18 ott
Trasfigurazione di Giovanni Battista Paggi (1554-1627). Firenze, San Marco.
"In verità io vi dico:
vi sono alcuni,
qui presenti,
che non morranno
prima di aver
visto giungere
il regno di Dio
nella sua potenza".
(Marco 9,1)
Frase a prima vista sconcertante,
questa, per quel rimando alla generazione
contemporanea di Gesù
che sarebbe spettatrice o della venuta
del regno di Dio (così nel passo qui citato
di Marco 9,1 e in Luca 9,27) o del «Figlio
dell’uomo che viene nel suo regno
», secondo la variante di Matteo
(16,28). Fermo restando che gli evangelisti
spesso riprendono le parole di Gesù
Cristo incarnandole nel contesto ecclesiale
in cui essi sono immersi, sorge
spontanea una domanda: cosa s’attendevano
di vedere quei primi cristiani
durante la loro vita terrena?
Le risposte date dagli esegeti sono diverse:
Gesù allude alla successiva epifania
gloriosa della sua trasfigurazione
oppure alla sua risurrezione, o ancora
alla distruzione di Gerusalemme del 70,
tutti segni espliciti e “visibili” della venuta
del regno di Dio nella storia. In
realtà, il centro della questione è in
quel «regno di Dio», uno dei temi portanti
della predicazione di Gesù, da lui
desunto dall’Antico Testamento e sviluppato
in modo originale. Si tratta di
una metafora per descrivere il progetto
trascendente ed eterno di Dio nei confronti
della storia umana. Cristo afferma
di essere venuto a rivelarlo e a metterlo
in opera.
Ora, poiché il regno è una realtà eterna,
voluta da Dio per trasformare l’essere,
è in sé “puntuale”, è già “ora” e sempre;
tuttavia, esso si insedia visibilmente
nella storia che è fatta di uno sviluppo,
di un “prima” e di un “poi” e, quindi,
avrà diverse fasi di attuazione.
L’azione di Cristo rende presente il regno
di Dio già da adesso: «Se io scaccio i
demoni per virtù dello Spirito di Dio, è
certo giunto tra voi il regno di Dio»
(Matteo 12,28); «il regno di Dio non viene
in modo da attrarre l’attenzione e
nessuno può dire: “Eccolo qui, o eccolo
là!”. Perché il regno di Dio è in mezzo a
voi» (Luca 17,21).
Eppure, il regno dei cieli è una realtà
che dovrà innervare il futuro e, quindi,
è ancora da attendere. Allora, la frase citata
di Gesù invita a riconoscere la presenza
del regno nella persona e nell’opera
di Cristo: la salvezza che egli compie
con le sue guarigioni e i suoi esorcismi
mostra che quel progetto salvifico è già
in azione e allarga i suoi confini sottraendo
spazio al Male. I contemporanei sono
invitati a scoprirne la presenza viva ed efficace
proprio nella figura di Gesù.
Tuttavia, non si deve immaginare
che Gesù pensi già a una sorta di fine
del mondo e alla sua venuta ultima e
definitiva già entro la sua generazione,
dopo la sua morte e risurrezione.
Ci sono, infatti, varie sue affermazioni
– soprattutto all’interno del cosiddetto
“discorso escatologico” (Matteo 24-25;
Marco 13; Luca 21) – ove a questo presente
s’intreccia il futuro della pienezza
non ancora compiuta nella sequenza
del tempo a cui noi tutti apparteniamo,
sia pure in epoche differenti.
In sintesi, il regno di Dio, essendo
eterno, abbraccia e supera il tempo e,
quindi, si svela in azione in modo forte
con Cristo, la sua opera, la sua parola e
la sua Pasqua durante quella generazione,
ma anche nelle successive. Esso, però,
si proietta nel futuro fino alla “pienezza
dei tempi”, quando il regno avrà
raggiunto la sua attuazione perfetta e
conclusiva.
