01 dic
Giudizio Universale, angelo con tromba, scuola cassinese. Capua, Sant’Angelo in Formis
" Il Signore,
alla voce
dell'arcangelo
e al suono della
tromba di Dio,
discenderà
dal cielo.
E prima
risorgeranno
i morti in Cristo
e quindi noi,
ancora vivi,
saremo rapiti
con loro..."
(1 Tessalonicesi 4,16-17)
Ora è la seconda città della Grecia, importante
nodo stradale e commerciale,
ricca di monumenti bizantini. Allora
era la capitale della Macedonia e san Paolo
ricordava con piacere l’accoglienza fraterna
che gli avevano riservato i pagani, ma con
amarezza anche la dura reazione degli Ebrei
là residenti, che avevano contro di lui ordito
una sommossa popolare costringendolo a
una fuga indecorosa (Atti 17,1-10). Il fedele
discepolo Timoteo aveva poi recato all’Apostolo,
che si trovava a Corinto, notizie della
neonata Chiesa tessalonicese e dei suoi primi
problemi. Paolo aveva deciso, allora, di inviare
un messaggio a quella comunità, «da leggersi
a tutti i fratelli».
È l’anno 51: è questo il primo scritto paolino
a noi giunto e quasi certamente il primo
testo (cronologicamente parlando) del Nuovo
Testamento. A chi vorrà leggerlo integralmente
verranno incontro tonalità differenti.
C’è il registro autobiografico dei ricordi, segnato
dalla nostalgia, aperto però alla speranza
di un nuovo incontro. C’è il filone teologico
che si sviluppa attorno a tre temi:
l’amore fraterno, il mistero pasquale di Cristo
e la sua parousía o ritorno finale a suggello
della storia. C’è, poi, anche il tema morale
e pastorale: l’Apostolo, in 5,12-28, esorta la
comunità a vivere un’esistenza cristiana perfetta
e pura e lo fa attraverso una sequenza
di quattordici imperativi.
Il nostro frammento testuale si innesta
nel filone teologico, affrontando il tema del
ritorno di Cristo alla fine della storia. Lo scenario
che san Paolo tratteggia è, però, modulato
sul linguaggio apocalittico a quel
tempo dominante che ricorreva a immagini,
metafore e simboli. Così, stando sul vago,
cerca di risolvere un quesito che rodeva l’anima
dei cristiani tessalonicesi, convinti che
quell’ultimo evento fosse imminente. Essi
domandavano: in quell’istante supremo in
cui risorgeranno coloro che sono morti in pace
e in comunione con Cristo, i cristiani ancora
vivi quale sorte avranno?
L’Apostolo ricalca l’apparato delle visioni
epifaniche apocalittiche: cori celesti, trombe
divine, vortici, nubi, cieli squarciati. Non è,
quindi, una descrizione puntuale, ma una
rappresentazione simbolica di quel passaggio
dal tempo all’eterno, dallo spazio terreno
all’infinito di Dio. I morti e gli ancora viventi
entreranno nell’orizzonte trascendente:
ai Corinzi, poi, dirà che «non tutti dovremo
morire [in quel momento estremo], tutti
però saremo trasformati» (1Corinzi 15,51).
Soddisfatta questa curiosità dei Tessalonicesi,
ciò che a Paolo preme è ribadire che il destino
di tutti i fedeli è quello di «andare incontro
al Signore... e così essere per sempre
con lui» (4,17).
Per completezza dobbiamo, però, aggiungere
una nota conclusiva. Contro l’eccitazione
di coloro che, convinti dell’imminenza di
quel momento ultimo, abbandonavano le loro
responsabilità e i quotidiani impegni terreni,
Paolo raccomanda di «fare tutto il possibile
per vivere in pace, occupandosi delle
proprie cose e lavorando con le proprie mani,
come vi abbiamo ordinato, conducendo
una vita decorosa di fronte agli estranei [i
non credenti], senza aver bisogno di nessuno
» (4,11-12). In passato abbiamo già avuto
occasione di registrare come questo appello
sia andato a vuoto, perché – nella Seconda
Lettera che egli indirizzerà ai cristiani di Tessalonica
– l’Apostolo sarà costretto a rivolgere
loro una tirata d’orecchi ricordando che
«chi non vuole lavorare, neppure mangi!» (si
legga 2Tessalonicesi 3,6-15).
