di Don Alberto Fusi
In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO AMBROSIANO, curata da don Alberto Fusi.
Si tratta della quarta
domenica di Quaresima, caratterizzata dall’annuale proclamazione del brano
evangelico del cieco nato, nel quale sono raffigurati gli uomini privi del dono
della fede frutto dell’“illuminazione” battesimale.
Il Lezionario
Fa leggere: Lettura: Esodo
17,1-11; Salmo 35 (36); Epistola:
1Tessalonicesi 5,1-11; Vangelo: Giovanni 9, 1-38b. Alla Messa
vigiliare del sabato viene letto: Matteo 17,1b-38b come Lettura vigiliare. (Le
orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della quarta domenica di
Quaresima nel Messale Ambrosiano).
Lettura del libro
dell’Esodo (17,1-11)
In quei giorni. 1Tutta la comunità degli Israeliti levò le tende dal deserto di Sin,
camminando di tappa in tappa, secondo l’ordine del Signore, e si accampò a
Refidìm. Ma non c’era acqua da bere per il popolo. 2Il
popolo protestò contro Mosè: «Dateci acqua da bere!». Mosè disse loro: «Perché
protestate con me? Perché mettete alla prova il Signore?». 3In
quel luogo il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò
contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di
sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?». 4Allora
Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un
poco e mi lapideranno!». 5Il Signore disse a
Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi
in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! 6Ecco,
io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne
uscirà acqua e il popolo berrà». Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani
d’Israele.7E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a
causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore,
dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?».
8Amalèk venne a combattere contro Israele a
Refidìm. 9Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi
alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla
cima del colle, con in mano il bastone di Dio». 10Giosuè
eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè,
Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. 11Quando
Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva
Amalèk.
Il brano è ambientato nel deserto dove Israele, in seguito agli eventi
strepitosi presso il Mar Rosso, è in marcia verso la terra della promessa. Qui
viene letto il racconto dell’acqua scaturita miracolosamente dalla roccia: vv.
1-7 e i versetti iniziali di quello riguardante la battaglia contro Amalèk, una
popolazione ostile a Israele il quale può riportare vittoria a motivo della
preghiera di Mosè a mani alzate (vv. 8-11). La prima parte riguarda anzitutto
la protesta contro Mosè del popolo assetato ed espressa con il verbo mormorare
che è il verbo della ribellione anche contro Dio (vv. 1-3). Alla mormorazione
del popolo segue la supplica di Mosè a Dio e la pronta risposta del Signore che
gli ordina di battere la roccia con il suo bastone operatore dei grandi prodigi
dell’Esodo dall’Egitto, cosa che egli prontamente eseguì (vv. 4-6). Il v. 7
precisa che Mosè chiamò quel luogo, testimone della ribellione a Dio e del
prodigio dell’acqua dalla roccia: Massa, ossia “prova”, e Meriba, ossia
“disputa”.
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi (5,1-11)
1Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne
scriva ;2infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un
ladro di notte. 3E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!»,
allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e
non potranno sfuggire. 4Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre,
cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. 5Infatti
siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla
notte, né alle tenebre. 6Non dormiamo dunque come gli altri, ma
vigiliamo e siamo sobri.
7Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano,
di notte si ubriacano. 8Noi invece, che apparteniamo al giorno,
siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come
elmo la speranza della salvezza.9Dio infatti non ci ha destinati
alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù
Cristo. 10Egli è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che
dormiamo, viviamo insieme con lui. 11Perciò confortatevi a vicenda e
siate di aiuto gli uni agli altri, come già fate.
Il
brano appartiene alla seconda parte della lettera (4,1-5,22), dedicata alle
istruzioni sulla vita cristiana. Qui, in particolare, l’Apostolo affronta la
questione della venuta finale del Signore e, quindi, della sua attesa. Questa
si caratterizza per i credenti, definiti «figli della luce e figli del giorno»
(v. 5), come una vigile attesa (vv. 1-5) che esige un comportamento sobrio e
una speciale dotazione qual è la fede, la carità e la speranza, indicate
rispettivamente, con il ricorso a immagini prese dal mondo militare, le prime
due come corazza e la speranza come elmo protettivo (vv. 7-8). Il brano si
chiude con l’ annuncio salvifico della morte del Signore generatrice, nei
credenti, della vita da vivere «insieme con lui» (v. 10).
Lettura del Vangelo secondo Giovanni (9,1-38b)
In
quel tempo. 1Passando, il Signore Gesù vide un uomo cieco dalla
nascita 2e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato,
lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». 3Rispose Gesù: «Né
lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le
opere di Dio. 4Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha
mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. 5Finché
io sono nel mondo, sono la luce del mondo». 6Detto questo, sputò per
terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7e
gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» - che significa Inviato.
Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
8Allora i vicini e quelli che lo avevano visto
prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a
chiedere l’elemosina?». 9Alcuni dicevano: «E’ lui»; altri dicevano:
«No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». 10Allora
gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». 11Egli
rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli
occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e lavati!”. Io sono andato, mi sono lavato e
ho acquistato la vista». 12 Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose:
«Non lo so».
13Condussero dai farisei
quello che era stato cieco: 14era un sabato, il giorno in cui Gesù
aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. 15Anche i
farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli
disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». 16Allora
alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva
il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di
questo genere?». E c’era dissenso tra loro. 17Allora dissero di
nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli
occhi?». Egli rispose: «E’ un profeta!». 18Ma i Giudei non
credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista,
finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19E
li interrogarono: «E’ questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco?
Come mai ora ci vede?». 20I genitori di lui risposero: «Sappiamo che
questo è nostro figlio e che è nato cieco; 21ma come ora ci veda non
lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo
a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». 22Questo dissero i suoi
genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già
stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso
dalla sinagoga. 23Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età:
chiedetelo a lui!». 24Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era
stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un
peccatore». 25Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una
cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». 26Allora gli dissero: «Che
cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». 27Rispose loro: «Ve
l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete
forse diventare anche voi suoi discepoli?». 28Lo insultarono e
dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! 29Noi
sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». 30Rispose
loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia,
eppure mi ha aperto gli occhi. 31Sappiamo che Dio non ascolta i
peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. 32Da
che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a
un cieco nato. 33Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto
far nulla». 34Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni
a noi?». E lo cacciarono fuori.
35Gesù seppe che l’avevano
cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». 36Egli
rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». 37Gli disse
Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». 38Ed egli disse:
«Credo, Signore!».
Il brano è strutturato in tre parti. La prima,
vv. 1-12, riporta la narrazione del “miracolo” e la reazione dei presenti; la
seconda: vv. 13-34 riporta la reazione dei farisei con il duplice
interrogatorio del “miracolato” (vv. 15-17; 24-34) e dei suoi genitori
(vv.18-23); la terza (vv. 35-39) propone il dialogo tra Gesù e il miracolato
che professa la sua fede in lui. Nella prima parte il racconto del miracolo è
preceduto dal dialogo di Gesù con i suoi discepoli convinti che la condizione
del cieco dalla nascita sia dovuta a
colpe commesse da lui o dai suoi genitori (v. 2). Gesù esclude il nesso
cecità-peccato e afferma che nell’uomo, nato cieco, Dio manifesterà le sue “opere”
che riguardano l’illuminazione del mondo mediante il suo Figlio entrato in esso
come “luce” (v. 3). La narrazione del miracolo (vv. 6-7) sorprende per i gesti
di Gesù che, dopo aver fatto del fango con la sua saliva, lo spalma sugli occhi
del cieco con l’ingiunzione di recarsi alla piscina di Siloe, «che significa
Inviato». Con quel gesto Gesù intende far capire che l’uomo è di per sé
prigioniero delle tenebre da cui potrà essere liberato recandosi
dall’“Inviato”, ossia credendo in lui che è venuto nel mondo proprio per
compiere tale “opera”. La prima parte si chiude con la constatazione
dell’avvenuta guarigione del cieco nato da parte dei conoscenti (vv. 8-12) e
soprattutto con le domande sul “come” abbia ottenuto la vista; domande che
saranno riprese drammaticamente nella seconda parte del racconto.
Questa si apre con il miracolato condotto dai
farisei, esperti dottori e maestri della Legge, i quali prendono da subito una
posizione negativa nei confronti di Gesù il quale, «facendo del fango», ha
violato il precetto fondamentale per Israele del riposo sabbatico. Sorprende la
reazione decisa del guarito nel dichiarare che Gesù è un profeta (v. 17). Con
ciò l’evangelista mostra come la vera guarigione dell’uomo consiste nella sua
adesione di fede in Gesù rivelatore di Dio. Il cieco che ora vede è, al
contrario dei farisei che si ostinano nel rimanere chiusi all’opera di
illuminazione del Signore, l’esemplare per ogni uomo che gradatamente giunge
alla pienezza di luce ossia alla pienezza di fede in lui: è «un profeta» (v.
17); «viene da Dio» (v. 33); «Figlio dell’uomo» (v. 35).
Il racconto si conclude con Gesù che volutamente
va a cercare e trova il miracolato cacciato fuori dalla Sinagoga (vv. 34-35)
per proporgli di aderire a lui che racchiude in pienezza il mistero del Figlio
dell’uomo che, in verità, è il Figlio di Dio!
La risposta finale del
cieco che ora vede per la prima volta il Signore è una decisa professione di
fede resa evidente dall’esplicita affermazione: «Credo, Signore». In tal modo il
cieco nato, illuminato dal Signore, diviene il prototipo e l’esemplare per
tutti i credenti.
Commento
liturgico-pastorale
Avvicinandosi le solennità pasquali i testi
biblici, oggi proclamati, intendono accompagnare e favorire una più immediata
preparazione al Battesimo, prima attualizzazione della salvezza pasquale, e
propiziare, nei già battezzati, la riscoperta e, se è il caso, l’impegno a
recuperarne la grazia persa con il peccato.
Anche la nostra tradizione liturgica, infatti,
ha letto in chiave battesimale sia l’evento vetero-testamentario dell’acqua
scaturita dalla roccia (cfr. Lettura: Esodo 17,6), sia il racconto
evangelico della guarigione dell’uomo, cieco dalla nascita, da sempre
riconosciuto come “essenziale” nella catechesi di preparazione al Battesimo.
Ne fa fede il Prefazio I, appartenente
all’antica scuola eucologica ambrosiana che ne sintetizza così il significato: «Nel mendicante guarito è raffigurato il genere umano prima nella
cecità della sua origine e poi nella splendida illuminazione che al fonte
battesimale gli viene donata».
In questo
contesto l’immersione nell’acqua battesimale, evocata dalla piscina di Siloe,
rappresenta il passaggio dall’oscurità totale, che è l’incredulità, alla grazia
di “vederci”, ossia di pervenire alla fede che il Vangelo rende plasticamente
nel cieco guarito che vede con i suoi occhi Gesù! È lui, Gesù, il Figlio la
“luce vera” che al credente è concesso di guardare in faccia, “a viso
scoperto”. In effetti è fin troppo evidente registrare ieri, come oggi, che
l’umanità, priva dell’illuminazione propria del dono battesimale della fede,
vive in un’interiore totale “oscurità”.
L’uomo di fatto
non sa chi è, qual è il senso della sua vita, qual è il destino che l’attende.
Egli è nella solitudine più drammatica e infelice finché non incontra Colui che
è la “Luce del mondo” che gli indica il cammino da compiere: «Va’ a lavarti
alla piscina di Siloe» (Vangelo: Giovanni 9,7), immergiti cioè nel dono
battesimale che apre il tuo cuore alla fede. Ti sarà allora permesso di “vedere
Gesù” e, in lui, di comprendere finalmente anche te stesso e il senso del tuo
esistere e del tuo destino, quello di essere elevato «con il sacramento della
rinascita… alla dignità di Figlio”».
Pertanto, ciò che
conta più di ogni altra cosa è poter “vedere”, ossia riconoscere con fede, nel
Signore Gesù, la “luce del mondo”. È questa la splendida “illuminazione” che ha
portato il cieco nato a confessare con piena adesione a colui che afferma di
essere il “figlio dell’uomo”(Giovanni 9,35-38): «Credo, Signore!». Ad essa,
purtroppo, al pari dei farisei, non pochi chiudono ostinatamente il loro cuore
racchiudendosi da sé stessi in una notte tenebrosa senza fine.
A ragione,
perciò, l’Apostolo si rivolge ai fedeli di Tessalonica dicendo: «Siete tutti figli
della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle
tenebre» (Epistola: 1 Tessalonicesi 5,5). Queste parole si addicono,
dunque, a quanti sono stati “illuminati”ovvero a quanti, per mezzo del
Battesimo, costituiscono il popolo dei fedeli e, simultaneamente, rappresentano
un monito a non ritornare nelle “tenebre” dell’incredulità facendosi trascinare
dal fascino oscuro del peccato.
Per questo
l’Apostolo esorta a vivere nella sobrietà e a vestirsi «con la corazza della
fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza» (v. 8). Si
tratta di esortazioni che noi tutti siamo invitati ad accogliere di buon animo
improntando la nostra vita sull’insegnamento apostolico che ci preserva dallo
scivolare di nuovo nelle “tenebre”. Per questo abbiamo bisogno di immergerci
continuamente nel flusso di grazia che fuoriesce dal Cristo Crocifisso che
accostiamo nei divini misteri.
A lui, consapevoli della nostra debolezza, affidiamo l’inestimabile
dono battesimale che ci ha fatti «figli della luce» (v.5) e quello ancora più
grande, frutto della sua morte «per noi», quello di vivere «insieme con
lui»(v.10), di condividere cioè la sua vita che sperimentiamo già da ora,
accostandoci al suo altare così pregando: «Signore, dà luce ai miei occhi
perché non mi addormenti nella morte; perché l’avversario non dica: “Sono più
forte di lui”. Tu che hai aperto gli occhi al cieco nato, con la tua luce
illumina il mio cuore perché io sappia vedere le tue opere e custodisca tutti i
tuoi precetti» (All’Ingresso).
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3 Marzo 2013 – Domenica di Abramo – Anno C
È la terza domenica di Quaresima, caratterizzata dalla figura di Abramo, considerato padre di tutti coloro che aprono il loro cuore alla fede e, perciò, modello per quanti intendono percorrere il cammino di fede sulle orme del Signore Gesù.
Il Lezionario
Prescrive: Lettura: Deuteronomio 6,4a;18,9-22; Salmo 105 (106); Epistola: Romani 3,21-26; Vangelo: Giovanni 8,31-59. La Lettura vigiliare della Messa vespertina del sabato è presa da Luca 9,28b-36. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della III domenica di Quaresima nel Messale Ambrosiano).
Lettura del libro del Deuteronomio (6,4a; 18,9-22)
In quei giorni. Mosè disse: «6,4aAscolta, Israele: 18,9Quando sarai entrato nella terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti, non imparerai a commettere gli abomini di quelle nazioni. 10Non si trovi in mezzo a te chi fa passare per il fuoco il suo figlio o la sua figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o il presagio o la magia, 11né chi faccia incantesimi, né chi consulti i negromanti o gli indovini, né chi interroghi i morti, 12perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore. A causa di questi abomini, il Signore, tuo Dio, sta per scacciare quelle nazioni davanti a te. 13Tu sarai irreprensibile verso il Signore, tuo Dio, 14perché le nazioni, di cui tu vai ad occupare il paese, ascoltano gli indovini e gli incantatori, ma quanto a te, non così ti ha permesso il Signore, tuo Dio.
15Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. 16Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”. 17Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. 18Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. 19Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. 20Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”. 21Forse potresti dire nel tuo cuore: “Come riconosceremo la parola che il Signore non ha detto?”. 22Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta l’ha detta per presunzione. Non devi aver paura di lui».
Il brano fa parte del secondo lungo discorso di Mosè in vista dell’ingresso del popolo nella terra promessa (Deuteronomio 4,44-28,68). Qui, in particolare, il popolo viene esortato a «evitare gli abomini» delle nazioni, ovvero le pratiche idolatriche e di divinazione che hanno attirato la punizione divina su di esse (vv. 9-14). Il v. 15 contiene la promessa, ripetuta al v. 18, di un profeta pari a Mosè, in base alla quale Israele aspettava il Messia come il profeta per eccellenza. Promessa che, nell’interpretazione neotestamentaria, si considera attuata nella persona di Gesù Cristo (cfr. Atti degli Apostoli 3,22-26). A quel profeta tutti devono dare ascolto. I vv. 20-22 si riferiscono ai falsi profeti, a quanti cioè presumono di parlare a nome di Dio e offrono opportuni criteri per mascherarli.
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (3,21-26)
Fratelli, 21ora, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: 22giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, 23perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù.25 È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati 26mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù.
Il brano è preso dalla parte dottrinale della lettera e in particolare da quella in cui, dopo aver dimostrato l’incapacità della Legge di rendere gli uomini “giusti”, si afferma che tale “giustificazione” è opera della grazia di Dio in Cristo. I vv. 23-24 presentano anzitutto la situazione comune a tutti gli uomini, sia Giudei che pagani, quella di peccatori privi perciò della gloria di Dio, ovvero dell’intima presenza divina in essi. Da questa situazione sono «giustificati gratuitamente» in quanto Gesù li ha redenti, ossia li ha riscattati e liberati dal dominio del peccato. I vv. 25-26, infine, tornano sull’opera salvifica in Cristo, stabilito da Dio «come strumento di espiazione» in quanto egli, nel suo sangue, ha compiuto realmente la purificazione dal peccato. E ciò «nel tempo presente», quello cioè stabilito da Dio per l’opera redentrice di Cristo, il quale giustifica ossia dona la sua giustizia salvifica a quanti credono in lui.
Lettura del Vangelo secondo Giovanni (8,31-59)
In quel tempo. Il Signore 31Gesù disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; 32conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». 33Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?». 34Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. 35Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. 36Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. 37So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. 38Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro». 39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!». 42Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. 43Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. 44Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. 45A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. 46Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? 47Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio».