Pubblicato il 18 ottobre 2012 - Commenti (2)
05 apr
Discesa al Limbo di Andrea Bonaiuti (1346-1379), particolare con i demoni. Firenze, Santa Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli.
"I farisei dissero:
costui scaccia i demoni
per mezzo di Beeelzebul,
principe dei demoni!".
(Matteo 12,24)
Il nome esotico “Beelzebul” è entrato
nel linguaggio generale per indicare
qualcosa di orrido, che impaurisce i
bambini. La sua origine è piuttosto remota.
Dobbiamo, infatti, risalire ai Cananei,
la popolazione indigena della
terra d’Israele, ove questo nome significava
letteralmente “Baal il principe”.
Baal, che vuol dire “Signore”, era l’appellativo
della divinità della fecondità
e della vita.
Questo dio era il principe del pantheon
cananeo e aveva come simbolo il
toro, segno di fertilità (si ricordi la tentazione
di Israele nel deserto: rappresentare
Dio sotto l’immagine di un vitello-
toro d’oro). Siamo, quindi, in presenza
dell’idolo per eccellenza.
Successivamente, proprio per la sua
capacità di tentare il popolo ebraico
all’apostasia, fu considerato «il principe
o il capo dei demoni», come si intuisce
nell’accusa che i farisei scagliano contro
Gesù e che abbiamo proposto per la
nostra decifrazione dei passi più complessi
dei Vangeli. Dobbiamo anche segnalare
che nell’Antico Testamento si
ha la forma “Beelzebub” (2Re 1,2-3): essa
è una deformazione spregiativa che
letteralmente significa “Signore delle
mosche”, un titolo che è stato apposto a
un famoso romanzo pubblicato nel
1954 dallo scrittore britannico William
Golding (in inglese Lord of the Flies).
Ma ritorniamo al testo e al contesto di
Matteo (12,22-30).
Gesù è, dunque, accusato di essere in
combutta con Satana perché riesce a
controllare i demoni con i suoi esorcismi.
La sua replica è semplice e si sviluppa
in due direzioni. Da un lato, fa notare
che è ben assurdo un Satana così autolesionista,
pronto a combattere sé
stesso. Sarebbe simile a un regno o a
una città o a una famiglia in preda a lacerazioni
interne e votata alla rovina.
D’altra parte, Gesù osserva che anche
tra i farisei c’erano alcuni – da lui chiamati
loro “figli”, che nel linguaggio di
allora significava “adepti, discepoli” –
che compivano esorcismi. Anche questi
sono asserviti a Beelzebul?
Conclude la sua argomentazione indicando
il vero principio della sua opera
di liberazione dal male diabolico: «Se io
scaccio i demoni per mezzo dello Spirito
di Dio, allora è giunto a voi il regno di
Dio» (12,28). È la potenza divina che
opera in Cristo a vincere Satana, inaugurando
così il piano di salvezza del
Padre celeste. Dobbiamo aggiungere alla
scena che abbiamo ora descritto un’appendice
che è presente nel cosiddetto
“Discorso missionario” di Gesù. Là egli
afferma: «Un discepolo non è più grande
del suo maestro, né un servo è più grande
del suo signore; è sufficiente per il discepolo
diventare come il suo maestro e
per il servo come il suo signore. Se hanno
chiamato Beelzebul il padrone di casa,
quanto più quelli della sua famiglia!»
(Matteo 10,24-25).
La spiegazione, alla luce della scena
prima descritta, è facile. Anche i discepoli,
infatti, avevano ricevuto questo incarico
dal loro Signore: «Guarite gli infermi,
risuscitate i morti, purificate i lebbrosi,
scacciate i demoni!» (10,8). Ebbene, come
è stato trattato il loro Maestro e Signore,
così anche loro verranno accusati,
forse con più veemenza, di essere
al servizio di Satana-Beelzebul, mentre
anche la loro è una missione sostenuta
dallo Spirito divino liberatore per
l’estensione del regno di Dio.
