Poche ore fa, si è diffusa contemporaneamente in tutto il mondo la notizia della morte di Steve Jobs, creatore di Apple. Uomo geniale, coraggioso, sognatore, intraprendente, inflessibile : così ci viene detto sul web in tutte le lingue.
Malgrado i tempi di crisi, di scoraggiamento, di disilluso e crudo realismo, abbiamo bisogno di miti che ci ricordino dove l’uomo può giungere. Ci piace pensare che in una sola persona si concentrino capacità, carattere, volontà, che gli permettano di lasciare nel mondo un’impronta più profonda del nostro essere ‘a immagine e somiglianza’ di Qualcuno Altro.
Non si è mai da soli nel realizzare qualcosa di bello e importante, e anche Jobs avrà avuto i suoi collaboratori con i quali condividere sogni e ansie. Con i quali, prima ancora, imparare a condividere, anche affrontando i conflitti. Penso che anche lui abbia dovuto apprenderlo col tempo, forse all’indomani della sua estromissione, nel 1985, dall’azienda che aveva contribuito a fondare, e alla cui guida sarebbe tornato undici anni dopo.
Si possono apprezzare queste figure, senza cadere nell’idealizzazione o nella commozione effimera che accompagna i grandi eventi mediatici, per quello che hanno fatto e per quello che hanno detto. Quando, nel giugno 2005, Jobs, già malato di tumore al pancreas, fu chiamato a parlare ai neolaureati dell’Università di Stanford, lui, che aveva lasciato gli studi accademici dopo solo 6 mesi, perché costavano troppo per la sua famiglia e non gli davano abbastanza, fece un discorso (che si può trovare facilmente sul web) alto e stimolante. Per noi adulti, e anche per i nostri adolescenti, che a volte ci sembrano così legati ad una quotidianità di scarso respiro.
In quel discorso, classicamente articolato in tre parti, parlò delle sue origini di bambino dato in adozione prima di nascere dai suoi genitori, due studenti (un’americana e uno studente straniero, siriano). Fu così accolto da una famiglia di origine armena, con la promessa che, una volta cresciuto, lo avrebbero mandato all’università. Parlò di sé come di un ragazzo alla ricerca, appassionato di calligrafia: un ragazzo che pieno di paura decideva comunque di seguire la sua curiosità, pagando anche con una scelta di precarietà. Bisogna tollerare queste incertezze, perché da giovani non si sa come andrà. Quale disegno uscirà “unendo i puntini”, lo sapremo solo dopo. Se avremo fede.
La seconda parte è dedicata all’amore e alla perdita. L’insuccesso è parte della vita, perché consente di essere ancora debuttanti, e di ritrovare l’amore per ciò che si è scelto di fare.
Ma è la terza parte quella più intensa e commossa. Là dove parla della morte. Dove, in modo molto pragmatico, Jobs diceva:
“Per gli ultimi 33 anni, mi sono guardato allo specchio ogni mattina e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, farei quello che sto per fare oggi?”. E ogni volta che la risposta è stata “No” per troppi giorni di fila, sapevo che dovevo cambiare qualcosa”.
Il pensiero della morte come strumento per compiere le grandi scelte. Per distinguere ciò che è accidentale da ciò che è autenticamente importante. Parole non nuove, certo, ma testimoniate da una persona che ci raccontava il dramma di una diagnosi infausta, che rendeva presente e vicina la morte. Ma che la percepiva come un formidabile agente di cambiamento e di rinnovamento. Un invito forte a non sprecare e a non disperdere la vita.
Una versione laica e tutta immanente di ciò che chi ha una fede religiosa sente, pur nella paura e nel dubbio che appartengono ad ogni essere umano. La morte è una risorsa per i viventi. E non è l’ultima parola, ma siamo chiamati a vivere anche dopo la fine della vita biologica, se sappiamo alzare lo sguardo, se sappiamo amare, se teniamo viva in noi una fede.
Pubblicato il 06 ottobre 2011 - Commenti (1)