48Gli risposero i Giudei: «Non abbiamo forse ragione di dire che tu sei un Samaritano e un indemoniato?». 49Rispose Gesù: «Io non sono un indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me. 50Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica. 51In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno». 52Gli dissero allora i Giudei: «Ora sappiamo che sei un indemoniato. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: “Se uno osserva la mia parola, non sperimenterà la morte in eterno”. 53Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?». 54Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: “È nostro Dio!”, 55e non lo conoscete. Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola. 56Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». 57Allora i Giudei gli dissero: «Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?». 58Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono». 59Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.
La seconda parte del capitolo 8, da cui è preso il brano evangelico odierno, è contrassegnata dal riferimento ad Abramo come padre di Israele. Qui viene riportato l’insegnamento di Gesù nel tempio di Gerusalemme e destinato sostanzialmente a rivelare la sua più piena identità di Figlio di Dio, partecipe cioè della natura divina del Padre. Insegnamento che suscita la reazione dei farisei ma anche un’iniziale adesione di fede da parte di molti che lo seguivano e lo ascoltavano. Il brano appare diviso in due sezioni: i vv. 31-45 riguardano la necessità di credere, mentre i vv. 46-59 insistono sulla necessità di credere alla persona di Gesù. In particolare i vv. 31-36 riportano le parole di Gesù «a quei Giudei che gli avevano creduto» almeno inizialmente e che ruotano attorno all’opposizione libertà/schiavitù del peccato. La libertà è garantita a coloro che “rimangono” nella Parola di Gesù. I vv. 37-40 introducono il tema di Abramo come padre del quale, però, quelli che con orgoglio si proclamano figli non compiono le opere, vale a dire non si pongono in quella disponibilità di fede propria di Abramo! Per questo essi non possono proclamarsi figli di Dio rifiutando di credere in colui che è uscito da Dio ed è stato da lui inviato, ma, con tale rifiuto, dimostrano di essere figli del diavolo (vv. 41-45). Nei vv. 46-50 si insiste sul fatto che Gesù “dice la verità”, in quanto, con la sua Parola, offre l’autentica e piena rivelazione di Dio al contrario dei suoi interlocutori che rifiutandola preferiscono seguire la menzogna.
Di qui la solenne proclamazione del v. 51: «In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno», che costituisce un estremo appello rivolto da Gesù ai suoi interlocutori perché si aprano all’ascolto e all’osservanza fedele della sua parola che garantisce di poter sfuggire alla morte da intendere come “eterna”, ovvero come dannazione. Modello di un simile ascolto obbediente è proprio Gesù che, essendo il Figlio, “conosce” Dio, accoglie e osserva la sua volontà (v. 55).
Il brano si chiude con la parola di autorivelazione che il Signore pronuncia a riguardo di sé stesso: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono». Con ciò afferma che Dio, che è l’Unico, può essere trovato e riconosciuto nel Figlio e, di conseguenza, in lui è trovato e riconosciuto come Padre! A questa rivelazione anelava Abramo il quale, a motivo della sua fede, poté vedere e gioire del Figlio rivelatore di Dio Padre! Il v. 59 registra infine la reazione violenta dei Giudei che, chiudendosi ostilmente al Figlio rivelatore del Padre, determinano il suo “nascondersi” ai loro occhi e la sua uscita dal Tempio.
Commento liturgico-pastorale
Nel graduale percorso quaresimale proposto a coloro che domandano il Battesimo e ai fedeli che, attraverso quel percorso, intendono riattivare la grazia propria di quel sacramento, il brano evangelico, costruito intorno alla figura di Abramo, il credente per eccellenza, intende evidenziare come la fede in Cristo, Figlio di Dio, sia da considerare l’opera essenziale per quanti nel Battesimo diventeranno “figli” ed entreranno a far parte di quella «moltitudine di popoli, preannunziati al patriarca Abramo come sua discendenza» (Prefazio I). Stando al testo evangelico, credere in Cristo significa credere che egli è il portatore della verità, ossia della rivelazione piena e definitiva di Dio che, se accolta, è in grado di liberare quanti sono schiavi del peccato (cfr. Vangelo: Giovanni 8,32). Si tratta di una schiavitù che paralizza il cuore umano e lo rende incapace di credere e, dunque, di giungere a essere libero e pronto per le cose grandi che Dio ha in serbo per lui. Credere in Cristo significa, inoltre, credere che in lui si adempie l’antica promessa di Dio a Israele: «Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò» (Lettura: Deuteronomio 18.18). Gesù, però, non è semplicemente il profeta pari a Mosè (cfr. v.15), bensì il Messia, il Figlio stesso di Dio, la sua Parola vivente, dopo del quale l’umanità non dovrà aspettare un altro rivelatore. A lui, perciò, tutti sono invitati a prestare ascolto perché portatore, nella sua persona, della Parola che Dio vuole comunicare al mondo e sulla cui bocca è posta la «verità intera», ossia la rivelazione del disegno di salvezza che Dio intende attuare proprio attraverso di lui. Di tale disegno parla l’Apostolo come di una manifestazione della “giustizia” di Dio, che ha deciso di rendere “giusti” quanti, Giudei e Greci, sono ugualmente peccatori e, quindi, «privi della sua gloria», vale a dire della sua presenza vivificante (cfr. Epistola: Romani 3,21-23). L’Apostolo si riferisce qui alla condizione di lontananza e di estraneità a Dio in cui si trova l’umanità a causa del peccato. Una condizione che rende impossibile sia ai Giudei, fieri possessori della Legge, sia ai Greci, altrettanto fieri della loro sapienza filosofica, di farsi trovare da sé stessi giusti agli occhi di Dio, in una parola di sfuggire alla rovina eterna e di accedere alla salvezza. La «verità udita da Dio» (Giovanni 8,40), portata nel mondo dal suo Figlio al quale occorre prestare l’assenso della fede, ci dice che egli è in grado di liberare quanti credono dalla schiavitù del peccato (cfr. v. 36) e di restituirli a un rapporto vitale con Dio. Liberazione che l’Apostolo descrive come redenzione, riscatto dal potere del peccato, espiazione, ovvero purificazione e remissione dei peccati mediante il suo sangue quello, ovviamente, della sua Croce. In essa si è «manifestata la giustizia di Dio» che, nel suo Figlio, l’unico giusto, ha deciso di rendere giusti tutti coloro che aderisco con fede a lui (cfr. Romani 3,24-26).
Accogliamo, perciò, senza indugio l’esortazione evangelica: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli» (Giovanni 8,31), “dimorando” costantemente con tutta la nostra mente e il nostro cuore in Cristo rivelatore ultimo e attuatore dei grandi disegni salvifici di Dio. Impareremo, in tal modo, a compiere giorno dopo giorno l’«opera di Abramo» crescendo nella fede in Gesù, e amandolo come Figlio «uscito da Dio» e da lui mandato nel mondo per salvare il mondo. La fede, pertanto, è il dono a cui anelano quanti si preparano, nelle prossime feste pasquali, a essere rigenerati alla grazia di figli di Dio. La fede è il dono e la responsabilità di tutti noi già battezzati e che l’osservanza quaresimale vuole rendere più vivida e riconoscibile nella nostra vita improntata all’ascolto obbediente della Parola di Dio e “giustificata” davanti ai suoi occhi per mezzo del sangue del suo Figlio.
La celebrazione eucaristica è il luogo privilegiato per accrescere ed esprimere compiutamente la fede, per renderla sempre più ferma e operosa, ed è il luogo dove, a contatto con il Corpo e il Sangue del Signore, veniamo di continuo da peccatori resi giusti dal suo amore, che si manifesta come dono di sé, della sua stessa vita, significato nel sangue prezioso della sua Croce.
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È la seconda domenica di Quaresima, caratterizzata, nella tradizione liturgica ambrosiana, dalla proclamazione del brano evangelico della samaritana.
Il Lezionario
Prevede la proclamazione di: Lettura: Deuteronomio 6,4a;11,18-28; Salmo 18 (19); Epistola: Galati 6,1-10; Vangelo: Giovanni 4,5-42. Da questa domenica fino alla domenica delle Palme, il Vangelo della Risurrezione, da proclamare nella Messa vigiliare del sabato, è sostituito da una Lettura vigiliare, presa, in questo caso, da Marco 9,2b-10. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della II domenica di Quaresima nel Messale Ambrosiano).
Lettura del libro del Deuteronomio (6,4a;11,18-28)
In quei giorni. Mosè disse: 6,4a«Ascolta, Israele: 11,18Porrete nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi; 19le insegnerete ai vostri figli, parlandone quando sarai seduto in casa tua e quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai; 20le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte, 21perché siano numerosi i vostri giorni e i giorni dei vostri figli, come i giorni del cielo sopra la terra, nel paese che il Signore ha giurato ai vostri padri di dare loro.
22Certamente, se osserverete con impegno tutti questi comandi che vi do e li metterete in pratica, amando il Signore, vostro Dio, camminando in tutte le sue vie e tenendovi uniti a lui, 23il Signore scaccerà dinanzi a voi tutte quelle nazioni e voi v’impadronirete di nazioni più grandi e più potenti di voi. 24Ogni luogo che la pianta del vostro piede calcherà, sarà vostro: i vostri confini si estenderanno dal deserto al Libano, dal fiume, il fiume Eufrate, al mare occidentale. 25Nessuno potrà resistere a voi; il Signore, vostro Dio, come vi ha detto, diffonderà la paura e il terrore di voi su tutta la terra che voi calpesterete.
26 Vedete, io pongo oggi davanti a voi benedizione e maledizione: 27la benedizione, se obbedirete ai comandi del Signore, vostro Dio, che oggi vi do; 28la maledizione, se non obbedirete ai comandi del Signore, vostro Dio, e se vi allontanerete dalla via che oggi vi prescrivo, per seguire dèi stranieri, che voi non avete conosciuto».
Il brano fa parte della seconda sezione del libro del Deuteronomio, occupata dal lungo discorso di Mosè al popolo (4,44-28,68), qui incitato essenzialmente a tenere presente, sempre e in ogni circostanza, la legge del Signore, da osservare senza riserve (11,18-21). Tale osservanza non solo garantirà la sopravvivenza del popolo nella regione, ma gli darò modo di impadronirsi di territori che ne amplieranno di molto l’estensione (vv. 22-25). L’osservanza della Legge attirerà sul popolo la benedizione del Signore (vv. 26-27), mentre l’infedeltà alla legge divina causerà la sua maledizione.
Lettera di san Paolo apostolo ai Galati (6,1-10)
1Fratelli, se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu. 2Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo.3Se infatti uno pensa di essere qualcosa, mentre non è nulla, inganna se stesso.4Ciascuno esamini invece la propria condotta e allora troverà motivo di vanto solo in se stesso e non in rapporto agli altri. 5Ciascuno infatti porterà il proprio fardello.
6Chi viene istruito nella Parola, condivida tutti i suoi beni con chi lo istruisce. 7Non fatevi illusioni: Dio non si lascia ingannare. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. 8Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna. 9E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo. 10Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede.
Il brano è preso dalla parte esortativa della Lettera. Qui l’Apostolo impartisce alcune istruzioni ai fedeli della Galazia sul comportamento da tenere con il fratello che pecca (v. 1), sulla necessità di esaminare la propria condotta e soprattutto sulla disponibilità a portare «i pesi gli uni degli altri» adempiendo così la legge di Cristo (vv. 2-4). In un secondo momento l’Apostolo avverte che ciò che si compie nella vita presente, prepara il “raccolto” che si avrà davanti a Dio e, pertanto, incita a operare «il bene verso tutti» per “mietere”, a suo tempo, la vita eterna (vv. 6-10).
Lettura del Vangelo secondo Giovanni (4,5-42)
In quel tempo. 5Il Signore Gesù giunse a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio; 6qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. 7Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». 8I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. 9Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. 10Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». 11Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? 12Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». 13Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; 14ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». 15Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». 16Le dice Gesù: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». 17Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. 18Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».19Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! 20I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». 21Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. 22Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. 24Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». 25Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà ci annuncerà ogni cosa». 26Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».
27In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». 28La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: 29«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». 30Uscirono dalla città e andavano da lui.
31Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». 32Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». 33E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». 34Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. 35Voi non dite forse: “Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura”? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. 36Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. 37In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. 38Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato e voi siete subentrati nella loro fatica». 39Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». 40E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. 41Molti di più credettero per la sua parola 42e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».
Il testo evangelico è diviso in due grandi sezioni. La prima, vv. 5-26, riporta il dialogo di Gesù con una donna samaritana mentre la seconda, vv. 27-42, è incentrata sulla rivelazione dell’“opera” per la quale il Padre ha inviato Gesù nel mondo. In particolare i vv. 5-7 ambientano la scena in Samaria e precisamente accanto al pozzo che Giacobbe, il grande patriarca, aveva fatto scavare presso la cittadina di Sicar. L’evangelista sottolinea che Gesù vi arrivò «affaticato per il viaggio» e nell’ora più calda del «mezzogiorno» (v. 6). Di qui la sua richiesta alla donna samaritana che entra in scena al v. 7. I vv. 8-15 riportano, con la risposta della donna alla richiesta di Gesù, le importanti parole del Signore sul dono dell’acqua viva capace di togliere la sete e diventare, in chi la beve, «una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». La prima sezione si chiude ai vv. 16-26 con una svolta nel dialogo tra Gesù e la donna alla quale viene rivelata la sua vita disordinata e traviata rispetto alla Legge di Dio (v. 18) inducendola, così, a muovere i suoi primi passi nella fede in Gesù riconosciuto dapprima come un profeta (v. 19). A lui, uomo ispirato da Dio, pone la questione riguardante il luogo dove è possibile incontrare Dio: per i Samaritani era il monte Garazim mentre per i Giudei era il Tempio di Gerusalemme (vv. 20-21). A questa domanda Gesù risponde con parole di rivelazione di grande e permanente attualità e valore (vv. 23-24), con le quali elimina le diatribe legate al luogo in cui si deve rendere culto a Dio. Con il suo ingresso nel mondo, è «venuta l’ora» in cui il culto divino viene sganciato da luoghi e da templi materiali e viene invece compiuto «in spirito e verità» (vv. 23-24) da quanti, rinati dallo Spirito, si lasciano guidare nell’accogliere con fede la pienezza della divina Rivelazione portata da Gesù che, in tal modo, colma l’attesa del Messia (cfr. vv. 25-26). Con la solenne dichiarazione messianica di Gesù: «Sono io, che parlo con te» si chiude il dialogo con la samaritana.
Prende così avvio la seconda sezione (vv. 27-42) inaugurata dall’accorrere a Gesù degli abitanti di Sicar e dell’importante dialogo di Gesù con i suoi discepoli e riguardante il “cibo” con il quale egli si nutre: il compimento della volontà del Padre che lo ha inviato nel mondo per salvare il mondo (vv. 31-34). È questa l’“opera” che il Padre ha affidato a Gesù e alla quale egli ora associa i suoi discepoli con l’invito: «alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura» e con l’esplicito mandato missionario espresso con il verbo mietere. Essi, infatti, dovranno raccogliere l’umanità nella comunione con Dio, qui indicata con l’espressione “vita eterna” (vv. 35-38).
La conclusione (vv. 39-42) fa capire che i Samaritani che credono nel Signore «per la parola della donna» e ancora di più «per la sua parola», professando la fede in Gesù quale «salvatore del mondo», sono, in verità, primizie dell’“opera” salvifica commessa da Dio al suo Figlio e da questi ai suoi discepoli e, dunque, ai discepoli di tutti i tempi.
Commento liturgico-pastorale
Questa seconda domenica di Quaresima, contrassegnata dal Vangelo della samaritana, fa intendere a quanti si preparano a ricevere il sacramenti pasquali nella prossime solennità e a tutti i fedeli, che è indispensabile ottenere dal Signore l’apertura della mente per arrivare ad aver fede, così come ha fatto con essa al pozzo di Giacobbe. È infatti necessario che l’animo umano si apra alla fede per avvertire con forza la sete di Dio che viene, fin da ora, appagata nella partecipazione ai divini misteri. Ciò è detto efficacemente nella parte centrale del primo dei due Prefazi presenti nel Messale Ambrosiano: «Cristo Signore nostro, a rivelarci il mistero della sua condiscendenza verso di noi, stanco e assetato, volle sedere a un pozzo e, chiedendo da bere a una donna samaritana, le apriva la mente alla fede; desiderando con ardente amore portarla a salvezza, le accendeva nel cuore la sete di Dio».
L’apertura della mente della Samaritana è significata nel dialogo con il Signore che, partendo da premesse molto concrete, qual è la richiesta di acqua nel meriggio infuocato del medioriente: «Dammi da bere», passa a interrogativi che costringono ad andare oltre il puro dato materiale: non più l’acqua semplicemente, ma l’«acqua viva» (Vangelo: Giovanni 4,6-7)!
Con questa espressione si evoca, nell’Antico Testamento, il dono inestimabile della Legge divina che il popolo d’Israele è invitato a porre «nel cuore e nell’anima» (cfr. Lettura: Deuteronomio 11,18ss.) e la cui osservanza attirerà la benedizione di Dio, così come la non osservanza la maledizione (cfr. vv. 26-28). Nel Nuovo Testamento indica la rivelazione di Dio e del suo mistero recata in pienezza dal suo Verbo fatto uomo. Può anche indicare lo Spirito Santo che è donato agli uomini proprio da Gesù, il Figlio di Dio. L’«acqua viva», capace di estinguere la sete in eterno, ovvero i più profondi e autentici bisogni dell’uomo, è la Parola vivente di Dio, vale a dire il suo Figlio venuto nel mondo e che ora possiamo attingere dal “pozzo” delle divine Scritture affidate, dal Signore, alla sua Chiesa. Pertanto, la Parola che il popolo nato dalla Pasqua del Signore è invitato a «porre nel cuore e nell’anima», a tenere costantemente davanti agli occhi, a «insegnare» e a praticare dando a tutti riconoscibile testimonianza, è il Signore Gesù e il suo Vangelo.
Davvero il popolo dei battezzati può dire in tutta verità: «Signore, tu solo hai parole di vita eterna» (Salmo 18). Per l’Apostolo, la Parola da osservare e praticare è quella della carità, intesa come una disponibilità a portare «i pesi gli uni degli altri», a «operare il bene verso tutti» e a «seminare nello Spirito» (cfr. Epistola: Galati 6,8) compiendo, cioè, le opere dello Spirito: la carità, la pace e il perdono, nelle quali consiste il «culto in spirito e verità» a Dio gradito (cfr. Giovanni 4,23-24).
