12 apr
Liberazione di una indemoniata (sec. XV) del Maestro di San Severino. Firenze, Museo Horne.
"I Chi non è con me
è contro di me."
(Matteo 12,30)
"Chi non è
contro di noi
è per noi"
(Marco 9,40)
Abbiamo appaiato due frasi di Gesù
apparentemente contraddittorie.
Da un lato, c’è la frase riferita da
Matteo e ripetuta anche da Luca (11,23)
che sembra presentare un Gesù integralista,
e per derivazione una Chiesa gelosa
della sua esclusività nel possedere la verità
e la salvezza (il famoso detto Extra ecclesiam
nulla salus, fuori della Chiesa
non c’è salvezza). D’altro lato, Marco raffigurerebbe,
invece, un Gesù più “ecumenico”,
aperto ai semi di verità che sono
diffusi in tutta l’umanità. In realtà, l’antitesi
si scioglie se si tiene presente il
differente contesto in cui queste frasi
sono state pronunciate da Gesù.
Partiamo dall’evento che origina la
battuta di Gesù in Matteo e Luca. Come
abbiamo illustrato in una precedente
analisi del passo di Matteo 12,22-29, siamo
di fronte a un dibattito con i farisei
riguardo al tema della lotta contro Satana.
È ovvio che in questa battaglia non
si possono concedere attenuanti o accordi:
il male deve vederci schierati in un
duello e chi non sta dalla parte del bene
è da considerarsi come un avversario.
Chi non è con Cristo in questa lotta
è contro di lui.
Diverso è il caso che fa da cornice alla
frase riferita da Marco. L’apostolo Giovanni
segnala a Gesù un esorcista estraneo
alla comunità cristiana che opera contro
il male satanico nel nome di Cristo, senza
che egli appartenga alla cerchia dei discepoli.
Giovanni l’aveva abbordato e, con
un tipico atteggiamento di autodifesa segnato
da un pizzico di chiusura e di gelosia
di stampo integralistico, l’aveva minacciato:
«Noi glielo abbiamo vietato perché
non era dei nostri» (Marco 9,38).
A questo punto Gesù reagisce proprio
con una dichiarazione di grande
apertura nei confronti del bene ovunque
si manifesti, frase citata dall’evangelista
Marco: «Chi non è contro di noi
è per noi». È curioso notare che questa
frase riflette un proverbio allora molto
diffuso: era usato anche nel mondo romano,
come attesta Cicerone nella sua
arringa Pro Ligario (n. 33).
Si dissolve,
così, l’apparente contraddizione tra i
due detti che, in realtà, contengono entrambi
una loro verità.
Non si deve, comunque, dimenticare
un principio generale che abbiamo
spesso ribadito: le parole di Cristo sono
state conservate dagli evangelisti
non in modo letterale e meccanico, ma
come messaggi vivi da incarnare nelle
varie situazioni vissute dalle comunità
cristiane. Non ci si deve, perciò, impressionare
di fronte a varianti che impediscono
di far combaciare perfettamente
certe redazioni della stessa frase.
Diverso naturalmente è il nostro caso.
Qui, infatti, sono di scena due situazioni
profondamente diverse che meritavano
da parte di Gesù giudizi necessariamente
antitetici.
Pubblicato il 12 aprile 2012 - Commenti (3)
17 nov
Duccio di Buoninsegna (1260 ca.-1318), Maestà, cimasa, apparizione sul monte di Galilea. Siena, Museo dell’Opera Metropolitana
" Andate e fate
discepoli tutti
i popoli...
Ecco, io sono con
voi tutti i giorni,
sino alla fine
del mondo "
(Matteo 28,19-20)
Sono, queste, le ultime delle 18.278 parole
greche di cui si compone il Vangelo di
Matteo, gli ultimi dei suoi 1.070 versetti,
nell’ultimo dei 28 capitoli. In quell’«io sono
con voi» si può facilmente sentire un’eco
dell’«Emmanuele, Dio-con-noi», che aveva
aperto il Vangelo durante il racconto della nascita
di Gesù (1,23). La scena che conclude lo
scritto matteano è grandiosa e ha come fondale
il «monte che Gesù aveva indicato» ai suoi
discepoli, la cui fede è ancora vacillante («essi,
però, dubitavano»). Sappiamo quanto caro
all’evangelista sia il monte come simbolo
evocativo di quell’altra montagna sacra, culla
di Israele, il Sinai: non per nulla egli aveva
ambientato il primo dei cinque discorsi di Gesù
proprio su un monte di Galilea (5,1).
Ora i discepoli sono ancora in Galilea e davanti
a loro non c’è più soltanto quel maestro
che aveva vissuto, mangiato e parlato
con loro, ma il Risorto, e questo non è più un
semplice incontro ma una “cristofania”, cioè
un’apparizione pasquale, un’epifania di
“missione” (28,16-20). Infatti, le parole che
Cristo destina a questi undici apostoli titubanti
(«essi dubitavano», annota infatti
l’evangelista) sono un vero e proprio programma
missionario che si distenderà nei secoli
interpellando tutta la Chiesa. In questo
impegno non appare solo il sacramento
dell’iniziazione cristiana, quello dell’ingresso
nella fede pasquale, ossia il Battesimo, ma
anche l’insegnamento dei precetti di Cristo
che regolano l’intera esistenza del fedele.
