31 mag
San Pietro, mosaico della cupola. Ravenna, Battistero degli Ariani.
"Gesù, voltandosi,
disse a Pietro:
«Va’ dietro a me,
Satana! Tu mi sei
di scandalo...».".
(Matteo 16,23)
Potrà stupire questa versione del celebre monito che Gesù rivolge a Pietro, dopo avergli assegnato il primato tra gli apostoli attraverso i simboli della pietra, delle chiavi e del potere di “legare e sciogliere” (Matteo 16,13-20). Siamo, infatti, abituati al più forte: «Lungi da me, Satana!». L’apostolo aveva reagito in maniera veemente quando Gesù aveva fatto balenare il destino che lo attendeva a Gerusalemme nell’abisso di dolore e di morte della passione: «Signore, questo non ti deve accadere mai!». E Cristo gli aveva opposto un rifiuto netto.
Sarebbe più logico, perciò, pensare a una sorta di rigetto di Pietro che – dopo la sua “confessione” del «Cristo Figlio del Dio vivente», che gli aveva meritato una beatitudine da parte di Gesù – verrebbe “sconfessato” dal suo Signore e definito uno “scandalo”. Il vocabolo in greco indica la pietra che fa inciampare e, quindi, non più la pietra di fondazione della Chiesa, come Gesù gli aveva prima annunciato. A questa resa più dura condurrebbe anche la frase successiva: «Non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini», per non parlare poi del brutale appellativo usato da Gesù, “Satana”, termine di matrice ebraica che significa “avversario, accusatore”, e che rende Pietro non più l’apostolo delegato a rappresentare Cristo nella storia, ma quasi il suo antagonista.
Come si spiega, allora, questa traduzione più edulcorata che troviamo nel nuovo lezionario liturgico? In realtà, essa è fedele all’originale greco hýpaghe opíso mou, “seguimi dietro a me”. È in pratica il tradizionale Vade retro latino che è corretto, ma che noi abbiamo di solito inteso appunto come una reiezione che subentra all’elezione di Pietro. Qual è, invece, il vero significato del monito di Cristo? La risposta è semplice ed è precisata dalla frase successiva di Gesù: «Se qualcuno vuol venire dietro a me (opíso mou elthéin), rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua» (16,24).
Pietro abbandoni, dunque, la sua illusoria concezione di un messianismo fatto solo di gloria e di successo, e si metta umilmente dietro al suo Signore, salendo la strada erta e irta di prove del Golgota. È questo il vero discepolato, altrimenti si è avversari “satanici” di Cristo. La via della croce comincia, perciò, già in quel momento e Pietro è invitato a essere il seguace del suo Maestro, “andando dietro a lui”, pronto anche a «perdere la propria vita per causa mia», come dirà ancora Gesù, così da “trovarla” in un altro modo più alto e intenso.
Questo appello era già stato anticipato da Cristo nel “discorso missionario” rivolto ai suoi discepoli precedentemente: «Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Matteo 10,38). E Pietro testimonierà di aver imparato la lezione della croce, quando si avvierà al martirio che, secondo la tradizione, avvenne per crocifissione. Alcuni pensano che un’allusione a questa meta del discepolato e della stessa vita di Pietro sia nella frase che il Risorto gli rivolge sul lago di Tiberiade, dopo avergli rinnovato la missione di “pascere le pecore” del gregge di Cristo: «Quando sarai vecchio stenderai le tue mani...»; e l’evangelista Giovanni commenta: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio» (21,18-19).
Pubblicato il 31 maggio 2012 - Commenti (2)
18 ago
San Pietro, particolare del mosaico della cupola, Ravenna, Battistero Ariani.
"Tu sei Pietro e su questa pietra
edificherò la mia Chiesa e le potenze dell’Ade non prevarranno su di essa.
(Matteo 16,18)."
Avanza il Papa nel grandioso scenario
della basilica di San Pietro e il coro della
Cappella Sistina intona il canto possente
del Tu es Petrus: è questa un’esperienza
emozionante che tutti i lettori hanno fatto almeno
una volta in vita, giungendo a Roma
come pellegrini.
Era, quindi, necessario che
proponessimo anche noi all’interno della nostra
antologia questo passo biblico capitale,
includendovi idealmente il versetto successivo
che lo completa: «A te darò le chiavi del Regno
dei cieli: ciò che legherai sulla terra sarà
legato nei cieli e ciò che scioglierai sulla terra
sarà sciolto nei cieli» (16,19).
Tre sono i simboli che reggono questo frammento
del Vangelo di Matteo. Il primo e fondamentale
è quello della «pietra» o roccia,
un segno classico nell’Antico Testamento
per indicare la fiducia che solo Dio può dare
in modo incrollabile: «Ti amo, Signore, mia
forza, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore,
mia rupe in cui mi rifugio» (Salmo 18,1-2).
Nella lingua originaria usata da Gesù, l’aramaico,
si usa una sola parola, kefa’ (divenuta
il nostro Cefa) che è «pietra» e «Pietro» senza
variazione di genere, come accade invece in
greco e in italiano. È interessante notare che
nel Nuovo Testamento la pietra fondante è
un simbolo applicato solo a Cristo e a Pietro.
L’Apostolo, quindi, rende visibile nella storia
la “fondazione” primaria e divina di Cristo.
Per questa via Gesù non vuole lasciare isolati
e dispersi i suoi seguaci, ma raccoglierli
in una comunità strutturata, la Chiesa appunto,
un termine greco che significa “convocazione”
da parte di Dio di un’assemblea,
proprio come si aveva nel vocabolo equivalente
ebraico qahal che indicava la “chiamata”
di Dio rivolta a Israele per unirsi in una
“comunità” liturgica e spirituale. Dalla pietra
basilare di fondazione sulla quale si erge la
casa ideale della Chiesa si passa alle «chiavi»
per aprirne la porta ed essere ammessi.
Il simbolo incarna, dunque, l’autorità su
una casa, una città, un regno. È illuminante,
al riguardo, quanto scrive il profeta Isaia in occasione
di un avvicendamento nella carica del
maggiordomo regio di Gerusalemme, in pratica
del primo ministro. A un certo Sebna subentra
Eliakim e a lui si annunzia: «Gli porrò sulla
spalla la chiave della casa di Davide: se egli
apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno
potrà aprire» (Isaia 22,22). È anche qui significativo
notare che solo Cristo e Pietro
hanno in mano questa chiave nel Nuovo Testamento.
Infatti, nell’Apocalisse (3,7) si legge:
«Così parla il Santo, il Veritiero, Colui che
ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno
chiude, quando chiude nessuno apre».
È così pronto attraverso questa metafora –
che ha dato il titolo anche a un fortunato romanzo
di Archibald J. Cronin, Le chiavi del Regno
(1942), dedicato alla missione sacerdotale –
il terzo e ultimo simbolismo, quello del «legare
e sciogliere», parallelo all’«aprire-chiudere» connesso
alle chiavi. L’immagine è ben nota anche
nella tradizione giudaica ed è di stampo giuridico:
il «legare e sciogliere» indica innanzitutto
il potere di giudicare e di perdonare i peccati
nel nome del Signore, come Gesù ripeterà
anche per gli altri apostoli: «Tutto quello che
legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto
quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in
cielo» (Matteo 18,18). E come il Risorto ribadirà,
esplicitando il valore del simbolo, nell’incontro
con gli apostoli la sera di Pasqua: «A coloro a cui
perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro
a cui non perdonerete, non saranno perdonati
» (Giovanni 20,23).
Pubblicato il 18 agosto 2011 - Commenti (1)
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