Si comprende, perciò, come la prima delle opere dell’osservanza quaresimale sia autorevolmente indicata nel testo sacro: «Ascolta, Israele» (Deuteronomio 6,4). Si tratta cioè, di imparare a sostare frequentemente e a lungo, sia in privato come nell’assemblea liturgica, al pozzo dell’«acqua viva» qual è la Parola del Vangelo, supplicando il Signore di aprire la nostra mente e di accendere in noi, come già nella Samaritana, la sete di Dio, che moderi le tante e spesso fuorvianti brame che ci spingono a cercare l’acqua viva presso pozzi avvelenati. Così infatti abbiamo chiesto nel Prefazio secondo: «Con la tua grazia ci liberi da ogni affetto disordinato e ci insegni a operare tra le cose che passano, come chi è radicato in te, bene eterno».
È la sete che il Signore Gesù, attraverso la sua Chiesa, vuole tenere viva negli uomini del nostro tempo sempre alla ricerca di pozzi a cui attingere l’acqua della felicità. Spetta a noi, suoi discepoli, che nell’ascolto della Parola beviamo ogni giorno l’«acqua viva» e ci nutriamo del suo dono d’amore che è l’Eucaristia, tener vivo nel cuore di chi ci sta accanto il desiderio di Dio e accompagnarlo fino al pozzo che è Cristo Signore. Lui solo, infatti, è capace di soddisfare il più profondo dei bisogni del cuore umano: avere parte alla vita, quella eterna, quella di Dio.
Dal fianco di Gesù Crocifisso, infatti, aperto dalla lancia del soldato, è uscito, nel segno del «sangue e acqua» il fiume inarrestabile dell’«acqua viva» che opera, in quanti credono, la rigenerazione alla grazia di figli di Dio, incorporati nella Chiesa abitata dallo Spirito Santo e nella partecipazione al suo Corpo e al suo Sangue nel banchetto eucaristico, sperimentano la bellezza e la sovrabbondanza del dono divino che in essi diventa «una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Giovanni 4,14), Per questo così preghiamo: «Dal tuo cuore, Signore Gesù, fiumi d’acqua viva scorreranno. Ascolta pietoso il grido di questo popolo e aprici il tesoro della tua grazia che santifica il cuore dei credenti» (Canto Alla Comunione).
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È la prima domenica di Quaresima, ovvero la “sesta domenica prima di Pasqua”, dalla quale prendono avvio i quaranta giorni di preparazione alle solennità pasquali che si concluderanno con l’inizio del Triduo Pasquale avviato dalla Messa «nella Cena del Signore» il Giovedì della Settimana Autentica o Santa.
Il Lezionario
Le lezioni bibliche, a partire da questa domenica, sono reperibili nel II Libro del Lezionario Ambrosiano: “Mistero della Pasqua del Signore”. Oggi sono previste: Lettura: Gioele 2,12b-18; Salmo 50 (51); Epistola: 1Corinzi 9,24-27; Vangelo: Matteo 4,1-11, vale a dire il Vangelo delle tentazioni che caratterizza questa domenica. Si deve osservare che mentre la Lettura e l’Epistola variano nel ciclo triennale, il brano evangelico rimane immutato, secondo la costante tradizione liturgica della nostra Chiesa Ambrosiana.
Il Vangelo della Risurrezione, da proclamare nella Messa vigiliare del sabato, è preso da Marco 16,9-16. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della I Domenica di Quaresima nel Messale Ambrosiano).
Lettura del profeta Gioele (2,12b-18)
Così dice il Signore Dio: / 12b«Ritornate a me con tutto il cuore, / con digiuni, con pianti e lamenti. / 13Laceratevi il cuore e non le vesti, / ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, / lento all’ira, di grande amore, / pronto a ravvedersi riguardo al male». / 14Chi sa che non cambi e si ravveda / e lasci dietro a sé una benedizione? / Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio. / 15Suonate il corno in Sion, / proclamate un solenne digiuno, / convocate una riunione sacra. / 16Radunate il popolo, / indite un’assemblea solenne, / chiamate i vecchi, / riunite i fanciulli, i bambini lattanti; / esca lo sposo dalla sua camera / e la sposa dal suo talamo. / 17Tra il vestibolo e l’altare piangano / i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: / «Perdona, Signore, al tuo popolo / e non esporre la tua eredità al ludibrio / e alla derisione delle genti». / Perché si dovrebbe dire fra i popoli: / «Dov’è il loro Dio?». / 18Il Signore si mostra geloso per la sua terra / e si muove a compassione del suo popolo.
Il brano segue la descrizione dell’invasione delle cavallette, paragonate a un esercito che, al suo passaggio, distrugge ogni cosa (2,1-9). In quella sciagura il profeta vede l’annunzio del “giorno del Signore”, vale a dire del suo inesorabile giudizio sul peccato del suo popolo (vv. 10-11). Di qui l’invito alla penitenza e alla conversione del cuore messa in moto dalla certezza della misericordia divina (vv. 12-13) e quindi dalla fiducia che Dio muti il giudizio in una benedizione (v. 14). I vv. 15-17, infine, descrivono la convocazione di una riunione sacra a cui deve partecipare il popolo intero e nella quale i sacerdoti sono incaricati di presentare a Dio le suppliche dell’assemblea.
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (9,24-27)
Fratelli, 24non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! 25Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre. 26Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; 27anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato.
Il brano è inserito in un contesto nel quale l’Apostolo rivendica, nell’esercizio del suo ministero, la libertà da tutto e da tutti sentendosi legato unicamente al Signore Gesù (9,1-23). Proprio il suo legame e la sua fedeltà al Signore esige numerose privazioni e sacrifici, che Paolo paragona a quelli compiuti dagli atleti per guadagnare la corona ossia la vittoria (vv. 24-25). Di conseguenza l’Apostolo si dichiara pronto a ogni genere di disciplina e di sacrifici pur di arrivare alla fine della sua corsa, ossia del suo servizio al Vangelo, ed essere trovato degno della corona «che dura per sempre» (vv. 26-27).
Lettura del Vangelo secondo Matteo (4,1-11)
In quel tempo. 1Il Signore Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto: / “Non di solo pane vivrà l’uomo, / ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».
5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: / “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo / ed essi ti porteranno sulle loro mani / perché il tuo piede non inciampi in una pietra”».
7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: / “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: / “Il Signore, Dio tuo, adorerai: / a lui solo renderai culto”».
11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.
Il presente brano segue immediatamente il racconto del battesimo di Gesù al Giordano (Mt 3,13-17) e ad esso si riallaccia ponendo in primo piano l’azione dello Spirito nel “condurre” Gesù nel deserto per andare incontro alla tentazione da parte del diavolo, una parola greca che significa “colui che divide o distoglie” da Dio (v. 1). Il v. 2, con allusione all’esperienza di Mosè al Sinai (Es 24,18; 34,28) e del profeta Elia nel deserto (1 Re 19,8), riferisce che Gesù «dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame». Su tale constatazione si iscrive la prima tentazione (vv. 3-4), che potremmo chiamare quella del pane. Essa riguarda il vero nutrimento di cui l’uomo ha davvero bisogno per vivere e che, stando alla risposta di Gesù al tentatore, data con la citazione del libro del Deuteronomio (8,3), consiste in «ogni parola che esce dalla bocca di Dio» e ora rintracciabile nelle Scritture. La seconda è la tentazione del «punto più alto del tempio» (vv. 5-7) di Gerusalemme, dal quale Gesù viene invitato a gettarsi mettendo alla prova Dio stesso che, stando al Salmo 91,11-12 parzialmente citato dal diavolo, dovrebbe intervenire a sua protezione e custodia. La risposta di Gesù (cfr. Deuteronomio 6,16), esclude la pretesa di un segno prodigioso da parte di Dio per potergli credere e obbedirgli in tutto. La terza tentazione è quella del “monte altissimo” (vv. 8-10) dal quale il diavolo mostra a Gesù il suo regno, ovvero il mondo intero, e si dichiara disposto a cederlo a lui a una condizione: che egli volti le spalle a Dio interrompendo così il suo rapporto filiale con lui! Con la sua decisa risposta, presa ancora da Deuteronomio 6,13, Gesù allontana da sé il tentatore e ribadisce la sua piena e definitiva obbedienza al Padre nella quale consiste l’adorazione e il vero culto a Dio. Il racconto si chiude al v. 11 con il diavolo che abbandona, sconfitto, il campo e con l’intervento degli angeli che si prendono cura di Gesù.
Commento liturgico-pastorale
La Quaresima ha il compito di preparare tutti i fedeli alle solennità pasquali comprensive del Triduo, culminante nella solenne Veglia della Risurrezione, che è da considerare il cuore e il centro di tutto l’anno liturgico.
Come sappiamo e crediamo il Signore Gesù, nella sua Pasqua di morte e di risurrezione, ha portato a compimento l’opera della salvezza per la quale è stato inviato da Dio nel mondo. La salvezza pasquale viene a sua volta dispensata a quanti credono, per la via sacramentale che ha al suo culmine l’Eucaristia, memoriale perenne della Pasqua.
Di essa noi tutti facciamo personale, misteriosa, prima esperienza nell’acqua del Battesimo. In essa discendiamo, in verità, nella morte e nella sepoltura del Signore, distruttive dell’uomo dominato dal peccato e dal male e, da essa, rinasciamo alla grazia di una vita nuova, una vita già partecipe della risurrezione, la vita di figli adottivi di Dio, e veniamo inseriti nel suo unico Corpo che è la Chiesa.
La Quaresima, pertanto, torna ogni anno come provvidenziale memoria del Battesimo e degli eccezionali doni di grazia in esso ricevuti perché risplendano nitidi nella nostra vita. Non di rado, infatti, essa non si presenta del tutto conforme al dono ricevuto e, al contrario, appare come soggiogata dal fascino del peccato che sfigura, anche gravemente, l’immagine di figlio scolpita in noi dallo Spirito rigeneratore.
Ciò è dovuto al fatto che, sottoposti al pari di Gesù alla tentazione e alla prova, non pochi di noi, diversamente da lui, soccombono vittime del tentatore. Di qui il carattere penitenziale della Quaresima, tesa a recuperare la grazia del Battesimo in vista delle solennità pasquali. Per questo essa ci propone un programma di vita che, a ben guardare, deve caratterizzare l’intera comunità ecclesiale e, di conseguenza, ogni singolo fedele. Vale anche per noi, infatti, l’esortazione profetica: «Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardi al male» (Lettura: Gioele 2, 12-13). Tale esortazione, rivolta un tempo al popolo dell’Antica Alleanza, la sentiamo risuonare nelle nostre assemblee liturgiche e, pertanto, chiama con forza la Chiesa, nel momento massimo della sua manifestazione, a ritornare pienamente ed esclusivamente a colui che, nel suo Figlio Crocifisso, ha lasciato «dietro a sé una benedizione» (v. 14), ovvero, il dono gratuito della salvezza. Si comprende, perciò, come il programma quaresimale abbia come suo irrinunciabile fondamento l’ascolto della Parola di Dio, inteso come assimilazione di essa, capace, dunque, di orientare in ogni momento e in ogni situazione la nostra vita e le scelte che essa ci presenta. È evidente che un simile ascolto è un dono dello Spirito che accende nei nostri cuori un vivo e insopprimibile desiderio di nutrirci di «ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Vangelo: Matteo 4,4), moderando ogni altro, pur lecito, ma mondano desiderio. È ciò che il Prefazio dice esemplarmente di Mosè al quale, bastando «la parola di Dio e la luce dello Spirito che in lui discendeva», non avvertì «la fame del corpo o di altri «nutrimenti terreni», al punto di rimanere digiuno «quaranta giorni e quaranta notti» in attesa del dono divino della Legge. Forti della Parola, è possibile anche a noi resistere agli assalti subdoli o violenti del tentatore, a non cedere alla tentazione suadente del male o alla prova che compare improvvisa nella nostra esistenza e rimanere fermi, sull’esempio del Signore Gesù, nella fede e nell’abbandono filiale alla volontà divina rivelata nella sua Parola. Ed è la Parola del Signore a sostenere i nostri personali sforzi e la severa disciplina a cui, a volte, occorre sottoporci pur di non venire “squalificati” nella “gara” che è questa nostra vita e poter, così, ricevere la «corona… che dura per sempre» (1Corinzi 9,25), ossia la salvezza eterna.
Iniziamo, perciò, questi giorni di grande valore per tutta la Chiesa e per ogni fedele. Non scoraggiamoci davanti all’enormità dell’impresa qual è il nostro ritorno a Dio, alla grazia di essere e di dirci realmente suoi figli.
La sua Parola, infatti, ci dice che quell’impresa dipende sì da noi, dalla nostra penitenza, dai nostri digiuni, lacrime e preghiere, ma in definitiva la compie Dio stesso donandoci il Pane che è Cristo sua vivente Parola e che, come leggiamo nel Prefazio, «tu ora ci doni alla tua mensa, o Padre, e ci induci a bramarlo senza fine».
Ci sia di guida e di conforto, nel non facile cammino quaresimale verso la gioia della Pasqua, ciò che all’unisono diciamo con la nostra bocca e con il nostro cuore: «Camminiamo nell’amore perché Cristo ci ha amato; e godiamo di questo cibo davanti al nostro Dio. Regni nei nostri cuori la pace di Cristo, che ci ha chiamati a formare un corpo solo» (Canto Alla Comunione).
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Domenica ultima dopo l’Epifania
È la domenica detta “del perdono” che, nell’imminenza della Quaresima, incoraggia i fedeli a intraprendere il cammino di conversione e di penitenza, proprio di quel tempo liturgico, nella consapevolezza che Dio è sempre pronto e generoso nel concedere il suo perdono.
Il Lezionario
Prescrive la proclamazione dei seguenti brani biblici: Lettura: Siracide 18,9-14; Salmo 102 (103); Epistola: 2Corinzi 2,5-11; Vangelo: Luca 9,1-10. Alla messa vigiliare del sabato, il Vangelo della Risurrezione è preso da Luca 24,13b.36-48. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della V Domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).
Lettura del libro del Siracide (18,11-14)
11Il Signore è paziente verso di loro / ed effonde su di loro la sua misericordia. / 12Vede e sa che la loro sorte è penosa, / perciò abbonda nel perdono.
13La misericordia dell’uomo riguarda il suo prossimo, / la misericordia del Signore ogni essere vivente. / Egli rimprovera, corregge , ammaestra / e guida come un pastore il suo gregge. / 14Ha pietà di chi si lascia istruire / e di quanti sono zelanti per le sue decisioni.
Il brano riporta alcuni versetti di un canto a Dio Creatore (18,1-14) intonato dall’autore del libro. Qui, in particolare, viene esaltata la misericordia di Dio verso «ogni essere vivente» (v. 11.13b) messa a confronto con quella dell’uomo che si rivolge soltanto a pochi (v. 13a).
Seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2,5-11)
Fratelli, 5se qualcuno mi ha rattristato, non ha rattristato me soltanto, ma, in parte almeno, senza esagerare, tutti voi. 6Per quel tale però è già sufficiente il castigo che gli è venuto dalla maggior parte di voi, 7cosicché voi dovreste piuttosto usargli benevolenza e confortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte.
8Vi esorto quindi a far prevalere nei suoi riguardi la carità; 9e anche per questo vi ho scritto, per mettere alla prova il vostro comportamento, se siete obbedienti in tutto. 10A chi voi perdonate, perdono anch’io; perché ciò che io ho perdonato, se pure ebbi qualcosa da perdonare, l’ho fatto per voi, davanti a Cristo, 11per non cadere sotto il potere di Satana, di cui non ignoriamo le intenzioni.
Il brano si riferisce probabilmente a una visita dell’Apostolo alla comunità di Corinto in occasione della quale deve aver ricevuto una grave offesa da uno dei suoi membri. Il fatto ha creato in essa un notevole disagio. Dai vv. 5-8 deduciamo che il colpevole era stato in qualche modo “castigato” dalla comunità (v. 6), esortata ora da Paolo a perdonarlo e a riammetterlo tra i fedeli (vv. 7-8). Segue l’insegnamento apostolico sul perdono da accordare sempre per non cadere «sotto il potere di satana» ossia dell’avversario, del nemico, il cui intento è dividere la comunità (vv. 9-11).
Lettura del Vangelo secondo Luca (19,1-10)
In quel tempo. Il Signore Gesù 1entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, 2quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. 4Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
5Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». 6Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. 7Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». 8Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». 9Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 10Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».
La scena è ambientata nella città di Gerico che Gesù stava attraversando. In una prima parte (vv. 2-4) viene presentato Zaccheo quale capo dei pubblicani e per di più ricco, dunque, un pubblico peccatore, desideroso tuttavia «di vedere chi era Gesù» al punto da salire su un sicomoro a motivo della sua bassa statura. La scena riceve una svolta ai vv. 5-6 allorché Gesù «alzò lo sguardo» su Zaccheo dichiarando l’intenzione di recarsi a casa sua suscitando, con ciò, la gioiosa reazione di questi. Il v. 7 registra, con il verbo mormorare, la reazione negativa e ostile della gente sul comportamento di Gesù che non esita a stare in compagnia di un peccatore e, pertanto, di un escluso, di un impuro. Le parole di Zaccheo (v. 8) dicono però che in lui è intervenuto un cambiamento profondo immediatamente riscontrabile nei suoi gesti di riparazione e di carità. I due versetti conclusivi, 9-10, infine, ci consegnano una prima dichiarazione del Signore riguardante la salvezza alla quale, con Zaccheo, sono chiamati i «figli di Abramo» (v. 9). Ad essa fa seguito quella di rivelazione sulla sua missione nel mondo: «cercare e salvare ciò che era perduto» (v. 10).