Ormai si configura anche l’apertura universalistica
che valica le frontiere di Israele: «Fate
discepoli [si noti questa espressione che è ben
diversa da un semplice “ammaestrare”, come
talora si traduce] tutti i popoli». Si professa anche
la fede trinitaria: il Battesimo è amministrato
«nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo». Si proclama – evocando un passo
del profeta Daniele (7,14) – la signoria cosmica
di Cristo, il Pantokrator, come dirà la
tradizione greca successiva, cioè il sovrano di
tutto l’essere: «A me è stato dato ogni potere
in cielo e sulla terra». Ecco, infine, quella promessa
di essere sempre con noi ogni giorno,
sino alla meta finale dell’aiôn, un termine greco
che di per sé rimanda al tempo storico ma
anche a ciò che è in esso, vale a dire il mondo
e l’umanità. L’idea è, quindi, diversa rispetto
a una pura e semplice «fine del mondo». Si
tratta piuttosto della meta finale verso cui
converge la storia della salvezza; è il fine
più che la fine, è un approdo di pienezza.
Forse Matteo, le cui origini giudaiche affiorano
ininterrottamente nelle sue pagine, allude
alla ripartizione della storia in sette ère, suggerita
dalla tradizione apocalittica.
Ciascuna di esse comprendeva un arco di
mille anni, cifra ovviamente simbolica per
evocare un’immensa distesa di tempo. Si ricalcavano,
così, i sette giorni simbolici della
creazione, come è descritta nel capitolo 1 della
Genesi. Il Cristo risorto si erge, quindi, solenne
su tutta la sequenza della storia che
da Adamo giunge fino al momento estremo
quando «Cristo sarà tutto in tutti» (Colossesi
3,11). Egli si leva, possente e glorioso come
il Risorto dipinto da Piero della Francesca,
sulla sua Chiesa che ora è solo «un piccolo
gregge» di undici dubbiosi, ma che è destinata
ad allargarsi al mondo. E domina anche su
tutto il Vangelo di Matteo che ha celebrato
«Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo
» (1,1), ma anche «Emmanuele, che significa
Dio-con-noi» (1-23).
Pubblicato il 17 novembre 2011 - Commenti (1)
05 mag
La cena a Emmaus, (1622-1623), opera di Diego Velázquez.
"Resta con noi, perchè si fa sera e il giorno volge ormai al tramonto! "
(Luca, 24,29)
«A chi di noi la casa d’Emmaus non è
familiare? Chi non ha camminato
su quella strada, una sera che tutto
pareva perduto? Il Cristo era morto per noi. Ce
lo avevano preso il mondo, i filosofi e gli scienziati.
Non esisteva più nessun Gesù per noi sulla
terra. Seguivamo una strada e qualcuno
era venuto a lato. Eravamo soli e non soli.
Era ormai sera. Ecco una porta aperta, l’oscurità
di una sala ove la fiamma del caminetto rischiara
il suolo e fa tremolare le ombre. Opane
spezzato!... Rimani con noi, perché il giorno declina,
la vita finisce». Abbiamo voluto rievocare
quella pagina indimenticabile del Vangelo di
Luca attraverso la creazione letteraria della Vita
di Gesù (1936) del noto scrittore cattolico francese
François Mauriac.
In quei due discepoli – dei quali è riferito solo
un nome, Cleopa (ossia Cleopatro) – è rispecchiata
la vicenda di tutti i credenti. Anch’essi
camminano lungo quella via che da Gerusalemme
punta verso il villaggio di Emmaus (variamente
identificato dagli archeologi e quindi
un po’ misterioso e “aperto” a tanti luoghi). Condividono
la stessa tristezza e il dubbio. Sono soli
e sfiduciati. Ma ecco accostarsi un ignoto viandante
e qui lasciamo l’applicazione dello scrittore
francese per ritornare alla pagina evangelica
e al suo significato intimo. Il Cristo risorto e
glorioso non è riconoscibile con la pura e
semplice esperienza concreta: si ricordi l’imbarazzante
equivoco di Maria di Magdala che
scambia il Risorto per il custode del giardino cemeteriale
di Gerusalemme (Giovanni 20,14-16).
È necessaria una nuova forma di conoscenza.
Due sono le tappe di questo che è il processo della
fede. Prima c’è l’ascolto delle Scritture spiegate
dal Cristo, ancora ignoto, in chiave cristiana.
Poi si ha lo «spezzare il pane» che, come sappiamo,
nel linguaggio neotestamentario è un rimando
all’Eucaristia.
Ora, se osserviamo attentamente questi due
momenti, ci si accorge che essi riflettono già la
liturgia cristiana che ogni domenica anche noi
celebriamo. Essa comprende la lettura delle
Scritture e la «frazione del pane». Luca, rievocando
quel pomeriggio primaverile di duemila anni
fa, ci suggerisce dunque dove è possibile incontrare
il Cristo risorto, come accadde allora ai
due discepoli di Emmaus: nell’ascolto della parola
di Dio «il cuore arde nel petto», è la prima
tappa del riconoscimento; ma è allo «spezzare il
pane» che «gli occhi si aprono e riconoscono» in
quel viandante il Cristo risorto.
Quell’invocazione, diventata un canto che
spesso ripetiamo – «Rimani con noi perché si fa
sera» –, si trasforma in un inno al Risorto perché
adempia la sua promessa di essere con noi
«tutti i giorni, sino alla fine delmondo» (Matteo
28,20), non solo con la sua «parola di vita» e col
suo «Spirito di verità», ma soprattutto col suo
corpo e il suo sangue donati per noi. È attraverso
l’Eucaristia che anche noi diventiamo
«un solo corpo, perché tutti partecipiamo all’unico
pane» (1Corinzi 10,17). Cantava la scrittrice
tedesca Gertrud von le Fort (1876-1971):
«La polvere dei nostri atomi si raccoglie... / Tu
entri nel cuore della nostra solitudine, / per dischiuderla
come una porta spalancata... / Siamo
un solo corpo e un solo sangue».
Pubblicato il 05 maggio 2011 - Commenti (0)
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