17 feb
Il tre maggio (1808 - 1814), opera di Francisco Goya, Madrid, Prado.
"Non ti vendicherai né coverai rancore contro i figli del tuo popolo. Amerai, invece, il tuo prossimo come te stesso".
(Levitico 19,18)
«Si parla sempre del fuoco dell’inferno.L’inferno è freddo... L’inferno è non amare più». Ho intrecciato due frasi tratte da romanzi diversi dello scrittore cattolico francese Georges Bernanos (1888-1948) per introdurre uno degli appelli biblici più citati. Nella nostra ormai vasta raccolta di frammenti delle Sacre Scritture non poteva, infatti, mancare questo passo che nel suo apice – in ebraico we’ahavtà lere’akà kamôk, «amerai il prossimo tuo come te stesso» – era caro anche a Gesù che lo cita due volte (Matteo 5,48; 22,39), ricordando che è il «secondo comandamento, simile al primo», quello dell’amore per Dio, entrambi fondamento di «tutta la Legge e i Profeti». Su questa scia continuerà san Paolo quando ammonirà che tutti i comandamenti della Legge «si riassumono in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Romani 13,9), dopo aver ribadito ai Galati che «tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (5,14).
Potremmo continuare a lungo nell’elencare quanti hanno trovato in questo precetto l’anima autentica della morale biblica e la sorgente della vera spiritualità.
Per stare ancora alla Bibbia, ricorderò solo la dichiarazione lapidaria
di san Giacomo: «Se adempite il più importante dei comandamenti secondo
la Scrittura: Amerai il prossimo tuo come te stesso, fate bene» (2,8).
Vorrei, invece, fare solo due note sul versetto del Levitico (ossia dei
sacerdoti, i figli di Levi, il terzo libro della Bibbia). In esso,
innanzitutto, si parla esplicitamente dei «figli del tuo popolo», cioè
di Israele. L’impegno dell’amore è, quindi, circoscritto a un orizzonte
preciso, quello della comunità ebraica.
Sappiamo, però, che già i profeti allargheranno questo spazio, invitando a condividere l’amore di Dio per tutte le sue creature:
«Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e
Israele mia eredità» (Isaia 19,25). E i sapienti biblici ricorderanno
che il Signore «ha compassione di tutti… e ama tutte le cose esistenti e
nulla disprezza di quanto ha creato perché, se avesse odiato qualcosa,
non l’avrebbe neppure creata» (Sapienza 11,23-24). Le frontiere saranno abbattute ulteriormente nel cristianesimo
allorché Gesù, commentando proprio il passo del Levitico, presenterà
un’applicazione quasi provocatoria, introducendo anche l’amore per il
nemico e giungendo così alla radice ultima del precetto
anticotestamentario: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri
persecutori» (Matteo 5,44). Il “prossimo” ora è divenuto veramente
l’altro, chiunque e comunque egli sia, un altro che tu trasformi in un
“io” che è come te stesso.
Una seconda nota sull’appello “levitico”. In apertura esso evoca due
realtà antitetiche all’amore: la vendetta e il rancore. A incarnare
nella sua forma estrema questo antipodo della carità è Lamek, il
discendente di Caino che minaccia così: «Uccido un uomo per una mia
scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato
Caino, ma Lamek settantasette» (Genesi 5,23-24). È il canto selvaggio
della vendetta a spirale, della zampata bestiale che gode del sangue
versato, della logica distruttrice della guerra che ignora ogni prossimo
in un empito insaziabile di odio per il nemico. Risuona, allora, per
contrasto l’ideale nuova applicazione del comandamento del Levitico nelle parole che Cristo rivolge a Pietro
che chiedeva: «Quante volte devo perdonare al mio fratello, se pecca
contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù replica: «Non ti dico fino a
sette, ma fino a settanta volte sette!» (Matteo 18,21-22).
Pubblicato il 17 febbraio 2011 - Commenti (0)
10 feb
Offerta di Caino e Abele, maestro Bertram (1340-1415), altare maggiore, chiesa di San Pietro (Amburgo), Hamburger Kunsthalle
"Se stai per presentare la tua offerta all’altare, e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia là il tuo dono, davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello.