Commento liturgico-pastorale
L’ultima domenica “dopo l’Epifania” intende disporre il cuore dei fedeli alla celebrazione della Quaresima, che ha lo scopo di ripristinare la grazia della prima partecipazione, nell’acqua del Battesimo, all’evento pasquale della nostra salvezza che viene solennemente ripresentato, ogni anno, nella celebrazione del Triduo Pasquale di Gesù Cristo crocifisso-morto-sepolto-risorto.
La nostra vita, infatti, pur segnata in radice dalla rigenerazione battesimale alla grazia della figliolanza divina, conosce e sperimenta la perdurante debolezza della nostra natura umana che ci inclina a cedere alla “legge del peccato” che ci abita ancora. Di qui la necessità e l’urgenza di superare una simile triste situazione, di certo impossibile alle sole nostre forze, ma grazie alla misericordia di Dio che ci raggiunge, in Cristo, con la grazia del perdono e del rinnovamento della vita.
La disponibilità di Dio all’indulgenza e al perdono è già mirabilmente proclamata nella prima rivelazione a Israele che la celebra nelle sue Scritture. In esse, e specialmente nei libri sapienziali, è testimoniata una volta per tutte la consapevolezza che Dio comprende e compatisce le miserie e il peccato dell’uomo la cui «sorte è penosa» (Lettura: Siracide 18,12) effondendo «su di loro la sua misericordia» (v. 11), intervenendo anche con il rimprovero, la correzione, l’ammaestramento e guidando come un buon pastore l’umanità come suo gregge (cfr. v. 13).
Una consapevolezza esaltata dalla preghiera d’Israele: «Misericordioso e pietoso è il Signore… Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe» (Salmo 102 (103) vv. 8.10).
Questa iniziale autentica rivelazione di Dio e del suo mistero trova il suo momento più alto e conclusivo nella persona di Gesù di Nazaret, il suo Figlio venuto in questo mondo. Nella sua parola e nei suoi gesti verso gli esclusi, i reprobi, i peccatori ritenuti oramai perduti, brilla la grandezza del perdono di Dio, capace di ricreare un’esistenza votata alla rovina eterna. Il brano evangelico, a tale riguardo, è una concreta manifestazione di tutto ciò. Il gesto di Gesù che “alza il suo sguardo” su Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco (Vangelo: Luca 19,2), e gli dichiara la sua volontà di entrare in comunione con lui andando a casa sua, è un gesto divino, capace cioè, di modificare in radice la vita di quell’uomo che, chiuso in sé stesso e prigioniero del denaro, il più terribile dei tiranni, si apre ora al dono di una nuova esistenza contrassegnata dalla carità verso i poveri, per lui, prima, inesistenti!
Prigioniero del male Zaccheo è, ora, in grado di mettere in moto, «pieno di gioia» (v. 6), un cambiamento radicale della sua vita dopo aver sperimentato il perdono e la misericordia divina in Cristo il quale può solennemente dichiarare: «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (v. 10).
Gesù, però, è venuto a cercare non solo «i figli di Abramo», ma ogni uomo e, nell’ora della Croce, ha donato effettivamente a tutti la salvezza e la grazia di vivere in comunione con Dio stesso. Zaccheo, pertanto, rappresenta tutti e ci rassicura: Gesù è sulle tracce di ciascuno di noi! Egli vuole «alzare il suo sguardo» pieno di amore su quanti, al pari di Zaccheo, hanno bisogno di essere chiamati fuori dal potere del male per una nuova vita. Da Gesù la Chiesa ha imparato l’attitudine al perdono e a «far prevalere in tutto la carità» (cfr. Epistola: 2Corinzi 2,8) come possibilità di ridare vita a chi è perduto. Ne fanno fede le istruzioni date dall’Apostolo alla comunità di Corinto a proposito del trattamento da riservare a chi era caduto in un crimine così grave al punto da “rattristare” non solo Paolo ma l’intera comunità (v. 5). L’Apostolo prescrive che nei suoi confronti occorre «usargli benevolenza e confortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte» (v. 7).
Attenendosi a ciò, la Chiesa continuerà a portare il perdono divino fino alla fine dei tempi a chi è perduto e a restituirlo all’amore di Dio e dei fratelli in una vita fruttuosa e gioiosa.
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È detta “della divina clemenza” perché i testi biblici in essa proclamati esaltano la misericordia di Dio verso i peccatori invitati, di conseguenza, a rivolgersi a lui con fiducia. Questa domenica intende preparare la prossima celebrazione della Quaresima, aprendo i cuori dei fedeli che si riconoscono bisognosi del perdono, ad accogliere la grazia della “divina clemenza” nel Signore Gesù.
Il Lezionario
Propone: Lettura: Daniele 9,15-19; Salmo 106 (107); Epistola: 1Timoteo 1,12-17; Vangelo: Marco 2,13-17. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della IV domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).
Lettura del profeta Daniele (9,15-19)
In quei giorni. Daniele pregò il Signore dicendo: «15Signore, nostro Dio, che hai fatto uscire il tuo popolo dall’Egitto con mano forte e ti sei fatto un nome qual è oggi, noi abbiamo peccato, abbiamo agito da empi. 16Signore, secondo la tua giustizia, si plachi la tua ira e il tuo sdegno verso Gerusalemme, tua città, tuo monte santo, poiché per i nostri peccati e per l’iniquità dei nostri padri Gerusalemme e il tuo popolo sono oggetto di vituperio presso tutti i nostri vicini.
17Ora ascolta, nostro Dio la preghiera del tuo servo e le sue suppliche e per amor tuo, o Signore, fa’ risplendere il tuo volto sopra il tuo santuario, che è devastato. 18Porgi l’orecchio, mio Dio, e ascolta: apri gli occhi e guarda le nostre distruzioni e la città sulla quale è stato invocato il tuo nome! Noi presentiamo le nostre suppliche davanti a te, confidando non sulla nostra giustizia, ma sulla tua grande misericordia.
19Signore, ascolta! Signore, perdona! Signore, guarda e agisci senza indugio, per amore di te stesso, mio Dio, poiché il tuo nome è stato invocato sulla tua città e sul tuo popolo».
Il brano fa parte della seconda sezione del libro di Daniele contenente alcune visioni (capitoli 7-12) a lui dirette. In particolare i versetti oggi proclamati sono presi dal contesto della visione riguardante le «settanta settimane» (9,1-27) concesse al popolo per «mettere fine all’empietà» (9,24) e fanno parte della supplica rivolta da Daniele a Dio per avere «un responso» (9,4-19). Si tratta di una preghiera che da una parte confessa l’infedeltà del popolo e dall’altra l’assoluta fedeltà di Dio a partire dalla liberazione dall’Egitto (9,15). Su tale fedeltà e sulla sua grande misericordia Daniele poggia la sua supplica per Gerusalemme (v. 16) e specialmente per il Tempio già devastato dai Persiani (587 a.C.) e, quindi, da Antioco IV (167 a.C.).
Prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (1,12-17)
Carissimo, 12rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
15Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. 16Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.
17Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Nell’avviare questa sua lettera con la quale incoraggia Timoteo, allora capo della comunità di Efeso, a esercitare il compito di richiamare alla sana dottrina (1,10), Paolo fa memoria della sua vocazione al servizio di Cristo da una precedente condizione di «bestemmiatore, persecutore e violento» (v. 13). Vocazione ascrivibile dunque alla misericordia che gli è stata usata da parte del Signore (vv. 13-14). Dalla sua situazione Paolo passa a una dichiarazione di portata universale circa la venuta nel mondo di Gesù «per salvare i peccatori» (v. 15). Lui, di conseguenza, è divenuto l’esempio per quanti si sarebbero con fede aperti alla misericordia del Signore (v. 16).
Lettura del Vangelo secondo Marco (2,13-17)
In quel tempo. Il Signore Gesù 13uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro. 14Passando, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
15Mentre stava a tavola in casa di lui, anche molti pubblicani e peccatori erano a tavola con Gesù e i suoi discepoli; erano molti infatti quelli che lo seguivano. 16Allora gli scribi dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: «Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 17Udito questo, Gesù disse loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
La scena è ambientata a Cafarnao, posta sul lago di Genesaret (o Tiberiade), enfaticamente chiamato mare, e coglie Gesù sulla riva del lago, intento ad insegnare alla folla che veniva a lui (v. 13). Segue (v. 14) la chiamata di Levi secondo lo schema caro a Marco: Gesù che posa il suo sguardo su Levi nell’atto di svolgere il suo lavoro, che consiste nel riscuotere le tasse; la chiamata alla sequela immediatamente assecondata. La scena dal v. 15 si sposta presumibilmente nella casa di Levi dove Gesù prende parte, con i suoi discepoli, a un banchetto al quale partecipano molti pubblicani e peccatori, alla cui schiera, di fatto, a motivo del suo lavoro disprezzato dalla gente, Levi apparteneva. Sedere a mensa con essi comportava diventare legalmente impuri. Di qui l’osservazione fatta da da scribi e farisei ai discepoli sul comportamento di Gesù (v. 16). Ad essa Gesù risponde dapprima con un proverbio (v.17a) e, soprattutto, con una parola di rivelazione circa la sua missione (v. 17b).
Commento liturgico-pastorale
Questa domenica, così come la prossima, fa da ponte tra il tempo liturgico legato al mistero dell’Incarnazione, della Natività e dell’Epifania del Signore e quello incentrato sul mistero pasquale della redenzione e della salvezza.
La solenne dichiarazione del Signore, conclusiva della pagina evangelica, «io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Vangelo: Marco 2,17), ampliata da quella dell’Apostolo: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori» (Epistola: 1Timoteo 1,15), sintetizza ciò che è stato proclamato e celebrato nel tempo liturgico di Natale e rappresenta l’estrema “manifestazione” delle finalità connesse alla venuta nel mondo del Figlio di Dio.
Il prossimo tempo liturgico, incentrato sul mistero pasquale di Cristo Crocifisso e Risorto, mostrerà come nella sua morte e risurrezione la citata proclamazione programmatica si è adempiuta, dilatando fino alla fine dei tempi ed estendendo all’umanità la “divina clemenza”.
Nella sua predicazione evangelica Gesù ha compiuto gesti significativi ed espressivi dell’essenza della sua missione. Tra di essi spicca la chiamata di Levi il pubblicano seduto al banco delle imposte (Marco 2,14) e, dunque, per la mentalità comune del tempo, un peccatore! Così è del suo mettersi a tavola con «molti pubblicani e peccatori» (v. 15); un gesto che significa la bontà del cuore del Signore, la sola capace, con il perdono, di rimettere in vita chi, a causa del peccato, di fatto vive nell’inerzia della morte.
È il caso di Levi che, chiamato dal Signore dal suo banco, al quale era tenuto inchiodato in una esistenza chiusa in sé stessa e, dunque, sterile, «si alzò e lo seguì» (v. 14) divenendo uno dei suoi discepoli, di coloro cioè che Gesù porrà come testimoni della sua morte e risurrezione e fondamento della comunità che si radunerà attorno a lui e al suo Vangelo.
Ed è il caso eclatante di Paolo che, mentre si confessa «un bestemmiatore, un persecutore e un violento» e il «primo dei peccatori» (1Timoteo1,13), riconosce di aver «ottenuto misericordia» e che Cristo Gesù ha voluto proprio in lui, «per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità» facendone un «esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna» (v. 16).
Paolo, l’apostolo che più di tutti ha faticato per il Vangelo e ha fatto del Signore Gesù la sua vera vita, è l’esempio tra i più evidenti di ciò che la divina clemenza personificata in Cristo vuole compiere in coloro che agli occhi degli uomini appaiono come peccatori e, dunque, esclusi dalla salvezza, perduti! Con il suo atteggiamento verso di essi Gesù porta a compimento la rivelazione di Dio, il Padre che lo ha mandato nel mondo a «guarire i malati e a chiamare i peccatori» (cfr. Marco 2,17). Le pagine bibliche dell’Antica Alleanza, infatti, non fanno che esaltare la bontà di Dio e la sua longanimità non solo verso il suo popolo, ma verso tutti gli uomini. Il testo profetico, a tale riguardo, mentre confessa che la triste condizione di Israele, così come la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio, è dovuta al peccato e al comportamento empio del popolo (cfr. Lettura: Daniele 9,15-16), esalta la disponibilità di Dio ad ascoltare la supplica del suo popolo e soprattutto la sua grande misericordia (v. 18).
Della “divina clemenza”, cantata nel brani della Scrittura oggi proclamati, noi tutti facciamo continua concreta esperienza nella celebrazione dell’Eucaristia, offerta «per la remissione dei peccati» e, perciò, di tale clemenza siamo la testimonianza vivente. Siamo infatti noi i malati di cui si prende cura il medico celeste (cfr. Marco 2,17a). Siamo noi i peccatori che il Signore è venuto dal cielo a chiamare e a far uscire dalla condizione mortifera in cui ci tiene inchiodati il peccato così come teneva inchiodato Levi al banco delle imposte (v.14) e a metterci al suo esclusivo servizio come avvenne per Paolo il violento bestemmiatore (cfr.1Timoteo 1,12-13). Non vergognamoci, perciò, di far parte del numero dei malati e dei peccatori per i quali è venuta dal cielo la clemenza di Dio e guardiamoci di unirci agli scribi dei farisei nel censurare l’atteggiamento di Gesù verso i pubblicani e i peccatori (cfr. Marco 2,16). Potremo allora sperimentare l’amorevole premura del Signore Gesù nel quale risiede la sovrabbondante grazia divina che ci raggiunge nei sacramenti pasquali e che ci fa esclamare in tutta verità: «Ricorderò l’amore di Dio, dandogli lode per tutti suoi doni, per i beni senza numero che ci ha elargito, grazie alla sua misericordia che non ha fine» (Canto di Ingresso).
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27 gennaio 2013 – Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Occupa il posto della terza domenica “dopo l’Epifania” ed è annoverata, nel calendario liturgico ambrosiano, tra le “feste del Signore”.
Il Lezionario
Riporta le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Siracide 44,23-45,1a.2-5; Salmo: 111 (112); Epistola: Efesini 5,33-6,4; Vangelo: Matteo 2,19-23. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare nella Messa vigiliare del sabato è preso da: Giovanni 20,11-18. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della festa nel Messale Ambrosiano).
Lettura del libro del Siracide (44,23-45,1a.2-5)
In quei giorni. 23La benedizione di tutti gli uomini e la sua alleanza / Dio fece posare sul capo di Giacobbe; / lo confermò nelle sue benedizioni, / gli diede il paese in eredità: / lo divise in varie parti, / assegnandole alle dodici tribù. / Da lui fece sorgere un uomo mite, / che incontrò favore agli occhi di tutti / 1aamato da Dio e dagli uomini. / 2Gli diede gloria pari a quella dei santi / e lo rese grande fra i terrori dei nemici. / 3Per le sue parole fece cessare i prodigi / e lo glorificò davanti ai re; / gli diede autorità sul suo popolo / e gli mostrò parte della sua gloria. / 4Lo santificò nella fedeltà e nella mitezza, / lo scelse fra tutti gli uomini. / 5Gli fede udire la sua voce, / lo fece entrare nella nube oscura / e gli diede faccia a faccia i comandamenti, / legge di vita e d’intelligenza, / perché insegnasse a Giacobbe l’alleanza, / i suoi decreti a Israele.
Il brano è preso dalla terza sezione del libro (capitoli 42,15-50,29), nella quale viene esaltata la sapienza divina che brilla nel creato e nella storia degli uomini che hanno vissuto nella fedeltà a Dio. Tra di essi vengono qui ricordati Giacobbe (cap. 44,23) e Mosè (cap. 45,1-5), del quale si fa memoria evocando i prodigi dell’esodo dall’Egitto (v. 3) e quelli del deserto dove Dio «gli fece udire la sua voce», gli diede le tavole della Legge e stabilì l’Alleanza con il suo popolo (cfr. Esodo 19,19; 20,1.21-22; Deuteronomio 4,6-8; 32,47) (v. 5).
Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini (5,33-6,4)
Fratelli, 33ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito.
1Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto: 2«Onora tuo padre e tua madre!». Questo è il primo comandamento che è accompagnato da una promessa: 3«perché tu sia felice e goda di lunga vita sulla terra». 4E voi, padri, non esasperate i vostri figli, ma fateli crescere nella disciplina e negli insegnamenti del Signore.
Il breve brano, oggi proclamato, è preso dalla parte esortativa della lettera, fondata sulla vita nuova dei credenti nella Chiesa e nella società civile. Qui in particolare si parla della morale domestica che, sull’esempio dell’amore di Cristo verso la Chiesa, è posta all’insegna della reciproca subordinazione dei membri di una famiglia. Di qui la norma che regola il rapporto moglie/marito (capitolo 5,33); quella che regola il rapporto genitori/figli basato sul comandamento divino e come garanzia di una vita lunga e felice (capitolo 6,1-3; cfr. Esodo 20,12; Deuteronomio 5,16) e, infine, l’esortazione ai padri a far crescere i propri figli «negli insegnamenti del Signore» (v. 4).
Lettura del Vangelo secondo Matteo (2,19-23)
In quel tempo. 19Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto 20e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino». 21Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra di Israele. 22Ma quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura ad andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea 23e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».
Viene oggi letto l’ultimo episodio dell’itinerario di Giuseppe profugo in Egitto con il «bambino e sua madre» (cfr. Matteo 2,13-15) per sfuggire alla persecuzione di Erode. Il racconto è diviso in due brevi parti. La prima: vv. 19-21, parla del ritorno di Giuseppe, «il bambino e sua madre» in Israele, con allusione all’esodo di Israele dall’Egitto e al ritorno del popolo dall’esilio babilonese. La seconda: vv. 22-23, precisa il luogo nel quale Giuseppe fissa la sua residenza: Nazaret in Galilea, motivo per cui Gesù sarà chiamato “nazareno”.