Pubblicato il 01 dicembre 2011 - Commenti (2)
06 ott
Pianto di ragazza (1964), opera di Roy Lichtenstein.
“ Il Signore
Dio eliminerà
la morte
per sempre,
asciugherà
le lacrime
su ogni volto,
farà scomparire
da tutta la terra
l'ignominia
del suo popolo."
(Isaia 25,8)
È noto che il “rotolo” di Isaia è, per così dire,
scritto con più inchiostri e a più mani:
diversi, infatti, sono gli autori profetici
che vi prendono parte e differenti sono i
temi, le tonalità e le coordinate storiche. Ora
noi abbiamo ritagliato un versetto da una
sorta di fascicolo di oracoli, intrecciati a suppliche
e inni, che occupa i capitoli 24-27 del
libro del grande Isaia e che gli studiosi hanno
denominato “l’Apocalisse di Isaia”. Le immagini,
lo stile, i soggetti, infatti, hanno le
caratteristiche di quella particolare letteratura
chiamata “apocalittica” (dal greco apokálypsis,
“rivelazione”), che ha il suo avvio
con il profeta Ezechiele, il suo trionfo con Daniele
e con Zaccaria e che approda nel Nuovo
Testamento con l’Apocalisse di Giovanni.
È significativo che proprio quest’ultimo libro
citi esplicitamente il nostro passo isaiano
nel suo glorioso ritratto della Gerusalemme
nuova e perfetta e lo faccia ben due
volte: «L’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il pastore [degli eletti] e li guiderà alle
fonti dell’acqua della vita. E Dio asciugherà
ogni lacrima dai loro occhi... E asciugherà
ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più
la morte né lutto né lamento né affanno perché
le cose di prima sono passate» (Apocalisse
7,17; 21,4). Ritorniamo ora al testo originario,
quello presente nel libro di Isaia. Esso fa
parte di un canto più ampio (25,6-10a) che
ha al centro un simbolo divenuto celebre nella
tradizione giudaica e cristiana.
Lasciamo la parola al profeta: «Il Signore
degli eserciti preparerà per tutti i popoli su
questo monte un banchetto di grasse vivande,
un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti,
di vini raffinati» (25,6). Dio, quindi,
entra in scena come un re che imbandisce
un pranzo ufficiale dal menù prelibato. Sappiamo
che la mensa è un segno di amicizia e
di intimità in tutte le civiltà. Il Signore, perciò,
vuole unirsi idealmente all’intera umanità,
ma lo fa nella sua sede che è il monte
Sion a Gerusalemme.
Per rendere agevole questo afflusso universale
egli deve togliere il velo di nubi che separa
quella vetta, deve eliminare la coltre di tenebra
che come un sudario di morte si stende
sulla terra, così che possa brillare la luce e
tutti possano camminare al suo fulgore.
Quando tutti si sono accomodati ai loro posti
attorno alla mensa, il Signore passa in mezzo
a loro per tergere i segni della sofferenza e
della fatica che contaminano i volti. È un atto
di ospitalità suprema che sfocia in una promessa
assolutamente unica che solo Dio può
fare: «Eliminerà la morte per sempre!».
A questo punto sboccia dalle labbra di tutti
un canto festoso: «Ecco il nostro Dio! In lui abbiamo
sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore
in cui abbiamo sperato; rallegriamoci,
esultiamo per la sua salvezza!» (25,9). È facile
comprendere come questa scena luminosa
e gioiosa sia divenuta il quadro ideale per
raffigurare l’ingresso glorioso del Messia
nella storia. Ma sia anche la rappresentazione
della meta ultima della vicenda umana così
come l’attende la fede biblica, un approdo
nella vita piena e perfetta. È ciò che aveva già
annunziato un altro profeta, Osea, e le sue parole
erano state riprese da san Paolo: «Li strapperò
dalla mano degli inferi, li riscatterò dalla
morte? Dov’è, o morte, la tua peste? Dov’è,
o inferi, il vostro sterminio?» (13,14). Ma il
profeta era ancora scettico; l’Apostolo, invece,
non avrà esitazioni perché commenterà quel
passo così: «Questo corpo corruttibile si rivestirà
di incorruttibilità e questo corpo mortale
di immortalità» (1Corinzi 15,54-57).
Pubblicato il 06 ottobre 2011 - Commenti (2)
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