Poi torna a offrire il tuo dono."
(Matteo 5,23-24)
La processione dei fedeli sta per accedere al tempio di Sion per offrire i sacrifici
rituali. Alla porta d’ingresso, ecco un
levita che proclama una serie di condizioni
prerequisite per poter essere ammessi al culto.
Quali erano queste clausole di ammissione?
Norme di purità esteriore con abluzioni,
come accadeva in molti templi dell’antichità
o come avviene con le fontane che precedono
le moschee? Prescrizioni sull’abbigliamento,
come leggiamo oggi sui cartelli posti davanti
alle nostre cattedrali o chiese storiche? Anche
l’antica raccolta delle tradizioni giudaiche, il
Talmud, ammoniva che «non si deve salire
sul monte del tempio con le scarpe, né con la
borsa, né con la polvere sui piedi e non si deve
sputare per terra».
Ecco, invece, l’elenco di coloro che sono ammessi
al tempio secondo quel levita: «Chi cammina
con moralità, chi pratica la giustizia,
chi dice la verità dal cuore, chi non ha calunnia
sulla lingua, chi non fa del male al suo
prossimo, chi non insulta il suo vicino, chi
considera spregevole il perverso e onora colui
che teme il Signore, chi non ha esitazioni, anche
se ha giurato a suo danno (nel mantenere
la parola data), chi non presta denaro a usura,
chi non si lascia corrompere contro l’innocente!
». A questo punto ecco la conclusione: «Chi
agisce così, sarà stabile per sempre» e quindi
starà sulla rupe solida del tempio, simbolo
della potenza salvatrice di Dio.
Abbiamo sceneggiato il testo del Salmo
15, perché esso è in qualche modo l’antefatto
del frammento che abbiamo proposto ritagliandolo
da quel fondamentale “Discorso
della Montagna”, considerato – forse un po’
eccessivamente – la “Magna Charta” del cristianesimo
(in verità, nel cuore del messaggio
cristiano si devono porre anche e soprattutto
l’Incarnazione e la Pasqua di Cristo).
Gli studiosi della Bibbia hanno classificato
il Salmo 15 e altri passi analoghi come una
“liturgia d’ingresso” ed è facile capirne il
motivo. L’ingresso al culto è aperto solo se si
ha la coscienza pura e onesta. Anche noi iniziamo
la Messa con l’atto penitenziale in cui
ci riconosciamo peccatori davanti a Dio e ai
nostri fratelli.
I fratelli sono, appunto, al centro del passo
matteano che stiamo considerando. Immaginiamo
allora due fratelli. Uno sta per entrare
nel tempio a pregare e a fare la sua offerta
sacrificale o a partecipare all’Eucaristia. L’altro
fratello è in città: tra i due c’è stata una lite
violenta e non si parlano più, anzi, si detestano.
Il primo sa di questa tensione e vorrebbe
quasi ignorarla. Ecco, però, la voce di Gesù:
lascia lì dono e offerta, rientra in città e
bussa alla porta di tuo fratello e cerca di riconciliarti
con lui. Tutto questo è emblematicamente
rappresentato oggi in un gesto liturgico
divenuto ormai abitudinario e scontato,
quello dello scambio di pace prima di ricevere
l’Eucaristia.
Più significativo al riguardo è il rito ambrosiano
della Chiesa di Milano che pone tale gesto
prima dell’offertorio con questa esortazione:
«Secondo l’ammonimento del Signore,
prima di presentare i nostri doni all’altare,
scambiamoci un segno di pace». Come insegnavano
i profeti, la liturgia senza la vita giusta,
il rito senza la giustizia, la preghiera senza
l’amore sono sgraditi a Dio e rischiano di
essere una farsa. Era ancora Gesù che ripeteva:
«Quando vi mettete a pregare, se avete
qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché
anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a
voi i vostri peccati» (Marco 11,25).
Pubblicato il 10 febbraio 2011 - Commenti (0)
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