Commento liturgico-pastorale
L’ascolto delle Scritture e i testi oranti del Messale ci invitano a tenere ancorata la festa odierna all’interno del dispiegarsi, nel corso dell’anno liturgico, del mistero della nostra salvezza in Cristo. In particolare, questa festa, che il calendario liturgico ambrosiano fa cadere nel tempo “dopo l’Epifania”, manifesta e celebra, nell’appartenenza del Figlio di Dio a una famiglia, la reale portata della sua incarnazione, come giustamente rileva la preghiera liturgica quando afferma che egli «venendo ad assumere la nostra condizione di uomini volle far parte di una famiglia» (Prefazio). La condizione umana, infatti, passa normalmente proprio dall’appartenenza a una famiglia secondo il volere stesso di Dio rivelato nelle Scritture.
Tale appartenenza, vissuta dal Figlio fatto uomo in obbedienza a quanto è disposto dalla sapienza divina, manifesta la sua piena disponibilità a spogliarsi della sua gloria divina e ad assumere la realtà umana per attuare il disegno del Padre riguardante la salvezza del mondo.
Una disponibilità messa in luce nel brano evangelico, che sottolinea la dipendenza assoluta del bambino, che viene preso e portato in Egitto (Vangelo: Matteo 2,14) e poi portato «nella terra d’Israele», a Nazaret (v. 23).
Forse è lecito vedere in ciò un annuncio della disponibilità del Signore a lasciarsi “prendere” ed essere condotto alla Passione e alla Croce, momento dell’umiliazione più profonda del Figlio di Dio, attuativa, però, dell’universale salvezza.
Salvezza, dunque, annunziata e già attuata nella sua sottomissione al volere del Padre, che passa anche dalla sua sottomissione a Giuseppe e a Maria secondo il comando di Dio citato nel brano dell’Epistola (cfr. Esodo 20,12) e dall’accettazione di eventi che sembrano tenerlo in pugno, come l’avversione mortale del re Erode. E proprio sul precetto divino l’Apostolo poggia le norme che regolano la vita domestica (Epistola: Efesini 6, 1-3).
Con l’obbedienza di Gesù, i testi oggi proclamati esaltano quella di Giuseppe, il quale esegue fedelmente le istruzioni dell’Angelo del Signore (Matteo 2,13) meritandosi, perciò, le “benedizioni” date da Dio a Giacobbe (Lettura: Siracide 44,23) e realizzando alla lettera ciò che il medesimo testo biblico afferma a proposito di Mosè (45,1a-5).
Davvero Giuseppe, lo sposo di Maria e custode del Figlio dell’Altissimo, è l’«uomo mite che incontrò favore agli occhi di tutti, amato da Dio e dagli uomini» (v. 44,23-45,1a), capace di insegnare al bambino Gesù «l’alleanza e i decreti a Israele» (v. 45,5), facendolo crescere nella disciplina e negli insegnamenti del Signore (Efesini, 6,4). La preghiera liturgica può, quindi, affermare che nella Famiglia di Nazaret Dio ha «collocato le arcane primizie della redenzione del mondo» (Prefazio)
La Santa Famiglia, perciò, offre alle nostre famiglie la possibilità di riconoscere che non hanno in sé stesse il fondamento, ma nel superiore disegno di Dio al quale sono chiamate a “obbedire” così come ha fatto il suo stesso Figlio e, con lui, la Vergine Madre e san Giuseppe.
Nell’obbedienza, dunque, sta fondata la famiglia e il riferimento costante di tutti i suoi membri, genitori e figli, ai divini precetti è per essa garanzia per godere di un’esistenza “felice” perché immersa nella benedizione divina. Alle nostre famiglie va perciò sempre raccomandato di cercare nella volontà di Dio e nei suoi disegni il fondamento sul quale essa sta poggiata e al quale deve fare costante riferimento. Il compimento della volontà di Dio, pur tra inevitabili prove e difficoltà, è possibile anche oggi, a patto che le nostre famiglie rimangano ancorate all’Altare. L’amore del Signore Gesù che su di esso risplende nel pane e nel vino dell’Eucaristia, donando la grazia «di seguire sempre la legge dell’amore evangelico» (Orazione Dopo la Comunione), imprime in quanti ad essa si consegnano, un’energia capace di superare ogni avversità e di far sperimentare, in tutta verità, «i dolci affetti della famiglia» (Orazione All’inizio dell’Assemblea Liturgica).
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Questa seconda domenica “dopo l’Epifania” pone in rilievo il terzo evento che la tradizione liturgica, anche ambrosiana, vede come momento della “manifestazione” del Figlio di Dio venuto nel mondo e della sua missione.
Il Lezionario
Propone i seguenti brani biblici: Lettura: Ester 5,1-1c.2-5; Salmo 44; Epistola: Efesini 1,3-14; Vangelo: Giovanni 2,1-11 che viene letto ogni anno. Alla Messa vigiliare del sabato si legge Luca 24,1-8 quale Vangelo della Risurrezione. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della II domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).
Lettura del libro di Ester (5,1-1c.2-5)
1Il terzo giorno, quando ebbe finito di pregare, Ester si tolse gli abiti servili e si rivestì di quelli sontuosi.
Fattasi splendida, invocò quel Dio che su tutti veglia e tutti salva, e prese con sé due ancelle. Su di una si appoggiava con apparente mollezza, mentre l’altra la seguiva sollevando il manto di lei. Era rosea nel fiore della sua bellezza: il suo viso era lieto, come ispirato a benevolenza, ma il suo cuore era oppresso dalla paura. Attraversate tutte le porte, si fermò davanti al re. Egli stava seduto sul suo trono regale e rivestiva i suoi ornamenti ufficiali: era tutto splendente di oro e di pietre preziose e aveva un aspetto che incuteva paura.
2Alzato lo scettro d’oro, lo posò sul collo di lei, la baciò e le disse: «Parlami!».
Gli disse: «Ti ho visto, signore, come un angelo di Dio e il mio cuore è rimasto sconvolto per timore della tua gloria: tu sei ammirevole, signore, e il tuo volto è pieno d’incanto». Mentre parlava, cadde svenuta; il re si turbò e tutti i suoi servi cercavano di rincuorarla.
3Allora il re le disse: «Che cosa vuoi, Ester, e qual è la tua richiesta? Fosse pure metà del mio regno, sarà tua». 4Ester rispose: «Oggi è un giorno speciale per me: se così piace al re venga egli con Amàn al banchetto che oggi io darò». 5Disse il re: «Fate venire presto Amàn, per compiere quello che Ester ha detto». E ambedue vennero al banchetto di cui aveva parlato Ester.
Il brano fa seguito al racconto dei giorni di digiuno e di preghiera a cui si sottopose la regina Ester una volta avvertita della trama di un potente ministro del Re Artaserse di votare allo sterminio gli Ebrei deportati nelle varie regioni dell’impero persiano dopo la distruzione di Gerusalemme. Qui sono descritti i preparativi di Ester (vv. 1-1b) per comparire davanti al re, descritto al v. 1c in tutto il suo regale splendore. Viene poi detto come il re, ponendo il suo scettro sul collo di Ester le permette di stare alla sua presenza (v. 2) e vengono riferite le parole della regina che suscitano la compiacenza di Artaserse nei suoi confronti e la sua disponibilità a partecipare a un banchetto durante il quale la regina smaschererà il complotto del ministro infedele (vv. 3-5).
Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini (1,3-14)
Fratelli, 3benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, / che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
4In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo / per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, / 5predestinandoci a essere per lui figli adottivi / mediante Gesù Cristo, / secondo il disegno d’amore della sua volontà, / 6a lode dello splendore della sua grazia, / di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. / 7In lui, mediante il suo sangue, / abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, / secondo la ricchezza della sua grazia. / 8Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi / con ogni sapienza e intelligenza, /9facendoci conoscere il mistero della sua volontà, / secondo la benevolenza che in lui si era proposto / 10per il governo della pienezza dei tempi: / ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra. / 11In lui siamo stati fatti anche eredi, / predestinati – secondo il progetto di colui / che tutto opera secondo la sua volontà – / a essere lode della sua gloria, / noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
13In lui anche voi, / dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, / e avere in esso creduto, / avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso / 14il quale è caparra della nostra eredità, / in attesa della completa redenzione / di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.
Il brano oggi proclamato inaugura la parte dottrinale della lettera, nella quale l’Apostolo colloca come fondamento della Chiesa il disegno divino rivelato in Cristo Gesù. Si tratta, in realtà, di una lunga preghiera di benedizione, di lode e di ringraziamento a Dio per quanto egli ha fatto e continua a fare per gli uomini tramite il suo Figlio: «Ci ha scelti prima della creazione del mondo» (v. 4), ci ha predestinati a «essere per lui figli adottivi» (v. 5). Nel sangue del suo Figlio “abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe” (v. 7); in lui ci ha svelato i suoi disegni: «ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose» (v. 10). I vv. 12-13 mettono in luce come la benevolenza divina in Cristo riguarda sia i credenti di origine ebraica, sia quelli di origine pagana. Tutti infatti hanno ricevuto «il sigillo dello Spirito Santo» come anticipo (“caparra”) dell’eredità che si riceverà una volta che la redenzione abbia raggiunto anche il corpo (v. 14).
Lettura del Vangelo secondo Giovanni (2,1-11)
In quel tempo. 1Vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Il brano evangelico si premura di collocare il racconto nel «terzo giorno» che succede ai primi due caratterizzati dalla chiamata dei primi discepoli (vv. 35-51) e di ambientarlo in una «festa di nozze» nella città di Cana in Galilea, senza trascurare di nominare tra gli invitati la madre di Gesù, Gesù stesso e i suoi discepoli (vv. 1-2). I vv. 3-5 sottolineano il protagonismo della madre di Gesù che sollecita da lui un intervento a motivo dell’improvvisa mancanza di vino. L’apparente risposta negativa di Gesù che si rivolge alla madre con l’appellativo “donna”, da lui ripreso nel momento della sua morte (cfr. Giovanni 19,26), è motivata dal fatto che «non è ancora giunta la mia ora» (v. 4). L’“ora” di Gesù è quella della sua “glorificazione” sulla Croce con il conseguente ritorno al Padre. Di fatto Gesù interviene ordinando di riempire di acqua le anfore, di cui viene precisato il numero, sei, e la capienza, «da ottanta a centoventi litri l’una» (v. 6). Segue la constatazione da parte del direttore del banchetto della bontà del vino fatta notare allo sposo (vv. 9-10). L’evangelista non trascura di sottolineare che colui che dirigeva il banchetto «non sapeva da dove venisse» quel vino: un non sapere, una non conoscenza che dice la necessità di aprire il cuore alla fede in Gesù, il rivelatore unico di Dio. Il v. 11 precisa che questo «fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù», appunto per rivelare la sua identità e per sollecitare a credere in lui come hanno prontamente fatto i suoi discepoli.
Commento liturgico-pastorale
Questa seconda domenica pone in primo piano il terzo degli eventi che la tradizione liturgica, anche ambrosiana, propone insieme a quello dell’accorrere dei Magi a Betlemme e del Battesimo al Giordano come epifania del mistero del Figlio di Dio nel mondo.
Si tratta dell’acqua mutata in vino alle nozze di Cana, che l’evangelista descrive come «l’inizio dei segni» (Vangelo: Giovanni 2,11) compiuti da Gesù e con i quali manifestò la sua gloria, ovvero la sua provenienza dall’“alto”, da Dio, e questo al fine di suscitare la fede in lui come, di fatto, avviene per i primi discepoli chiamati a seguirlo (v. 11).
Ed è altamente espressivo il fatto che Gesù dia inizio alla sua attività di “rivelatore del Padre” nel contesto della festa per eccellenza, quella di nozze, nella quale è lecito vedere l’annuncio che in lui si stabilirà quella nuova e definitiva alleanza tra Dio e il suo popolo preannunziata dai profeti, ossia quella comunione d’amore che, in realtà, dovrà essere estesa fino ad abbracciare quegli uomini che, sino alla fine dei tempi, crederanno in lui.
Con altre parole l’epistola paolina afferma la stessa cosa lodando e magnificando l’inesprimibile grandezza dei disegni di Dio che, mandando il suo Figlio, ha «benedetto con ogni benedizione» l’intera umanità (Epistola: Efesini 1,3). La benedizione di Dio in Cristo, mentre esprime concretamente la benevolenza divina per il mondo, consiste non solo nella «redenzione e nel perdono delle colpe» (v. 7), ma nel chiamare gli uomini alla grazia della vita di figli e nel «ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra» (v.10).
In Gesù, pertanto, Dio ci ha «fatto conoscere il mistero della sua volontà», per noi di per sé inaccessibile, quella cioè di riversare la «ricchezza della sua grazia» e della sua «benevolenza» (cfr. Efesini 1,7-8) sull’intera umanità.
Cosa questa ben recepita dalla preghiera liturgica del Prefazio che ci fa rivolgere così a Dio, il Padre: «Tu per alleviarci le fatiche della vita ci hai confortato con l’esuberanza dei tuoi doni e per richiamarci alla felicità primitiva ci hai mandato dal cielo Gesù Cristo tuo Figlio e Signore nostro». Non ci resta, pertanto, che guardare al Signore Gesù che è il segno insuperabile della volontà salvifica di Dio e che nell’acqua mutata in vino alle nozze di Cana ci invita ad accostarci con fede alla pienezza della rivelazione dell’amore di Dio per noi, che avrà il suo momento più alto nell’“ora” della sua Croce! (cfr. Giovanni 2,4)
“Ora” che ci vede radunati, nel giorno di domenica, nel banchetto di nozze dell’Agnello il quale, nel vino eucaristico, ci offre la sua stessa vita divina alla quale ci lega con vincolo di amore indissolubile.
Per questo Maria, la madre di Gesù, con la sua fede esemplare per tutti coloro che in ogni tempo crederanno in lui, lo ha spinto ad anticipare l’“ora” della gioia pasquale portatrice di salvezza. Ella, con intuito di fede, sa che il suo Figlio è venuto nel mondo per mutare la sorte del mondo stesso, per convocarlo al banchetto eterno della salvezza e, nel domandare il suo intervento a favore dei due giovani sposi nel giorno delle loro nozze (cfr. v. 3), diviene l’immagine e il modello della Chiesa chiamata a intercedere sul mondo la «ricchezza della grazia» (cfr. Efesini 1,7). In Maria e, quindi, nella Chiesa, trova compimento ciò che era prefigurato nella regina Ester che non esita a mettere a repentaglio la sua stessa vita per salvare il suo popolo votato allo sterminio (cfr. Lettura: Ester 5,1-2). In realtà, non un popolo soltanto, ma l’intera umanità corre in ogni tempo il pericolo mortale di essere annientata dall’insidia di un potente “nemico”. La Chiesa, modellandosi a immagine della Madre di Gesù, intercede perché il Signore attualizzi la sua “ora” nella quale il dono della sua vita, significato nella coppa eucaristica del suo Sangue, abbatte l’opera devastatrice del male, comunica la gioia indicibile della comunione perenne con il Padre e la “caparra” dell’eredità che attende quanti, avendo creduto nel suo Unico Figlio, diventano, in lui, “figli”.
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La prima domenica dopo il sei gennaio è dedicata alla celebrazione del Battesimo del Signore come “epifania” o manifestazione delle Tre Divine Persone e di Gesù quale Figlio Unico di Dio e salvatore del mondo. Con questa festa si conclude il tempo liturgico di Natale e prende quindi avvio quello “Dopo l’Epifania”.
Il Lezionario
Prevede, ogni anno, la proclamazione delle seguenti lezioni bibliche: Lettura: Isaia 55,4-7, il Salmo 28 (29) e l’Epistola: Efesini 2,13-22 , ad eccezione del Vangelo che, per il corrente anno C, è preso da Luca 3,15-16.21-22. Alla Messa vigiliare del sabato sera viene letto Marco 16,9-16 come Vangelo della Risurrezione. (Le orazioni e i canti sono quelli propri della festa nel Messale Ambrosiano).
Lettura del profeta Isaia (55,4-7)
Così dice il Signore Dio: 4«Ecco, l’ho costituito testimone fra i popoli, / principe e sovrano sulle nazioni. / 5Ecco, tu chiamerai gente che non conoscevi; / accorreranno a te nazioni che non ti conoscevano / a causa del Signore tuo Dio, del Santo d’Israele, che ti onora. / 6Cercate il Signore, mentre si fa trovare / invocatelo, mentre è vicino. / 7L’empio abbandoni la sua via / e l’uomo iniquo i suoi pensieri; / ritorni al Signore che avrà misericordia di lui / e al nostro Dio che largamente perdona».
Il brano conclude la seconda parte del libro di Isaia con un’ultima esortazione ai membri del popolo d’Israele a prendere parte ai beni della rinnovata alleanza in seguito al ritorno dall’esilio babilonese e ad essere testimoni presso tutti i popoli della terra dei doni divini (vv. 4-5), così come Davide era stato testimone, principe e sovrano di Israele. Nei vv. 6-7 spicca l’invito alla conversione della mente e della condotta approfittando della vicinanza benevola di Dio.
Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini (2,13-22)
Fratelli, 13in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo.
14Egli infatti è la nostra pace, / colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, / cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. / 15Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, / facendo la pace, / 16e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, / per mezzo della croce, / eliminando in se stesso l’inimicizia. / 17Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, / e pace a coloro che erano vicini. / 18Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, / al Padre in un solo Spirito.
19Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, 20edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù. 21In lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; 22in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito.
Il brano mette in luce la riconciliazione dei giudei e dei pagani fra di loro e con Dio come frutto della salvezza operata in Cristo ovvero, come viene precisato al v. 13, «grazie al suo sangue», quello della sua Croce. In particolare nei vv. 14-15 si parla della riconciliazione tra il popolo di Dio, Israele, e i popoli pagani che la Croce del Signore ha fatto «una cosa sola». I vv. 16-18 parlano della riconciliazione degli uni e degli altri con Dio sempre «per mezzo della Croce», con la quale ha eliminato ogni «inimicizia tra Dio e gli uomini». I vv. 19-22 infine indicano le felici conseguenze per gli uomini dell’opera di salvezza compiuta dal Signore: «non più stranieri né ospiti», ma «concittadini dei santi e familiari di Dio» (v. 19), edificati su Cristo come pietra d’angolo (v. 20) per diventare «tempio santo del Signore» (v. 21), «abitazione di Dio per mezzo dello Spirito» (v. 22).
