oscurità è il regno del delitto, del vizio, del male: «Quando non c’è luce, si leva l’omicida per assassinare poveri e inermi. Di notte s’aggira il ladro col volto incappucciato e l’occhio dell’adultero spia l’arrivo del tramonto pensando: Nessun altro occhio mi vedrà! Nelle tenebre si forzano le case» (Giobbe 24,14-16).
Per questo, Cristo si definisce anche come «la luce della vita». La sua è una presenza che indica il percorso morale che conduce alla vera vita, che non è soltanto quella fisica, come non è soltanto corporea la vista che poco tempo dopo egli offrirà al cieco nato. Infatti, il racconto del successivo capitolo 9 del Vangelo di Giovanni non approderà soltanto alla gioia di chi riesce finalmente a vedere la luce e i colori della natura, ma anche alla meta di chi potrà proclamare la sua professione di fede in Gesù Cristo, luce della sua vita: «Credo, Signore! E gli si prostrò innanzi» (9,38).
E allora anche tutti noi, «se camminiamo nella luce, come Dio è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri» nell’amore (1Giovanni 1,7).
Pubblicato il 28 gennaio 2011 - Commenti (0)
23 gen
Maestro di scuola del Nuovo Mondo, opera di Diego Rivera, murales, 1928, Città del Messico
"Mi guardai attorno: ed ecco non c’era nessuno, nessuno che fosse capace di consigliare, nessuno da interrogare per
avere risposta." (Isaia 41,28)
Avrà pure un significato il fatto che uno dei doni dello Spirito Santo sia proprio il “consiglio”, ossia la guida offerta alla ricerca, alla domanda, all’attesa umana. Non per nulla il crescere del bambino avviene attraverso una batteria di domande che egli scatena nei confronti dell’adulto perché lo aiuti a decifrare il senso della realtà.
Similmente la scienza si regge e si sviluppa proprio sulla base di interrogativi ai quali si cerca di dare risposta. Ed è sempre nella stessa linea che si spiegano quei “Perché?” angosciati che i sofferenti lanciano verso il cielo, in attesa di un’indicazione di significato che giustifichi tanta amarezza e l’apparente assurdità del dolore.
La missione dell’educatore è, pertanto, indispensabile, come lo è quella del padre, del maestro, del sapiente, del sacerdote, del consigliere, del direttore spirituale e così via. Egli, certo, non deve sostituirsi al discepolo o al figlio, ma aiutarlo a inoltrarsi sui sentieri della vita, del pensiero e dell’azione.
Giustamente un famoso pensatore politico francese, Montesquieu (1689-1755), ammoniva lo scrittore che «non bisogna mai esaurire un argomento al punto tale che al lettore non resti nulla da fare. Non si tratta di far leggere ma di far pensare», vale a dire ricercare e proseguire in proprio, per cui il motto del vero “consigliere” dovrebbe essere quello del Battista: «Bisogna che lui, Cristo [nel nostro caso, il discepolo o il figlio], cresca e che io diminuisca» (Giovanni 3,30).
Questa lunga premessa ci introduce nel frammento suggestivo che abbiamo proposto, estraendolo da una delle prime pagine di quel profeta anonimo del VI secolo a.C., il cui scritto è entrato nei capitoli 40-55 del libro del grande Isaia e per questo è stato denominato il Secondo Isaia.
Egli sta puntando l’indice contro una piaga costante di Israele, quella dell’idolatria. Il fascino di una religiosità più accomodante non può cancellare il vuoto che essa lascia nell’anima. Agli idoli il profeta indirizza questa accusa implacabile: «Voi siete un nulla, la vostra opera non vale niente... Vento e vuoto sono gli idoli» (41,24.29). In particolare essi non sono in grado di indicare un percorso, non sanno certo annunziare il futuro, aprendo prospettive verso le quali orientare l’impegno presente. Essi appunto non possono né consigliare né guidare, non sanno proporre scelte giuste né esortare al bene, incitare, incoraggiare gli infelici.
Per questo, il Secondo Isaia fa balenare un vuoto che è segno dell’abbandono da parte del vero Dio nei riguardi dell’umanità: l’assenza dei profeti autentici, che sono le guide, quasi le fiaccole che conducono nelle tenebre verso una meta di salvezza, evitando i precipizi. È un po’ il ritratto dei nostri giorni, privi di padri e di maestri, tempi nei quali ci si lascia catturare dalla propaganda e dalla pubblicità, dai luoghi comuni e dalla deriva della massa. Scriveva san Paolo al suo discepolo Timoteo: «Verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dar ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2Timoteo 4,3-4).
Pubblicato il 23 gennaio 2011 - Commenti (0)
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