24 gen
Cristo sul Calvario incontra la Madre e la Veronica. Francesco Bonsignori, (1455 -1519 ca.), Firenze, Bargello (Scala).
"Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua."
(Luca 8,1-2)
Qualche lettore si chiederà: dov’è
mai la difficoltà in questa frase
che abbiamo sentito tante volte
nelle prediche senza imbarazzarci, anche
perché di croci da portare ne abbiamo
non poche nella nostra vita quotidiana?
Abbiamo voluto proporre questo
lóghion – come lo chiamano gli studiosi
– ossia questo “detto” lapidario di
Gesù, per mostrare in verità quanto minuziosa
debba essere la nostra lettura
dei testi biblici, così da non perdere la
ricchezza delle loro iridescenze tematiche
e delle loro sfumature. Partiamo
innanzitutto dal tema della frase pronunziata
da Cristo.
L’espressione «venir dietro a me» (in
greco opíso mou érchesthai) designa la
sequela del discepolo che deve avere come
emblema di imitazione il suo Maestro
e Signore, muovendo i passi della
vita sul suo stesso sentiero.
Questo percorso
comprende due decisioni. La prima
è il “rinnegare sé stessi”, ossia abbandonare
l’egoismo e l’interesse personale.
È ciò che non farà in quella notte
drammatica san Pietro il quale, anziché
“rinnegare sé stesso”, “rinnega” il
suo Signore (Matteo 26,69-75; Luca
22,54-62).
La seconda scelta da compiere è
quella di avviarsi sulla salita ardua del
Calvario, pronti a essere coerenti fino
alla fine, sacrificando ogni cosa, anche
la stessa vita. Matteo presenta, infatti,
questo detto di Gesù così: «Se qualcuno
vuol venire dietro a me, rinneghi sé
stesso, prenda la sua croce e mi segua»
(16,24).
Come è evidente, l’evocazione
è quella della crocifissione; in altri termini,
l’evangelista, che scrive a una comunità
cristiana contestata e perseguitata,
fa balenare davanti ai loro occhi
anche il rischio del martirio, una scelta
estrema da compiere sulla scia del
suo Signore.
Diverso è il contesto a cui si rivolge
Luca: i cristiani sono poveri e in gravi
difficoltà nell’esistenza quotidiana. Ecco,
allora, la variante che egli introduce
per applicare la frase di Gesù all’esperienza
che i suoi lettori stanno vivendo:
il discepolo «prenda la sua croce ogni
giorno e mi segua». Quell’“ogni giorno”
è significativo perché evoca l’impegno
che si deve assumere nelle vicende giornaliere.
La “croce” diventa il simbolo
di tutte le prove, le fatiche, i sacrifici,
le sofferenze che gravano sulla vita e
che il cristiano accoglie con fedeltà e costanza
come segno della sua adesionesequela
a Gesù.
È questa una sorta di legge evangelica,
tant’è vero che più avanti Cristo ribadisce:
«Colui che non porta la propria
croce e non viene dietro a me, non può
essere mio discepolo» (Luca 14,27). E
non è detto che sia meno impegnativo
portare la propria croce ogni giorno rispetto
all’atto estremo del martirio. È
un po’ quello che affermava Pirandello
in un suo dramma, Il piacere dell’onestà
(1917): «È molto più facile essere un
eroe, che un galantuomo. Eroi si può essere
una volta tanto; galantuomini, si
dev’essere sempre».
Pubblicato il 24 gennaio 2013 - Commenti (4)
30 ago
Cristo in croce di Jean-Baptiste Van Loo (1684-1745). Firenze, Palazzo Pitti.
"Dall'ora sesta
si fece buio
su tutta la terra,
fino all’ora nona."
(Matteo 27,45)
Matteo ha evocato una coreografia di
eventi clamorosi attorno alla morte
di Gesù. Il loro scopo è di presentare
la vicenda finale di Cristo nel suo significato
profondo, “teofanico”, cioè rivelatore
dell’azione divina di salvezza, approdo di
una storia di annunci già offerti dall’Antico
Testamento. È così che l’evangelista convoca
una serie di immagini bibliche per illustrare
il senso autentico e profondo della morte di
Cristo, che si è compiuta in quel pomeriggio
primaverile intorno all’anno 30. Tre sono i segni
introdotti da Matteo.
Il primo è comune anche a Marco e Luca ed
è lo squarcio nel “velo del tempio”, ossia di
quella cortina di porpora, di scarlatto e lino
che nascondeva il Santo dei Santi, la sede
dell’arca dell’alleanza e della presenza di Dio
in mezzo al suo popolo. Facile è intuire il valore
di quel segno: Dio non è più misterioso e
invisibile, ma è visibile in quell’uomo crocifisso,
tant’è vero che il centurione e la sua
scorta esclamano: «Davvero costui era Figlio di
Dio!» (27,54).
Il secondo segno “teofanico” è classico nella
Bibbia, il terremoto accompagnato da
un’eclissi di sole, un evento che in questo caso
non è documentabile storicamente e astronomicamente,
ma il cui valore è simbolico
perché, come accade al Sinai, «tuoni, lampi,
nube oscura» e «il monte che trema molto»
(Esodo 19,16.18) fanno parte della scenografia
dell’ingresso di Dio nell’orizzonte della storia
umana. In tal modo si vuole marcare la trascendenza
e la potenza divina. Il profeta
Amos, per descrivere «il giorno del Signore»,
cioè il suo giudizio sulla storia umana, usa
un’immagine affine: «In quel giorno – oracolo
del Signore Dio – farò tramontare il sole
all’ora terza [mezzodì] e oscurerò la terra in
pieno giorno» (8,9).
Infine, il terzo segno, il più importante per
spiegare il valore ultimo della morte di Gesù:
«I sepolcri si aprirono e molti corpi di santi
morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri,
dopo la sua risurrezione, entrarono nella città
santa e apparvero a molti» (27,52-53). Significativo
è l’inciso «dopo la sua risurrezione
»: la morte e la risurrezione di Cristo segnano
l’inizio del trionfo sulla morte per l’intera
umanità. I membri del popolo di Dio («i
santi morti») sono uniti alla vittoria di Gesù
sulla morte: le loro tombe sono spalancate,
i corpi risorti entrano nella «città santa»,
cioè Gerusalemme nuova e perfetta, mentre
la loro “apparizione” è la testimonianza della
realtà della vittoriosa risurrezione di Cristo
che ha preceduto la loro.
In conclusione, la narrazione matteana della
morte di Gesù non dev’essere letta in modo
cronachistico, ma nella sua densità religiosa.
Certo, l’evangelista offre molti dati storici
e spaziali su quella morte, ma vuole che i
suoi lettori ne colgano il significato profondo,
l’unicità assoluta, la dimensione teologica.
Ed egli lo fa ricorrendo a quei segni biblici
del velo, della tenebra, dei sepolcri aperti e
dei giusti risorti. Quella morte, infatti, non è
solo un evento storico, ma è l’ingresso
della divinità nella caducità
dell’esistenza umana per
trasformarla e introdurla
all’abbraccio con
Dio e l’eterno.
Pubblicato il 30 agosto 2012 - Commenti (4)
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