Lettura del Vangelo secondo Luca (3,15-16.21-22)
In quel tempo. 15Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, 16Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
21Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Nella prima parte del brano, vv. 15-16, si parla dell’attesa del popolo riguardante il compimento della promessa di Dio relativa all’invio del Messia identificabile, in un primo momento, nel Battista (v. 15). La sua risposta instaura un parallelo tra sé stesso e colui che deve venire, identificato come il «più forte», infinitamente superiore a Giovanni perché battezza non con acqua, ma «in Spirito Santo e fuoco» (v. 16). La seconda parte (vv. 21-22) descrive ciò che avviene dopo il battesimo di Gesù, che l’Evangelista coglie in preghiera. Qui si parla del cielo che si apre, sembra per far discendere su Gesù lo Spirito Santo (cfr. Isaia 63,7.19-64,11), la cui presenza è visibile e tangibile attraverso la colomba (cfr. Cantico dei Cantici 2,14; 5,2; 6,9). Infine, si ode una voce provenire dal cielo, vale a dire Dio stesso, che proclama Gesù come «il Figlio mio» (cfr. Isaia 42,1; Salmo 2,7); «l’amato» (cfr. Genesi 22,2.12.16) nel quale risiede la benevolenza divina.
Commento liturgico-pastorale
La festa odierna, in sintonia con le antiche tradizioni liturgiche, è da considerare come la principale degli eventi epifanici citati nel canto Alla Comunione della solennità del sei gennaio: «Oggi la Chiesa si unisce al celeste suo sposo che laverà i suoi peccati nell’acqua del Giordano. Coi loro doni accorrono i Magi alle nozze del Figlio del Re, e il convito si allieta di vino mirabile. Nei nostri cuori risuona la voce del Padre che rivela a Giovanni il Salvatore: “Questi è il Figlio che amo: ascoltate la sua parola”».
Il battesimo di Gesù, a ben guardare, è effettivamente l’evento “epifanico” per eccellenza, in quanto risultano in esso coinvolte le Tre Divine Persone, delle quali la preghiera liturgica ambrosiana ama mettere in luce il rispettivo ruolo a partire da Dio che in esso ha «manifestato il Salvatore degli uomini» e si è rivelato «padre della luce» (Prefazio I).
Il Padre dunque è il protagonista di ciò che avviene sulle rive del Giordano, accompagnando «con segni mirabili il lavacro del Salvatore al Giordano, principio del nostro battesimo» (Prefazio II). È lui, infatti, ad aprire il cielo mentre Gesù si immergeva nelle acque, che vengono così consacrate portando egli in sé la pienezza dello Spirito Santo disceso «sopra di lui… in forma corporea di colomba» (Vangelo: Luca 3,22).
Ed è ancora il Padre a far udire la sua voce, che rivela Gesù quale Figlio: «Il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (v. 22). Ed è proprio la solenne proclamazione e indicazione di Gesù come “il Figlio”, quello “Unico”, quello “amato”, il vertice della rivelazione trinitaria al Giordano.
In lui si adempie la parola profetica relativa al popolo d’Israele, costituito da Dio «testimone fra i popoli, principe e sovrano sulle nazioni» (Lettura: Isaia 55,4). Gesù, dunque, è il testimone, ossia il rivelatore ultimo e definitivo di Dio e punto di convergenza attorno al quale nei disegni divini i popoli e le nazioni tutte della terra sono destinate a radunarsi.
Si tratta di un mirabile progetto ideato nel cuore della Trinità e ora visibile e riscontrabile nettamente nel Figlio Unico, mandato nel mondo a portare il “compiacimento”, ovvero la benevolenza di Dio del quale egli è detentore e dispensatore (cfr. Luca 3,22).
In lui l’umanità intera, che ancora oggi si presenta divisa e lacerata, è destinata a diventare «una cosa sola» (Epistola: Efesini 2,14) in quanto «egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini» (v. 17).
I vicini sono, per l’Apostolo, gli appartenenti al popolo d’Israele, mentre i lontani sono i popoli pagani. Due “popoli” ostili, irriducibilmente nemici, che «per mezzo della sua carne» (v. 14), l’umanità cioè del Figlio di Dio, diventano, appunto «una cosa sola», diventano amici.
Viene così aperta una prospettiva di ricomposizione dell’umanità in «un solo uomo nuovo» che è, appunto, il Signore Gesù, anzi: «in un solo corpo» (v. 16), che è quello formato da lui e dall’intera umanità che ascolta la sua parola. Di tutto ciò i credenti cominciano a fare reale esperienza nella partecipazione ai sacramenti pasquali del Battesimo e dell’Eucaristia.
L’acqua del Battesimo, da Dio benedetta mediante la santificazione dello Spirito, cancella l’antica condanna, «offre ai credenti la remissione di ogni peccato e genera figli di Dio, destinati alla vita eterna», sicché quanti «erano nati secondo la carne, camminavano per la colpa verso la morte; ora la vita divina li accoglie e li conduce alla gloria dei cieli» (Prefazio). Gloria che consiste esattamente nella rigenerazione a figli di Dio!
Partecipando, quindi, alla mensa eucaristica del Corpo e del Sangue del Signore, «sacrificio perfetto che ha purificato il mondo da ogni colpa» (Orazione Sui Doni), osiamo domandare al Padre del cielo di renderci «fedeli discepoli del tuo Figlio unigenito perché possiamo dirci con verità ed essere realmente tuoi figli» (Orazione Dopo la Comunione).
Saremo allora credibili e convincenti nel proclamare con fede gioiosa il contenuto salvifico dell’Epifania al Giordano: «Tutto il mondo è santificato nel battesimo di Cristo e sono rimessi i nostri peccati» e nell’invitare gli uomini del nostro tempo: «Purifichiamoci tutti nell’acqua e nello Spirito» (Canto Alla Comunione) per rinascere come figli e membra di un unico Corpo abitato dall’unico Spirito, quello del Figlio di Dio.
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6 Gennaio 2013 - Epifania del Signore
Nella nostra tradizione liturgica è sempre stata celebrata con grande solennità e considerata come culmine delle feste natalizie. L’Epifania va intesa come manifestazione di Gesù come Figlio Unigenito del Padre e come manifestazione, in lui, della divina Trinità. La tradizione liturgica ambrosiana, in particolare, riconosce quattro eventi come “segni epifanici”: la manifestazione del Signore Gesù a tutti i popoli della terra rappresentati dai Magi; il Battesimo nul fiume Giordano; l’acqua mutata in vino alle nozze di Cana e la moltiplicazione dei pani. La solennità odierna pone in rilievo la manifestazione ai Magi, considerati come primizia dei popoli pagani chiamati alla fede e, al pari del 25 dicembre, possiede una propria Liturgia vigiliare vespertina e due celebrazioni di Messe: “della vigilia” e “nel giorno”, della quale proponiamo, di seguito, il commento.
La Messa “della vigilia”, celebrata nel contesto della Liturgia vigiliare vespertina, prevede la proclamazione di quattro Letture vetero-testamentarie: Numeri 24,15-25a; Isaia 49,8-13; 2 Re 2,1-12b; 2 Re 6,1-7; dell’Epistola: Tito 3,3-7 e del Vangelo: Giovanni 1,29a.30-34.
Il Lezionario della Messa “nel giorno”
Fa leggere: Lettura: Isaia 60,1-6; Epistola: Tito 2,11-3,2; Vangelo: Matteo 2,1-12. (Le orazioni e i canti sono quelli propri della Solennità nel Messale Ambrosiano).
Al termine della proclamazione evangelica viene dato l’Annuncio della Pasqua: “Si annuncia alla vostra carità, fratelli carissimi, che, permettendo la misericordia di Dio e del Signore nostro Gesù Cristo, il giorno 31 del mese di marzo celebreremo con gioia la Pasqua del Signore”.
Lettura del profeta Isaia (60,1-6)
In quei giorni. Isaia disse: «1Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, / la gloria del Signore brilla sopra di te. / 2Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, / nebbia fitta avvolge i popoli; / ma su di te risplende il Signore, / la sua gloria appare su di te. / 3Cammineranno le genti alla tua luce, / i re allo splendore del tuo sorgere. / 4Alza gli occhi intorno e guarda: / tutti costoro si sono radunati, vengono a te. / I tuoi figli vengono da lontano, / le tue figlie sono portate in braccio.
5Allora guarderai e sarai raggiante, / palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, / perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te, / verrà a te la ricchezza delle genti. / 6Uno stuolo di cammelli ti invaderà, / dromedari di Madian e di Efa, / tutti verranno da Saba, portando oro e incenso / e proclamando le glorie del Signore».
I versetti oggi proclamati si riferiscono alla città di Gerusalemme che, illuminata dalla presenza del Signore, si distingue tra tutti i popoli avvolti dalla “tenebra” e dalla “nebbia fitta”, vale a dire dall’ignoranza di Dio e, quindi, dall’incredulità e dall’idolatria (vv. 1-2). Per questo Gerusalemme diviene meta di pellegrinaggio per le genti della terra e ad essa faranno ritorno anche i suoi figli dispersi (vv. 3-4). La città vivrà giorni di gioia e di prosperità perché i popoli che in essa si riverseranno porteranno i loro doni più significativi, tra i quali l’oro e l’incenso (vv. 5-6), cosa, questa, che il brano evangelico mostrerà realizzata nell’accorrere dei Magi alla casa del Bambino di Betlemme.
Lettera di san Paolo apostolo a Tito (2,11-3,2)
Carissimo, 11è apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini 12e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, 13nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.14Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.
15Questo devi insegnare, raccomandare e rimproverare con tutta autorità. Nessuno ti disprezzi!
1Ricorda loro di essere sottomessi alle autorità che governano, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona; 2di non parlare male di nessuno, di evitare le liti, di essere mansueti, mostrando ogni mitezza verso tutti gli uomini.
Il brano riporta alcuni degli insegnamenti impartiti dall’Apostolo al fedele suo discepolo Tito sul come vivere nell’attesa della “beata speranza”, ovvero dell’incontro con il Signore. È lui, Gesù, la “grazia” di Dio, ossia il suo amore gratuito e misericordioso (v. 11), il quale da una parte ci insegna cosa dobbiamo evitare nella nostra vita (v. 12a) e come, invece, dobbiamo cercare (v. 12b), così che, nella sua manifestazione gloriosa alla fine dei tempi, egli sia il nostro salvatore (v. 13). Segue al v. 14 una sintetica confessione di fede nell’opera salvifica compiuta dal Signore nella sua morte per liberarci dal male e dal peccato e, soprattutto, per fare di noi il suo popolo santo, che vive in pace e in armonia con tutti (vv. 3,1-2).
Lettura del Vangelo secondo Matteo (2,1-12)
In quel tempo. 1Nato il Signore Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme 2e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». 3All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. 4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “6E tu Betlemme, terra di Giuda, / non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: / da te infatti uscirà un capo / che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».
7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
9Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella provarono una gioia grandissima. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
Il v. 1 oltre a riferire del luogo e del tempo della nascita di Gesù: «al tempo del re Erode», chiamato il Grande, dice dell’arrivo a Gerusalemme di «alcuni Magi» che possiamo ritenere dei sapienti di origine orientale, e della domanda sul neonato «re dei Giudei», ad essi annunziato dalla «sua stella». I vv. 3-6 riferiscono del turbamento di Erode e dell’inchiesta condotta tra gli esperti delle Scritture riguardante il luogo di nascita del Messia, che risulta essere Betlemme sulla base di una profezia di Michea 5,1, integrata dall’evangelista con l’allusione a 2Samuele 5,2. I vv. 7-9a parlano dell’incarico dato da Erode ai Magi di riferire a lui, una volta trovato il bambino, e della sua intenzione di andare ad adorarlo. I vv. 9b-10 riferiscono del viaggio dei Magi a Betlemme guidati dalla stella fino alla casa del Bambino. Il racconto si conclude con l’ingresso dei Magi nella casa dove videro «il bambino con Maria sua Madre» e con l’offerta dei doni simbolici della loro fede in lui: l’oro, l’incenso (cfr. Lettura: Isaia 60,6) e la mirra (v. 11) e con la precisazione del loro ritorno in patria senza passare da Erode (v. 12).
Commento liturgico-pastorale
L’ascolto delle divine Scritture, nel contesto dell’odierna celebrazione eucaristica, apre i nostri cuori alla contemplazione dei mirabili disegni divini annunciati negli eventi vetero-testamentari, nella antiche profezie e realizzati con l’apparizione, nel mondo, del Figlio Unigenito di Dio. Come tutti ben sappiamo, il mondo è davvero ricoperto dalla “tenebra” e una «nebbia fitta avvolge i popoli» (Lettura: Isaia 60,2) a motivo della lontananza da Dio, dell’incredulità che produce indifferenza e ogni genere di peccato e di male. Sicché il mondo, uscito buono dalle mani creatrici di Dio, risulta invece dominato dal potere tenebroso del male. Nella natività del suo Unico Figlio, di Gesù, Dio ha reso evidente, una volta per tutte, che lui ha a cuore l’umanità e l’intera creazione. In quella natività, pertanto, «è apparsa la grazia di Dio che porta salvezza a tutti gli uomini» (Epistola: Tito 2,11). Una salvezza, perciò, gratis data per sovrana deliberazione di Dio e che, pertanto, rivela la sua benevolenza verso tutti. In Gesù, perciò, si realizza la profezia che invitava la città santa di Gerusalemme ad “alzarsi” e a “rivestirsi di luce” (Isaia 60,1). Gesù infatti è la gloria di Dio che brilla su Gerusalemme, divenuta oramai simbolo della vera e definitiva città santa, la comunità del Signore, destinata ad accogliere le genti, attratte dalla sua luce, che è lo stesso Signore Gesù che tutta la illumina con la sua presenza (cfr. v.3). Un così grande disegno divino è svelato nell’accorrere dei Magi a Betlemme, alla casa del neonato re dei Giudei. I Magi, saggi orientali e pagani, non esitano a intraprendere un faticoso e pericoloso viaggio interiormente illuminati da una “stella”, che è la fede misteriosamente accesa da Dio nei loro cuori e, stando a quanto viene affermato nel Prefazio, si tratta di una chiara manifestazione della volontà di Dio di donarsi lui stesso nel suo Figlio! Una fede che essi esprimono in gesti esteriori di grande eloquenza quali il prostrarsi con il viso a terra davanti al Bambino e con l’offerta di doni quali oro, incenso e mirra (Vangelo: Matteo 2,11) che ne proclamano la sua divina regalità e messianicità. Davanti a questa scena sorprende e stupisce l’atteggiamento del re Erode e con lui dei dottori della Legge che non si lasciano illuminare dalle Sacre Scritture, che pure essi trattano continuamente (cfr. vv.4-6). Le Scritture che essi stessi citano rivelano, infatti, in tutta chiarezza, che il Messia atteso e invocato dal popolo d’Israele sarebbe nato in un piccolo paese custode delle divine promesse al re Davide.
La loro reazione è il turbamento, che in Erode diviene, da subito, un’avversione mortale al Bambino e che nei capi dei sacerdoti e negli scribi del popolo si tramuterà, più tardi, in un odio senza quartiere a Gesù, fino alla sua morte. Sarà proprio con quella morte, epifania suprema dell’Unigenito Figlio di Dio, che egli consegnerà sé stesso, la sua stessa vita, per riscattare l’umanità intera e farne così «un popolo puro che gli appartenga» (Tito 3,14).
La nostra assemblea liturgica che rende visibile la Chiesa è oggi, più che mai, attraversata da una grande intima gioia perché riconosce realizzata la pagina profetica di Isaia a sua volta confermata dall’accorrere dei Magi a Betlemme. Nella Chiesa che, per pura grazia, è in realtà quel “popolo puro” che appartiene al Signore (cfr. Tito 3,14), già convergono, infatti, genti da ogni angolo della terra quale primizia dell’intera umanità che la stella, segno dell’amore misericordioso del Padre, non cesserà di condurre fino ad essa dove, soltanto, è possibile incontrare il Signore Gesù. Perciò la Chiesa e ogni nostra comunità comprende che sul suo volto, ossia nella vita concreta di tutti i suoi fedeli, deve brillare più che mai la luce e la gloria del Signore, vale a dire il suo Vangelo, in grado di attirare irresistibilmente anche i figli che vengono da più lontano (cfr. Isaia 60,4) e avvolti dalla “nebbia fitta” dell’incredulità e dell’indifferenza.
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Questo giorno “ottavo della nascita del Salvatore” fa memoria della sua Circoncisione avvenuta in conformità alla Legge di Mosè e nella quale la Chiesa vede l’annunzio del compimento della salvezza che ha il suo fondamento nell’Incarnazione e nella Natività del Figlio unigenito di Dio.
Il Lezionario
Le lezioni bibliche proclamate sono: Lettura: Numeri 6,22-27; Salmo 66 (67); Epistola: Filippesi 2,5-11; Vangelo: Luca 2,18-21. Il Vangelo della Risurrezione per la messa vigiliare del sabato è preso da Giovanni 20,19-23.
Lettura del libro dei Numeri (6,22-27)
In quei giorni. 22Il Signore parlò a Mosè e disse: 23«Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro: 24Ti benedica il Signore e ti custodisca. 25Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. 26Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”. 27Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».
Si tratta della formula di benedizione che Dio stesso trasmette ai sacerdoti tramite Mosè e che è rivolta al popolo d’Israele liberato dall’Egitto e in marcia nel deserto verso la terra promessa. La benedizione è per tutti e per i singoli membri del popolo, sui quali viene invocato per tre volte il nome divino, assicurando così la benevolenza, la presenza e la protezione di Dio.
Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (2,5-11)
Fratelli, 5abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: 6egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, 7ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. 9Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, 10perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, 11e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
Il brano paolino, noto come “inno cristologico”, è elaborato secondo lo schema biblico dell’umiliazione del giusto sofferente (vv. 2-8) che poi viene esaltato da Dio (vv. 9-11). In particolare l’umiliazione del Signore consiste nella sua spoliazione della connaturale gloria divina per assumere diventando uomo la condizione di servo!