Pubblicato il 05 aprile 2012 - Commenti (2)
28 apr
I quattro evangelisti, Jacob Jordaens (1593 - 1678), Parigi, Louvre.
"Erano assidui nel seguire l’insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere. "
(Atti, 2,42)
San Girolamo, nella sua Lettera XIX, definiva
gli Atti degli apostoli – la seconda
opera dell’evangelista Luca, anch’essa dedicata
a un misterioso personaggio di nome
Teofilo – come frutto del lavoro di uno “storico”
accurato e di un “artista” raffinato (il greco usato
è uno dei più eleganti del Nuovo Testamento,
inferiore forse solo a quello della Lettera agli
Ebrei). Ed effettivamente questo libro – fatto di
18.374 parole greche, inferiore quantitativamente
solo al Vangelo dello stesso autore
(19.404 parole) – ci offre un vivace e documentato
ritratto della Chiesa delle origini.
La storia, infatti, s’intreccia sempre con la dimensione
spirituale e teologica.
È il caso del versetto-sommario che vogliamo
approfondire. In esso troviamo le quattro colonne
che reggono l’architettura interiore della
Chiesa di Gerusalemme. Il primo posto è riservato
all’annunzio del Vangelo affidato agli apostoli:
è la didaché e, come suggerisce questo vocabolo
greco, riassume in sé i vari aspetti di
quell’annunzio che è anche “insegnamento” didattico
nella catechesi dei credenti e non solo la
prima proclamazione ai non cristiani (quello
che in greco è chiamato il kérygma, appunto il
primo “annunzio”). Altrove (Atti 6,4) si parla della
«diaconìa della parola», ossia di un servizio
che esige un impegno totale e assoluto da parte
degli apostoli, per cui la «diaconìa della carità»
ai poveri verrà affidata a sette uomini “laici”
che verranno poi chiamati “diaconi”.
Proprio in questa linea, ecco la seconda colonna,
espressa in greco con un termine che è
entrato anche nelle nostre comunità praticanti,
la koinonía. Si tratta della «comunione fraterna
» che fu vissuta con entusiasmo e in
modo concreto in quei primi anni del cristianesimo,
e ciò viene descritto con intensità da
Luca: «La moltitudine dei credenti era un cuor
solo e un’anima sola. Nessuno diceva sua proprietà
quello che possedeva ma tutto era tra loro
comune... Nessuno tra loro era bisognoso
perché quanti possedevano campi o case li vendevano,
portavano il ricavato e lo deponevano
ai piedi degli apostoli perché venisse distribuito
secondo le necessità di ciascuno» (4,32-34).
È quella sorta di “comunismo” religioso e ideale
che rifletteva sia elementi biblici (in Deuteronomio
15,4 si legge: «Non vi sarà nessun bisognoso
in mezzo a voi»), sia componenti giudaiche
e persino di stampo greco pitagorico o stoico.
Non dobbiamo dimenticare, però, che gli
stessi Atti degli apostoli segnalano le prime
difficoltà nell’applicazione di questa
norma comunitaria: il caso di Anania e Saffira
(capitolo 5) è emblematico.
La terza colonna è la “frazione del pane”, come
si dice in greco, ossia il pane eucaristico
spezzato nella celebrazione della comunità liturgica.
E, quarta colonna, «le preghiere»: se
l’Eucaristia era il peculiare rito cristiano, ciò
non toglieva che i primi giudeo-cristiani frequentassero
ancora il tempio di Gerusalemme,
ritrovandosi in un’area specifica, «il portico di
Salomone» (5,12), cantando i Salmi biblici e il
repertorio delle benedizioni e preghiere giudaiche,
dimostrando così un legame vivo con la
propria matrice culturale e spirituale.
Pubblicato il 28 aprile 2011 - Commenti (0)
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