Ieri sera, prima di dormire (almeno così credevo) ho sfogliato 30.08.2010. Immagini e parole di Lulù (Kowalski 2011), il libro fotografico che Shirin Amini con Niccolò Fabi ha realizzato per ricordare una festa. Il 30 agosto 2010, Olivia, la loro Lulùbella, avrebbe compiuto due anni se una forma acuta di meningite non l’avesse colpita. I genitori hanno deciso di festeggiare il suo compleanno comunque, hanno scelto di condividere il dolore per la perdita della figlia con ventimila persone e tanti amici cantanti, realizzando un evento lungo un giorno per finanziare la fondazione “Parole di Lulù” in un progetto di Medici con l’Africa, “un viaggio nel tempo e nello spazio con un nome di bambina tra le labbra, con i propri fantasmi e le proprie speranze davanti agli occhi, e quel mistero dell’esistenza che per un attimo eterno e tenero ci rende davvero fratelli” (il papà). Il sonno se n’è andato. La foto di Lulù nascosta dietro la quarta di copertina mi ha colto di sorpresa.
Poi mio figlio ha cominciato a chiamare: “Mamma, mi fa male la pancia!” e poi anche C. “Mamma, mi sono sporcata!” e così per tutta la notte sono stata sveglia con loro. Noi tre e un virus violento che li tormentava. Una di quelle notti in cui le lavatrici non si contano. Ho avuto tempo per pensare a quanti genitori darebbero la vita per potersi prendere cura ancora dei loro figli, per vederli crescere, a qualsiasi prezzo. Accorgersi di non poter più fare niente per alleviare la sofferenza di un figlio, perderlo quando la vita è ancora tutta da vivere. Le parole possono poco, così anche i gesti, ma in quel poco c’è tutto quello che vale la pena fare per metterci al cospetto del mistero e provare a incontrarlo.
Shirin chiude il libro scrivendo: «Sono felice di aver creato un luogo dove trovarla. Sono felice di voler aprire ancora le braccia». Credere nell’eterno di fronte a un presente sfigurato non è facile. Serve la forza di tante braccia per tenere in piedi una mamma davanti alla croce di un figlio. Servono gambe forti che vanno là dove i genitori ancora non riescono a guardare. E questo è quello che noi genitori dobbiamo fare con Lucio, il papà che dopo cinque ore di lavoro è tornato in macchina per andare a prendere la figlia Elena al nido e si è trovato davanti agli occhi la figlia in fin di vita. Sopravvivere a un figlio dopo averne causato la morte per una dissociazione, per un automatismo fatale è per un padre una pena eterna, un macigno con cui dovrà lottare tutta la vita.
Qualche giorno fa mio figlio più grande giocava a basket in cortile con un amico. Improvvisamente canestro e tabellone sono precipitati a terra, proprio dove di solito gioca la nostra piccolina. Quel canestro l’ho fissato io un paio di anni fa, ho cercato di bloccarlo al meglio. Ho usato delle corde forti, mi sono detta che poi avrei fatto qualcosa di meglio. Avrei fatto… Grazie al cielo tutto è successo quando sotto non c’era nessuno, ma il tonfo del crollo mi ha paralizzato il sangue. È bastata una frazione di secondo per sentire dentro quello che sarebbe potuto essere. Prendersi cura di un figlio non è impresa facile. A volte facciamo del nostro meglio, a volte ci proviamo, in alcuni momenti siamo troppo stanchi per riuscirci ma lo stesso restiamo lì. Quanto il troppo ha il sopravvento sono messe a nudo le nostre debolezza e paghiamo il conto dei nostri errori.
A Lucio non serve certo un processo per capire la sua colpa. Nessuna sentenza lo farà mai sentire innocente e nessuna pena sarà paragonabile al dolore per la perdita di Elena. Lucio non avrà un’altra possibilità con sua figlia per non sbagliare. A Lucio va il mio abbraccio, per quanto poco conti. Mai, neanche per un istante, potrei dire con certezza che una fatalità del genere di certo non mi capiterà. Le parole e le azioni possono poco, ma se tutti insieme proviamo a spingere con Lucio quel masso, può essere che un giorno sulla pietra, spuntino un paio d’ali.
Pubblicato il 25 maggio 2011 - Commenti (7)