Il v. 8 sottolinea che tale umiliazione ha avuto il suo culmine nella morte in Croce, segno supremo dell’obbedienza filiale di Gesù al Padre. È per questa obbedienza che il Padre ha esaltato il suo Figlio con la sua risurrezione e dandogli il suo stesso nome, quello di Signore; un nome che gli sarà riconosciuto da tutti gli esseri viventi «in cielo, sulla terra e sotto terra».
Lettura del Vangelo secondo Luca (2,18-21)
In quel tempo. 18Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. 19Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. 20I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. 21Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.
Il testo riporta nei vv. 18-20 la conclusione del racconto della natività del Signore sottolineando lo stupore provocato dalle parole dei pastori su ciò che avevano visto dopo essere andati a Betlemme dietro rivelazione dell’angelo del Signore (vv. 9-17).
Di Maria si dice invece che custodiva tutte le cose che erano accadute «meditandole nel suo cuore». Il v. 21 parla della circoncisione compiuta sul bambino e della concomitante «imposizione del nome», precisando che ciò viene fatto secondo la prescrizione della Legge di Mosè (cfr. Levitico 12,3). La circoncisione è segno di appartenenza al popolo di Israele , già adottata da Abramo come segno dell’Alleanza con Dio (Genesi 17,10-13; 21,4). Quanto al nome, viene eseguito ciò che era stato detto dall’angelo Gabriele a Maria (cfr. Luca 1,31).
Commento liturgico-pastorale
L’odierna domenica conclusiva dell’Ottava del Natale pone in rilievo due eventi a esso legati ed entrambi fondati nelle divine scritture: la circoncisione e l’imposizione del nome, fissati come abbiamo appena detto dalla Legge di Mosè proprio l’ottavo giorno dalla nascita di un bambino. La circoncisione, in particolare, evidenzia l’appartenenza al popolo d’Israele e la sua alleanza con Dio significata dal sangue che viene versato.
Il rapido accenno che l’evangelista fa al rito al quale viene sottoposto il bambino Gesù porta con sé un contenuto teologico di straordinaria importanza da collegare a ciò che abbiamo letto nell’Epistola riguardante l’assunzione della «condizione di servo» di colui che che è nella stessa «condizione di Dio».
Tale condizione di servo rimanda all’obbedienza del Figlio che si consegna senza riserve al volere del Padre. Un volere che, inspiegabilmente per la nostra ragione, contempla lo svuotamento e l’umiliazione estrema del Figlio fino alla morte obbrobriosa «di croce» che, in qualche modo, è annunciata nel sangue e nei gemiti del bambino sottoposto alle prescrizioni della Legge. Nei piani e nei misteriosi disegni divini, dunque, la salvezza passa dall’umiliazione e dalla morte del Figlio che l’evento della circoncisione annunzia e anticipa. L’alto valore salvifico della circoncisione del Signore è messo in luce dalla preghiera liturgica ambrosiana per la quale egli, sottoponendosi a essa, «affermò così il valore dell’antico precetto, ma al tempo stesso rinnovò la natura dell’uomo liberandola da ogni impaccio e da ogni residuo del peccato. Senza disprezzo per il mondo antico diede principio al nuovo; nell’ossequio della legge divenne legislatore e, portando nella povertà della nostra natura umana la sua divina ricchezza, elargì nuova sostanza al mistero dei vecchi riti» (Prefazio). L’obbedienza del Figlio, la sua sottomissione al Padre è la nuova Legge del mondo nuovo che da lui prende principio, ed è causa e motivo della salvezza e della riconciliazione del mondo con Dio e insieme è la “via” obbligata per quanti credono in lui e intendono seguirlo.
La conformazione a Cristo nella via dell’obbedienza e dell’umiliazione è, di conseguenza, la testimonianza più credibile ed efficace che noi, discepoli del Signore, possiamo offrire a questo mondo perché «tutti gli uomini riconoscano, come unico nome che la nostra speranza può invocare» (Orazione A Conclusione Della Liturgia Della Parola) il nome di Gesù, dato da Maria al bambino su indicazione dell’angelo. Nome che ne proclama la missione: portare salvezza!
Ed è nel suo nome che invochiamo da Dio ogni grazia per il mondo intero all’inizio del nuovo anno e per noi quella di non rimanere avviluppati dal fascino perverso del male, «di perdere ogni gusto per i piaceri che danno la morte e di volgerci con animo puro al banchetto della vita senza fine» (Orazione Dopo La Comunione).
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Domenica nell’Ottava del Natale del Signore
La sapienza “pedagogica” della Chiesa cerca di aiutare i fedeli a penetrare più in profondità nel sublime mistero del Verbo di Dio fatto uomo, nato da una Madre sempre Vergine, per potersi appropriare, con fede più consapevole, della grazia racchiusa nella Natività del Signore, rivelata nelle Divine Scritture, illustrata nelle preghiere del Messale e celebrata nell’adunanza eucaristica. Per questo prolunga per otto giorni la solennità natalizia e, di conseguenza, questa Domenica, che cade proprio in questi giorni, è denominata: nell’Ottava del Natale del Signore.
Il Lezionario
Si legge: Lettura: Proverbi 8,22-31; Salmo 2; Epistola: Colossesi 1,13b.15-20; Vangelo: Giovanni 1,1-14. Alla messa vigiliare del sabato il Vangelo della Risurrezione è preso da: Giovanni 20,19-23. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della Domenica nell’Ottava del Natale del Signore del Messale Ambrosiano).
Lettura del libro dei Proverbi (8,22-31)
La Sapienza grida: 22«Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, / prima di ogni sua opera, all’origine. /23Dall’eternità sono stata formata, / fin dal principio, dagli inizi della terra. / 24Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, / quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; / 25prima che fossero fissate le basi dei monti, / prima delle colline, io fui generata, / 26quando ancora non aveva fatto la terra e i campi / né le prime zolle del mondo.
27Quando egli fissava i cieli, io ero là; / quando tracciava un cerchio sull’abisso, / 28quando condensava le nubi in alto, / quando fissava le sorgenti dell’abisso, / 29quando stabiliva al mare i suoi limiti, / così che le acque non ne oltrepassassero i confini, / quando disponeva le fondamenta della terra, / 30io ero con lui come artefice / ed ero la sua delizia ogni giorno: / giocavo davanti a lui in ogni istante, 31giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».
I versetti oggi proclamati parlano del rapporto tra la Sapienza e Dio, di cui si riconosce creatura pur precedendo la stessa creazione essendo stata formata «dall’eternità» (vv. 22-26). Anzi la Sapienza, intesa come un’entità personale, si descrive come “assistente” di Dio nel momento della creazione alla quale collabora come artefice ed è presente accanto a lui come una figlia che si “diverte” nel creato e, in particolare, nell’instaurare uno speciale rapporto con i figli dell’uomo (vv. 27-31). L’interpretazione cristiana applica la figura vetero-testamentaria della Sapienza alla persona del Signore Gesù.
Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (1,13b.15-20)
Fratelli, 13bil Figlio del suo amore 15è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, / 16perché in lui furono create tutte le cose / nei cieli e sulla terra, / quelle visibili e quelle invisibili: / Troni, Dominazioni, / Principati e Potenze.
Tutte le cose sono state create / per mezzo di lui e in vista di lui. / 17Egli è prima di tutte le cose / e tutte in lui sussistono. / 18Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, / primogenito di quelli che risorgono dai morti, / perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.
19È piaciuto infatti a Dio / che abiti in lui tutta la pienezza / 20e che per mezzo di lui e in vista di lui / siano riconciliate tutte le cose, / avendo pacificato con il sangue della sua croce / sia le cose che stanno sulla terra, / sia quelle che stanno nei cieli.
Il brano riporta l’inno a Cristo, qualificato al v. 13b come «Figlio del suo amore», s’intende di Dio. Esso è composto da due strofe che intendono celebrare rispettivamente Cristo nella sua funzione di salvatore e di mediatore nella prima creazione comprensiva anche dell’ordinamento cosmico (vv. 15-17) e nella nuova creazione, ovvero nella dimensione storico-salvifica (vv. 18-20). In particolare, con la sua incarnazione Gesù è divenuto il capo non solo di tutte le cose create (vv. 16-17), ma dell’intera umanità e, dunque, con la sua risurrezione dai morti, della Chiesa composta da quanti al pari di lui, «risorgono dai morti» (v. 18) grazie alla riconciliazione e alla «pacificazione» operata pure per tutte le realtà create dal «sangue della sua croce» (vv. 19-20).
Lettura del Vangelo secondo Giovanni (1,1-14)
1In principio era il Verbo, / e il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio. / 2Egli era, in principio, presso Dio: / 3tutto è stato fatto per mezzo di lui / e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. 4In lui era la vita / e la vita era la luce degli uomini; / 5la luce splende nelle tenebre / e le tenebre non l’hanno vinta. / 6Venne un uomo mandato da Dio: / il suo nome era Giovanni. / 7Egli venne come testimone / per dare testimonianza alla luce, / perché tutti credessero per mezzo di lui. / 8Non era lui la luce, / ma doveva dare testimonianza alla luce. / 9Veniva nel mondo la luce vera, / quella che illumina ogni uomo. / 10Era nel mondo / e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; / eppure il mondo non lo ha riconosciuto. / 11Venne fra i suoi, / e i suoi non lo hanno accolto. / 12A quanti però lo hanno accolto / ha dato potere di diventare figli di Dio: / a quelli che credono nel suo nome, / 13i quali, non da sangue / né da volere di carne / né da volere di uomo, / ma da Dio sono stati generati.
14E il Verbo si fece carne / e venne ad abitare in mezzo a noi; / e noi abbiamo contemplato la sua gloria, / gloria come del Figlio unigenito / che viene dal Padre, / pieno di grazia e di verità.
Il brano contiene alcuni versetti del Prologo del Vangelo secondo Giovanni (1,1-18). Ai vv. 1-2a viene subito detto che il Verbo (= Parola), equiparato a Dio, era presente fin dal principio della creazione. Egli è dunque posto come origine e principio della creazione stessa (v. 3) e risplende nell’universo e tra gli uomini come luce di vita che le tenebre non sono in grado di vincere. I vv. 6-8 riportano la testimonianza di Giovanni il Battista sul Verbo, considerato come luce perché porta nel mondo la rivelazione di Dio. I vv. 9-13 riferiscono che il Verbo viene incontro agli uomini anzitutto per illuminarli (v.9). Egli, però, riceve un rifiuto da parte del mondo e perfino da parte del suo popolo (vv. 10-11) mentre alcuni lo accolgono, ossia credono in lui. A costoro viene accordata la grazia di «diventare figli di Dio» poiché, a motivo della loro fede, «da Dio sono stati generati» (vv.12-13). Il v. 14, infine, contiene l’affermazione centrale dell’intero Prologo giovanneo: «E il Verbo si fece carne» , ossia è diventato uomo e questo uomo, che è il Figlio Unigenito di Dio, si chiama Gesù e viene tra gli uomini recando loro la pienezza dell’amore misericordioso e gratuito del Padre in cui consiste la pienezza della Verità!
Commento liturgico-pastorale
La domenica nell’Ottava del Natale ci offre la possibilità di prolungare, nella partecipazione ai divini misteri e nell’ascolto delle Sacre Scritture, la sosta gioiosa e piena di fede attorno al mistero dell’apparizione in questo mondo del Figlio Unigenito di Dio, del suo Verbo fatto uomo, in una parola, di Gesù, nato dalla Vergine Maria. Mistero mirabilmente sintetizzato nel canto All’Ingresso: «Nel Padre rimane l’eternità, la Madre conserva la verginità. L’invisibile non sdegnò assumere l’umana natura; è figlio dell’uomo e sempre Signore del mondo». A Lui, perciò, così ci rivolgiamo nella preghiera All’Inizio dell’Assemblea Liturgica: «L’universo non ti contiene, o Figlio di Dio, eppure il grembo di una vergine è diventato il tempio della tua dimora; per questo misterioso evento salvifico custodisci con vigile protezione il tuo popolo».
Una simile sosta, pertanto, non può che rincuorarci e spingerci a una fede limpida e gioiosa capace di divenire una testimonianza riconoscibile e contagiosa delle cose grandi che Dio, nel suo Figlio, ha fatto e fa per noi.
Nell’Incarnazione del Verbo veniamo a sapere che si realizza, in tutta verità, quanto era annunciato nella figura vetero-testamentaria della Sapienza personificata. Essa, che è presente accanto a Dio nella creazione del cosmo e degli uomini, tra i quali pone le sue delizie (Lettura: Proverbi 8,31), nella nostra comprensione di fede prepara la manifestazione del Verbo di Dio, una sola cosa con lui, e per mezzo del quale «tutto è stato fatto», «e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Vangelo: Giovanni 1,3).
Non una creatura, dunque, ma il Verbo che è Dio partecipa attivamente alla creazione di tutte le cose come artefice del creato ed è il Verbo di Dio nel quale dimora la vita, quella divina, a intrattenere un rapporto del tutto speciale con gli uomini che sono in questo nostro mondo, avvolto nelle tenebre oscure dell’incredulità e del peccato, e quindi posto nell’ombra della morte.
In esso egli viene come luce per illuminare il mondo con il suo splendore di rivelatore unico di Dio, sollecitando gli uomini a credere in lui per poter rinascere come figli di Dio e avere parte, fin da ora, della sua stessa Vita!
Il Verbo fatto carne, nel suo rapporto con il mondo e con gli uomini va inspiegabilmente incontro, lui che è uno di noi, alla non accoglienza, al rifiuto e alla guerra che contro di lui muove il potere delle tenebre, che sembra dominare questo mondo che, pure, «è stato fatto per mezzo di lui» (Giovanni 1,3). Per questo egli, nella sua identità di Figlio uguale al Padre e di uomo come lo siamo noi, entra, nell’ora della Croce, nelle tenebre più fitte del male che grava sull’umanità e versando il suo sangue, donando cioè la sua stessa Vita, riconcilia e stabilisce una pace eterna tra Dio e l’uomo (cfr. Epistola: Colossesi 1,20).
Accogliendo la grazia dell’ascolto delle Scritture in questi giorni di gioia per la Natività del Signore, lasciamoci avvolgere dalla bellezza e dalla grandezza delle cose di Dio che, in Cristo suo Figlio, sono state fatte per noi e che orientano il peculiare rendimento di grazie che la Chiesa oggi celebra: «con immensa gioia» e adorando «con fervido cuore il disegno divino che ci ha rinnovato» (Prefazio).
Guardiamo pertanto a Gesù, il Figlio di Maria, come al «principio di tutte le cose», come al nostro principio, riconosciamo in lui il «primogenito di tutta la creazione». Da lui viene il nostro riscatto, la nostra redenzione e la nostra salvezza, per cui lo riconosciamo anche come il «capo del corpo, della Chiesa» (Colossesi 1,18), che è la comunità di quanti lo hanno accolto come luce che illumina con la sua presenza e la sua parola il mistero di per sé inaccessibile che è Dio.
Accoglierlo è ciò che Dio si attende per rigenerare gli uomini come veri suoi figli. Non più dunque soltanto nati «da sangue, né da volere di carne» (Giovanni 1,13), ma partecipi oramai della sua stessa Vita!
È questa la prospettiva stupenda che si è aperta ai nostri cuori di credenti e che vorremmo, con la nostra vita, anzitutto, annunziare e far desiderare agli uomini di questi nostri giorni.
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NATALE DEL SIGNORE
La solennità del Natale ha inizio con la Liturgia vigiliare vespertina, ovvero con la Messa della Vigilia, nelle ore pomeridiane e serali del 24 dicembre. Con quella celebrazione prende avvio anche il Tempo liturgico di Natale, che si conclude la sera della domenica del Battesimo del Signore. Nella tradizione liturgica ambrosiana la solennità natalizia, prevede, come è stato appena ricordato, la celebrazione della Messa della Vigilia da collocare, possibilmente, nel contesto della Liturgia vigiliare vespertina, strutturata sul modello della veglia pasquale, a partire da un prolungato ascolto delle Divine Scritture così distribuite: Letture: Genesi 15,1-7; 1 Samuele 1,7c-17; Isaia 7,10-16; Giudici 13,2-9a; Epistola: Ebrei 10-37-39; Vangelo: Matteo 1,18-25. A essa si devono aggiungere le tre celebrazioni con formulari completi di lezioni bibliche e testi eucologici, denominate rispettivamente: “nella notte” (Lettura: Isaia 2,1-15; Epistola: Galati 4,4-6; Vangelo: Luca 2,15-20); “all’aurora” (Lettura: Isaia 52,7-9; Epistola: 1Corinzi 9,19b-22a; Vangelo: Luca 2,15-20) e “nel giorno”, che nella nostra tradizione liturgica è la celebrazione caratterizzata da una maggiore solennità e della quale, qui di seguito, proponiamo un commento ai testi biblici ed eucologici in essa proclamati.
Il Lezionario della Messa “nel giorno”
Propone i seguenti brani biblici: Lettura: Isaia 8,23b-9,6a; Epistola: Ebrei 1,1-8a; Vangelo: Luca 2,1-14.
Lettura del profeta Isaia (8,23b-9,6a)
23bIn passato il Signore Dio umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti. 1Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. 2Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando di miete e come si esulta quando si divide la preda. 3Perchè tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Madian. 4Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco. 5Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. 6Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre.
Il brano profetico è inserito nella sezione denominata “Il libro dell’Emmanuele”, di cui occupa i capitoli 6-12. In particolare il v. 23 parla di un futuro glorioso capace di riscattare le regioni del nord della Palestina (Zàbulon e Nèftali) da un’esperienza di oppressione e di umiliazione. Segue, con il capitolo 9, un oracolo con il quale tale riscatto è annunziato con l’apparizione di una grande luce che provoca gioia ed esultanza nel popolo (v. 2). Si tratta, in realtà, dell’intervento liberatore di Dio per porre fine all’oppressione che grava sul popolo (v. 3) e soprattutto alla violenza della guerra (v. 4). I vv. 5-6 proclamano, con accenti solenni, la nascita di un bambino al quale sarà dato ogni potere insieme al trono e al regno di Davide destinato, con lui, a durare per sempre.
