Annuncio ai pastori, Sano di Pietro (1406 - 1481), Siena, Pinacoteca nazionale.
"L'anima mia è protesa verso il Signore, più che le sentinelle verso l'aurora, più che le sentinelle verso l'aurora."
(Salmo 130,6)
La notte è scesa sulla città col suo sudario
di tenebre e di silenzio. Si odono solo i
passi cadenzati di una pattuglia di sentinelle
che trascorrono le ore notturne tra vicoli
e piazze, in attesa che la prima lama di luce all’orizzonte
segnali la fine del loro turno di
guardia. Grida una di loro all’altra pattuglia
più lontana: «Sentinella, quanto resta della
notte? Sentinella, quanto resta della notte?».
Una voce risponde dal buio: «Sta per venire
il mattino! Ma poi verrà ancora la notte», in
un ciclo senza fine, a cui siamo votati.
Abbiamo voluto ricreare questa scena, evocata
in modo impressionistico in un oracolo
del profeta Isaia (21,11-12), perché essa fa da
ideale sfondo al frammento biblico che abbiamo
scelto, traendolo da uno dei Salmi più celebri
in assoluto, il 130, ossia il De profundis,
così denominato dall’avvio del testo tradotto
in latino, «Dal profondo a te grido, Signore!».
È una piccola supplica poetica fatta di sole 52
parole ebraiche, comprese le particelle; eppure
è stata sempre una sorta di lampada spirituale
accesa sulla strada della conversione
(non per nulla è entrata nella raccolta dei sette
“Salmi penitenziali”), una pagina di meditazione
sul binomio peccato-perdono (Lutero
lo definiva, per questo, Psalmus paulinus,
quasi un’anticipazione del pensiero di san
Paolo) e persino un canto funebre e pasquale
nella tradizione cattolica.
Noi ora per raggiungere il versetto che abbiamo
citato, percorreremo l’intera trama
della supplica. Essa parte con un appello
al “Tu” di Dio che sale dai gorghi
infernali della morte e del male.
Anche il grande tragico Eschilo
nei Persiani s’interrogava così
nel momento della prova: «Io
grido in alto le mie sofferenze
infinite, dal profondo
dell’ombra chi mi ascolterà?
». Una domanda che, però,
rimaneva senza risposta dall’alto dei cieli.
Il Salmista, invece, è certo che la sua colpa
avrà remissione e il suo delitto sarà cancellato.
È così che l’invocazione trapassa dal “Tu”
divino all’“io” dell’orante, che sta appunto
attendendo il perdono e lo aspetta con una
tensione così forte da essere comparabile proprio
all’ansia con cui le sentinelle spiano le
prime luci dell’alba che segnano la fine degli
incubi notturni e della loro veglia.
Puntiamo ancora la nostra attenzione su
questo paragone che in ebraico ha per attori
gli shomrîm. Il vocabolo, che è un participio,
designa genericamente i “vigilanti”, coloro
che vegliano e vigilano. Un termine che, quindi,
ben s’adatta all’immagine della ronda. Il
peccatore è avvolto nell’oscurità della notte
dello spirito ed è proteso verso l’aurora
del perdono e della libertà dalle catene del
suo male. Tuttavia, c’è un’altra categoria di
persone che può essere chiamata shomrîm: si
tratta dei sacerdoti e dei leviti che, a turno, vegliano
nel tempio. Nel Salmo 134,1 si dice: «Ecco,
benedite il Signore, voi tutti ministri del Signore,
voi che state nella casa del Signore [il
tempio di Sion] durante la notte».
La scena sottesa al nostro versetto acquisterebbe,
allora, una tonalità mistica. Se pensiamo
al numero molto elevato dei sacerdoti di
Israele e al sistema di sorteggio con cui venivano
cooptati per presiedere e servire nella liturgia
del tempio, riusciamo a comprendere
la qualità particolare della tensione che reggeva
quella notte che sarebbe sfociata su una
delle rare giornate memorabili della vita di
un sacerdote nel centro della religiosità del
mondo ebraico, più o meno come accade al
sacerdote cattolico nella notte che precede la
sua ordinazione. Attendere il perdono e
l’abbraccio di Dio dev’essere un alto
momento di speranza, perché fa risorgere
una vita, cancella una miseria,
apre un orizzonte di luce e
di intimità con Dio.
Pubblicato il 07 aprile 2011 - Commenti (0)