Trasfigurazione, opera di Giovanni Battista Paggi (1554-1627), Firenze, San Marco.
"Io sono la luce del mondo. Chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita."
(Giovanni 8,12)
A Gerusalemme si stava celebrando la festa autunnale delle Capanne, in ebraico sukkôt, commemorazione della lunga peregrinazione del popolo ebraico nelle lande assolate e desolate del deserto del Sinai, mentre cercava di avvicinarsi alla terra di Canaan, la meta dell’esodo dall’oppressione egiziana.
Anche Gesù è in città e partecipa in mezzo alla folla alle celebrazioni del tempio. Uno di questi riti comprendeva l’accensione a sera di grandi falò sulle mura e negli spazi urbani maggiori, così che Gerusalemme in quelle notti era quasi avvolta in un’onda luminosa che squarciava le tenebre.
All’improvviso Gesù – che già nei giorni precedenti (la festa durava una settimana) aveva proclamato a gran voce alcune dichiarazioni destinate a insospettire le autorità religiose fino a spingerle a un tentativo d’arresto – leva ora alta la sua parola.
Si crea silenzio nell’uditorio. Egli, prendendo spunto proprio da quelle fiamme che si innalzano nel cielo stellato d’Oriente, si presenta in modo sorprendente e sconcertante come «la luce del mondo». È noto che, in tutte le culture religiose, la luce è un simbolo di Dio perché riesce a esprimere nettamente due qualità specifiche del divino che i teologi chiamano la trascendenza e l’immanenza.
Da un lato, infatti, la luce è esterna a noi, non la possiamo prendere tra le mani e strappare o dominare, ci “trascende”, ossia ci supera, è “altra” e diversa rispetto a noi, rappresentando quindi il mistero e la distanza che intercorre tra noi e Dio. D’altro lato, però, essa ci avvolge, ci rivela, ci riscalda, ci fa vivere ed è perciò “immanente”, cioè rimane con noi e dentro di noi, raffigurando in tal modo la vicinanza della divinità alle sue creature.
Ecco, allora, giustificati la sorpresa e lo sconcerto che l’affermazione di Gesù suscita tra i presenti: non dimentichiamo che sarà lo stesso Giovanni, nella sua Prima Lettera, a definire Dio proprio così, «luce e in lui non ci sono tenebre» (1,5). L’appello diventa provocatorio: Gesù invita a non guardare più a quelle alte fiamme luminose che brillano nella notte gerosolimitana, ma a cercare un’altra luce che permette di non vivere più sotto l’incubo delle tenebre spirituali. Come è noto, infatti, l’oscurità è il regno del delitto, del vizio, del male: «Quando non c’è luce, si leva l’omicida per assassinare poveri e inermi. Di notte s’aggira il ladro col volto incappucciato e l’occhio dell’adultero spia l’arrivo del tramonto pensando: Nessun altro occhio mi vedrà! Nelle tenebre si forzano le case» (Giobbe 24,14-16).
Per questo, Cristo si definisce anche come «la luce della vita». La sua è una presenza che indica il percorso morale che conduce alla vera vita, che non è soltanto quella fisica, come non è soltanto corporea la vista che poco tempo dopo egli offrirà al cieco nato. Infatti, il racconto del successivo capitolo 9 del Vangelo di Giovanni non approderà soltanto alla gioia di chi riesce finalmente a vedere la luce e i colori della natura, ma anche alla meta di chi potrà proclamare la sua professione di fede in Gesù Cristo, luce della sua vita: «Credo, Signore! E gli si prostrò innanzi» (9,38).
E allora anche tutti noi, «se camminiamo nella luce, come Dio è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri» nell’amore (1Giovanni 1,7).
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28 gennaio 2011 - Commenti
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