Lettera agli Ebrei (1,1-8a)
Fratelli, 1Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, 2ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. 3Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, 4divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. 5Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? E ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? 6Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio». 7Mentre degli angeli dice: «Egli fa i suoi angeli simili al vento, e i suoi ministri come fiamma di fuoco», 8al Figlio invece dice: «Il tuo trono, Dio, sta nei secoli dei secoli».
Il brano riporta, quasi per intero, il prologo della lettera e si apre con la solenne affermazione dei vv. 1-2 riguardante il fatto che Dio, dal momento della venuta nel mondo del suo Figlio, “parla”, ovvero, si rivela agli uomini per mezzo di lui. Il v. 3 contiene la solenne dichiarazione circa l’identità divina del Figlio: «Irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza», e dice, in sintesi, l’opera salvifica da lui compiuta a favore degli uomini e che si conclude con la sua intronizzazione «alla destra della Maestà nell’alto dei cieli». I vv. 5-8, infine, attraverso continui ricorsi a citazioni scritturistiche veterotestamentarie (Salmo 2,7; 2Samuele 7,14a; 1Cronache 17,13a; Deuteronomio 32,43b; Salmo 96,7; Salmo 103,4), evidenziano, rispetto agli angeli, l’unicità del Cristo che è il Figlio, il Primogenito. A Lui il Padre consegna il trono «nei secoli dei secoli» ovvero la sovranità sugli angeli e su ogni creatura.
Lettura del Vangelo secondo Luca (2,1-14)
1In quei giorni. Un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. 2Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. 3Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. 4Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nazaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme; egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. 5Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. 6Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. 8 C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. 9Un angelo del Signore ai presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, 10ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore.12 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».13E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: 14«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama».
Nei vv.1-3 l’evangelista offre alcune coordinate storico-geografiche nelle quali colloca il racconto della natività del Signore. Il censimento deciso dall’imperatore romano obbliga Giuseppe a recarsi con Maria sua sposa a Betlemme, la città che ha dato i natali a Davide dal quale egli discende. In tal modo la nascita del Signore è collocata nell’alveo delle promesse fatte da Dio a Davide e alla sua “casa” (vv. 4-5) e delle quali è compimento. Il racconto vero e proprio della nascita del Signore, in verità assai stringato, occupa i vv. 6-7 e ne sottolinea l’estrema povertà. I vv. 8-12 riportano l’apparizione nella notte dell’angelo del Signore ai pastori, ai quali viene dato per primi l’annuncio del vangelo, vale a dire della buona e lieta notizia riguardante la nascita di un bambino (cfr. Lettura: Isaia 9,5-6), qualificato come Salvatore, Cristo, cioè Messia, e Signore. Il racconto si conclude ai vv. 13-14 con l’apparizione ai pastori di una «moltitudine dell’esercito celeste» che proclamano la glorificazione di Dio e la pace per gli uomini (cfr. Zaccaria 1,79) oggetto della benevolenza divina visibile e tangibile proprio nella natività del suo Unico Figlio.
Commento liturgico-pastorale
La natività del Signore è, per noi credenti, anzitutto un mistero, ovvero un evento della storia della salvezza che procede dal disegno divino gradualmente rivelato nelle Scritture. Tale disegno, che un tempo veniva attuato nelle gesta mirabili di Dio a favore del suo popolo Israele (cfr. Lettura: Isaia 9,3), trova il suo compimento nel «bambino nato per noi», nel figlio che «ci è stato dato» (cfr. v. 5), ossia in Gesù, nato a Betlemme dalla Vergine Maria e da lei, avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia (Vangelo: Luca 2,7). Egli, pertanto, stando alle parole che un angelo del Signore rivolge ai pastori, gli ultimi nella considerazione sociale del tempo, è il Salvatore, il Messia atteso e invocato e il Signore (v.11), ossia Dio, essendo egli «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Epistola: Ebrei 1,3).
Proprio perché Figlio, egli ha sulle «sue spalle il potere» (Isaia 9,5), quello di spezzare finalmente il giogo, la sbarra e il bastone che grava su ogni uomo (cfr. v.3). È il giogo oppressivo del potere del male che trascina l’umanità sulle sue vie perverse, lontano da Dio e, perciò, votata alla rovina eterna.
Il «bambino che ci è nato», dunque, viene per vincere il sanguinario aguzzino dell’uomo e per compiere, nel suo sangue, «la purificazione dei peccati» (Ebrei 1,3b), riconciliando in tal modo in sé l’umanità intera con Dio, il Padre.
La preghiera liturgica, a partire dai testi della Scrittura nei quali ode la voce stessa del Figlio, parola vivente di Dio, ne amplia e ne approfondisce il senso più profondo. Nella preghiera Dopo la Comunione domandiamo a Dio di poter intuire con fede più penetrante la «bellezza salvifica» del mistero della natività del Signore «e di possederne la grazia con amore più vivo».
Sono proprio i testi del Messale, capaci di cogliere in maniera insuperabile il contenuto dei brani biblici oggi proclamati e a trasformarli in preghiera, a darci l’opportunità di intuire con l’intelligenza della fede il mistero salvifico oggi celebrato.
Dal momento della sua Incarnazione nel seno della Vergine, il Figlio di Dio accetta, infatti, di condividere con noi la condizione di uomo permettendo in tal modo all’uomo di diventare «partecipe della vita divina» (Orazione A Conclusione della Liturgia della Parola).
Tutto ciò va sperimentato «con amore più vivo» proprio a partire dall’esperienza liturgica del mistero. In essa, infatti, accostandoci al pane e al vino eucaristici, diveniamo sempre più «partecipi della vita divina» in Cristo, più conformi a lui nella relazione filiale con il Padre e, dunque, suoi familiari e «degni dell’eredità promessa» (cfr.Orazione All’Inizio Dell’Assemblea Liturgica).
Che cosa comporti tutto ciò nella vita concreta di ogni uomo è facile intuirlo. Il Natale è anzitutto fondamento della dignità dell’uomo, della sua sacralità e inviolabilità. Questo perché il Verbo divenendo “carne”, «ha innalzato l’uomo accanto a sé nella gloria» (Orazione Sui Doni). Il Natale, di conseguenza, è fondamento del nostro indistruttibile legame con il Figlio di Dio fatto uomo. Lui e noi: una cosa sola!
A lui, attraverso la Vergine santa, abbiamo dato la nostra umanità, lui ci ha dato la sua divinità! Il Natale è fondamento perciò della nostra condizione di figli su cui si poggia e cresce la convinzione di poter prendere parte un giorno alla comunione di vita con il Padre, con Dio! Il Natale, inoltre, è fondamento della fraternità umana. Tutti figli nel Figlio e, perciò, tutti fratelli in Cristo Signore.
Esemplare nell’intuizione di fede del mistero e nel vivere la grazia che da esso proviene è la Vergine Maria che «credette alla parola dell’angelo e concepì il Verbo in cui aveva creduto» (Prefazio). A lei, la Madre, diciamo con l’esultanza del cuore: «Gioisci, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei l’esultanza degli angeli, sei la Vergine madre, la gioia dei profeti! Tu, per l’annuncio dell’angelo, generasti la gioia del mondo, il tuo Creatore e Signore. Gioisci perché fosti degna di essere madre di Cristo» (Canto Alla Comunione).
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Domenica dell’Incarnazione o della divina Maternità
Nella sesta e ultima domenica di Avvento la tradizione liturgica della Chiesa Ambrosiana celebra la solennità dell’Incarnazione del Signore nel seno della Vergine Maria, acclamata, perciò, come Madre di Dio.
Il Lezionario
Propone, ogni anno, i seguenti brani biblici: Lettura: Isaia 62,10-63,3b; Salmo: 71 (72); Epistola: Filippesi 4,4-9; Vangelo: Luca 1,26-38a. Nella Messa vigiliare del sabato si legge Giovanni 20,11-18 quale Vangelo della Risurrezione. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della Solennità del Messale Ambrosiano).
Lettura del profeta Isaia (62,10-63,3b)
In quei giorni. Isaia disse: 10«Passate, passate per le porte, / sgombrate la via al popolo, / spianate, spianate la strada, / liberatela dalle pietre, / innalzate un vessillo per i popoli».
11Ecco ciò che il Signore fa sentire / all’estremità della terra: / «Dite alla figlia di Sion: / “Ecco, arriva il tuo salvatore; / ecco, egli ha con sé il premio / e la sua ricompensa lo precede”. / 12Li chiameranno “Popolo santo”, / “Redenti del Signore”. / E tu sarai chiamata Ricercata, / “Città non abbandonata”».
1«Chi è costui che viene da Edom, / da Bosra con le vesti tinte di rosso, / splendido nella sua veste, / che avanza nella pienezza della sua forza?». / «Sono io, che parlo con giustizia, / e sono grande nel salvare». / 2«Perché rossa è la tua veste / e i tuoi abiti come quelli di chi pigia nel torchio?». / 3«Nel tino ho pigiato da solo / e del mio popolo nessuno era con me».
I vv. 10-12 del capitolo 62 celebrano la città di Sion (= Gerusalemme) ritornata fedele al suo Signore e, perciò, divenuta polo di attrazione (= vessillo) per i popoli (v. 10). A essa il Profeta annuncia la venuta del salvatore per la redenzione del popolo e per darle un nome nuovo (cfr. Isaia 62,2) che esprima la sua nuova condizione di città amata da Dio. Seguono, a questi, i primi tre versetti che introducono anzitutto il misterioso personaggio «che viene da Edom», «con le vesti tinte di rosso» (v. 1), dotato di una forza irresistibile e che, in realtà, si rivela essere Dio stesso che rivendica di aver “da solo” schiacciato i nemici del suo popolo, simbolicamente racchiusi nel popolo di Edom (vv.2-3).
Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (4,4-9)
Fratelli, 4siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. 5La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! 6Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. 7E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.
8In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. 9Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!
Il brano è preso dal capitolo conclusivo della lettera, dove l’Apostolo rivolge ai fedeli di Filippi le ultime esortazioni insieme ai suoi ringraziamenti. Il v. 4 presenta ancora una volta l’invito alla gioia che è una nota tipica dell’esistenza del credente. Seguono alcune esortazioni rette dall’affermazione «Il Signore è vicino», che induce a essere amabili con tutti (v. 5), a confidare in Dio nelle angustie della vita (v. 6) e a vivere nella pace (v. 7). I vv. 8-9, a detta degli esperti, rappresentano il “manifesto dell’umanesimo cristiano”, che si apre ad accogliere tutto ciò che di buono, giusto, puro... viene anche dal mondo.
Lettura del Vangelo secondo Luca (1,26-38a)
In quel tempo. 26L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, 27a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28Entrando da lei, disse: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te».
29A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. 30L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». 34Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». 35Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. 36Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: 37nulla è impossibile a Dio». 38Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».
Il brano evangelico va letto alla luce dei racconti vetero-testamentari di annunciazione, di concepimenti e di nascite del tutto singolari come, ad esempio, quella di Sansone (Giudici 13,1-7) e, in parallelo, con l’annuncio a Zaccaria, padre del Battista (Luca 1,5-25). Nei versetti iniziali (26-27) l’evangelista, mentre ambienta il suo racconto a livello temporale e spaziale, è particolarmente interessato a mettere in evidenza la condizione di Maria a cui è inviato Gabriele: «una vergine», quasi a voler preparare l’annunzio della sua singolare maternità fatta risalire direttamente all’intervento di Dio. I vv. 28-33 riportano il contenuto dell’annuncio. Maria viene salutata come «piena di grazia» (v. 28), a indicare il favore divino del tutto sorprendente e gratuito che guarda proprio a lei, una donna, una vergine non appartenente certo alle classi sociali più elevate. Il v. 29 registra il turbamento, anzi, il forte spavento avvertito inizialmente da Maria e che viene fugato dalle successive parole dell’angelo, finalmente rivelatrici dei disegni divini su di lei (vv. 30-33.35-37). Esse parlano della sua imminente maternità, quella di un figlio che dovrà essere chiamato Gesù (= Dio salva): nome indicativo della sua missione nel mondo quale «figlio dell’Altissimo» ed erede del trono di Davide secondo l’antica promessa: «Io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno... io renderò stabile il trono del suo regno per sempre» (2Samuele 7,12-13). Il v. 34 registra un secondo intervento di Maria riguardante la sua condizione di vergine, al quale fa seguito la nuova risposta dell’angelo (vv. 35-37), che rivela come l’annunciata maternità non sarà ascrivibile a un intervento umano, ma soltanto all’intervento divino mediante l’azione dello Spirito Santo. Le successive parole angeliche (v. 35b) segnano il culmine della rivelazione riguardante il figlio concepito dalla Vergine: non solo «figlio dell’Altissimo», non solo «figlio di Davide» e, dunque il re, il Messia, ma: «Sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio» in senso proprio ed esclusivo. Gesù, dunque, è il Figlio di Dio ed è il figlio di Maria, la vergine. Ciò è possibile solo a Dio per il quale «nulla è impossibile» come, ad esempio, rendere madre Elisabetta, una parente di Maria che, nella sua vecchiaia, ha concepito anch’essa un figlio (v. 36). Il racconto si conclude al v. 38 con il “sì” di Maria che la pone nel numero dei “servi del Signore”, vale a dire di coloro che si consegnano con decisione fedele e irrevocabile alla volontà di Dio.
Commento liturgico-pastorale
La tradizione liturgica della nostra Chiesa Ambrosiana dedica l’ultima domenica dell’Avvento alla celebrazione dell’Incarnazione del Signore nel seno della Vergine Maria.
Si vuole, in tal modo, condurre i fedeli a riconoscere, nel Bambino di Betlemme, il «Figlio dell’Altissimo», generato, come vero uomo, nel seno della Vergine, per opera dello Spirito Santo (cfr. Vangelo: Luca 1,31-35). La presente domenica, perciò, vuole aprire i nostri cuori alla grandezza e alla stupenda bellezza dei disegni di Dio che tutti ci riguardano e che comportano la venuta salvifica nel mondo del suo Figlio Unigenito che noi, con fede integra, confessiamo «vero Dio e vero Uomo».
Il canto Alla Comunione esprime liricamente il contenuto della nostra fede: «O scambio di doni mirabile! Il Creatore del genere umano, nascendo dalla Vergine intatta per opera di Spirito Santo, riceve una carne mortale e ci elargisce una vita divina».
In realtà i testi biblici e le preghiere del Messale non indugiano più di tanto nell’indagare il mistero insondabile, qual è l’Incarnazione del Verbo di Dio. Esso esige infatti di risalire e di penetrare nella vita trinitaria di Dio e reclama, in chi ascolta, la consegna libera e intelligente, sull’esempio della Vergine Santa, al volere divino al quale «nulla è impossibile» (cfr. vv. 37-38).
L’attenzione, pertanto, è rivolta maggiormente alla dimensione salvifica di tale mistero, considerato anzitutto come l’avverarsi delle promesse di Dio a Davide in ordine al ristabilimento del suo trono e del suo regno (vv. 32-33) e al riscatto del suo popolo così annunziato: «Dite alla figlia di Sion: Ecco, arriva il tuo salvatore» (Lettura: Isaia 62,11). Riscatto che trasforma un popolo umiliato e oppresso in «Popolo santo», un popolo di «Redenti del Signore» (v. 12).
Con ciò, a partire dal riscatto di Israele, si comprende come nell’Incarnazione del Figlio che assume in sé l’umanità intera, Dio in realtà dispone il riscatto e la redenzione dell’intera famiglia umana per farne il suo “Popolo santo”. È quanto viene profeticamente annunziato nella Lettura, dove si parla di un personaggio misterioso: «che viene da Edom, da Bosra con le vesti tinte di rosso, splendido nella sua veste, che avanza nella pienezza della sua forza» (Isaia 63,1) e nel quale riconosciamo il Signore Gesù che, con la sua Incarnazione, avvia quell’opera di salvezza e di liberazione dell’uomo che porterà a compimento nella sua Pasqua di morte e di risurrezione.
Dal mistero del Verbo Incarnato lo sguardo di fede e di stupore può ora rivolgersi al mistero della Vergine Madre che l’angelo saluta come «piena di grazia» e ricolma della presenza dello Spirito Santo (Luca 1,28.30.35) e così cantata All’Ingresso: «Elisabetta dice a Maria; “Perché a me sei venuta, Madre del mio Signore? Se l’avessi saputo, sarei uscita a te incontro. Tu porti in grembo il Re dell’universo, io solamente un profeta; tu colui che dà la legge, io colui che la osserva; tu la Parola che salva, io la voce che ne proclama l’avvento».
Il primo dei due Prefazi proposti per l’odierna solennità, cogliendo il senso pieno della pagina evangelica oggi proclamata, esprime così il mistero della Vergine-Madre Maria: «Accogliendo con fede illibata l’annunzio dell’angelo, concepì il tuo Verbo, rivestendolo di carne mortale; nell’esiguità del suo grembo racchiuse il Signore dei cieli e il Salvatore del mondo e per noi lo diede alla luce, serbando intatta l’integrità verginale».
Tutte le preghiere e i canti della Messa, in realtà, testimoniano la fede stupiuta e ammirata della Chiesa di fronte al mistero di questa «serva del Signore» (Luca 1,38) che la benevolenza e la potenza divina, non senza il suo sì, ha reso capace di ridonare «il Dio vivo onde il genere umano sorge libero dall’antica oppressione» (Prefazio II).
Possiamo a ragione affermare che da questa donna «comincia l’opera di salvezza» (Prefazio II) che il suo Figlio ha portato a termine nell’ora della Croce.
Tutto ciò fonda e stabilisce nella Chiesa, e in tutti noi, quella “gioia” del tutto diversa da quella effimera di questo mondo, perchè frutto della “ricchezza” ridonataci dal Figlio di Maria. A ragione, perciò, l’Apostolo ci esorta: «Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti» (Epistola: Filippesi 4,4).
Una gioia e una letizia che, nel raduno eucaristico, ci viene data per Maria dalla cui «fecondità è germinato colui che ci sazia con angelico pane» (Prefazio II).
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