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mar

Essere mamme a Fukushima

Sono le 14:46 mentre inizio a scrivere, una triste coincidenza con i fatti di questi giorni. Mio marito è al lavoro, i figli più grandi sono nella stanza di là a giocare, C. dorme giù, P. è a scuola. In Giappone, venerdì 11 marzo a quest’ora tutto trema, un terremoto di 8,9 gradi scuote  la terra. Provo a immaginarmi in quell’altrove, raggiungere i miei bambini di là, i mobili che cadono a pezzi. Sentire le loro grida, non sapere da chi andare per primo. Decidere di scendere le scale per portare fuori la piccola e intanto urlare istruzioni ai grandi perché vadano all’esterno. Sentirli gridare disperati e sperare che le loro urla non vengano interrotte da niente. Accorgermi che ai piedi non ho niente, che ho lasciato il cellulare sul tavolo e che nessun grido d’aiuto può raggiungere mio marito. Uscire in strada con la piccola tra le braccia mentre i muri cadono, ordinare ai miei figli di saltare giù, anche se hanno paura, anche se le scale non ci sono più. Vederne sbucare solo uno, smettere di respirare, mentre ancora tutto trema. Restare immobile perché ogni istinto è disarmato. Sentire il cuore che scoppia, avere paura come mai prima. Poi vedere mia figlia in ginocchio che compare all’improvviso. Stringerci tutti forte, pregare, mentre vediamo intorno le case cadere, le persone morire, le macchine incastrarsi nelle voragini.

“Mamma, aiuto, salvaci!” Sentire le loro unghie stringere, vedere i loro occhi sbarrati, increduli. “È la fine del mondo? Moriamo?”. Un minuto interminabile di una giostra mostruosa senza uscite. Poi tutto si ferma.

Cercare tra le facce attorno persone a cui chiedere aiuto. Correre verso la scuola di mio figlio con i bambini addosso, coprire i loro occhi di fronte a tutto, poi senza più farlo, farsi largo tra le rovine. Sperare che la scuola sia in piedi, che le esercitazioni sulla sicurezza siano servite, che mio figlio sia vivo. Sentire le urla attorno. Sentire che niente sarà più come prima.

E se questo non basta, se si è scelto di andare a vivere vicino alla costa, quando la terra si è fermata, quando ci si è sorpresi vivi in mezzo a tanta distruzione, vedere arrivare un mare che si è alzato in piedi. E qui le mani per i figli non possono niente, l’amore di una mamma è poca cosa, dare la vita non basta per salvare. Chi è lontano ha lo spazio di un pensiero, l’istante più doloroso.

E se a tanta distruzione in qualche modo si è riusciti a sopravvivere, guardare all’orizzonte quella nube che non smette di crescere, anche il giorno dopo e quello dopo ancora. “Mamma, perché stai sempre ad ascoltare la tv?” Fare le valigie, rovistando tra i mobili crollati, cercare le proprie cose, quelle più importanti e prepararsi ad andare via perché qui l’aria uccide di una morte radioattiva che non lascia scampo. Vivere sapendo che sui figli incombe una minaccia apocalittica, che non basta qualche km a tener lontano. Chiedersi il perché di quel veleno che mette l’intelligenza dell’uomo in ginocchio.

A tutte le mamme che dovranno sostenere la speranza di fronte agli occhi ignari dei figli.

Come questa tragedia è entrata nelle vostre case? Cosa vi hanno chiesto i vostri figli? In che modo essere vicini a chi si è travato su malgrado protagonista di questo dramma?

Un caro saluto a tutti.

Pubblicato il 18 marzo 2011 - Commenti (0)

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Noi mamme

Barbara Tamborini

Barbara Tamborini, psicopedagogista, autrice di libri sull'educazione. Ha 4 figli.

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