di Don Alberto Fusi

In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO AMBROSIANO, curata da don Alberto Fusi.

 

6/11/2011 – Nostro Signore Re dell’Universo


1. L’ultima domenica dell’anno liturgico: Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo

La solennità odierna conclude il corrente anno liturgico dedicato alla ripresentazione nel tempo del mistero della nostra salvezza che è Cristo Signore Crocifisso e Risorto, Re dell’Universo. Il Lezionario prescrive la proclamazione dei seguenti brani biblici: Lettura: 2 Samuele 7,1-6.8.9.12-14a.16-17; Salmo 44; Epistola: Colossesi 1,9b-14; Vangelo: Giovanni 18,33c-37. Nella Messa vespertina del sabato viene letto: Luca 24,1-8 quale Vangelo della Risurrezione.


2. Vangelo secondo Giovanni 18,33c-37


In quel tempo. 33Pilato disse al Signore Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». 34Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». 35Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». 36Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». 37Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

               


3. Commento liturgico-pastorale

 

Il brano evangelico odierno fa parte del più ampio racconto della Passione che in Giovanni occupa i  capitoli 18-19 e 20. In particolare riferisce un passaggio dell’interrogatorio di Gesù condotto dal governatore romano Ponzio Pilato (18,28-19,16), al quale era stato “consegnato” dopo il processo subito presso il sommo sacerdote Caifa. La scena vede come protagonisti Gesù e Pilato che, una volta appresa l’accusa rivolta a Gesù dai maggiorenti d’Israele, gli rivolge la domanda: «Sei tu il re dei Giudei?» (v. 33).

La domanda allude alla trepida attesa presente in Israele del Messia, il quale doveva certamente restaurare il regno dando inizio a una nuova stagione esaltante per il popolo di Dio. Tale attesa era tenuta desta dagli oracoli profetici e in particolare dalla solenne promessa di Dio a Davide proclamata nella Lettura: «Io susciterò un tuo discendente dopo di te...» (2 Samuele 7,12). Curiosamente Gesù prima di dare una risposta interroga a sua volta Pilato (v. 34) tentando di aprirgli gli occhi sulla sottile manovra ordita «da altri», ovvero dai capi dei Giudei che lo hanno consegnato a lui.

La risposta piccata di Pilato: «Sono forse io Giudeo?» dice che egli non ha compreso l’avvertimento di Gesù e che considera la cosa una vicenda tutta interna che oppone a Gesù alla sua gente e ai capi dei sacerdoti che lo hanno consegnato a lui (v. 35). A questo punto abbiamo la prima delle due solenni affermazioni con le quali il Signore dichiara la sua regalità (v. 36) e quindi il suo essere effettivamente re (v. 37b).

Dapprima spiega la provenienza della sua regalità, che egli esercita con il «venire in questo mondo». Tale provenienza distingue essenzialmente la regalità di Gesù da quella che è comunemente esercitata in terra da un regnante, tanto è vero che non si è verificato nessun combattimento tra i servitori di Gesù «perché non fossi consegnato ai Giudei» (v. 36b).

Perché fosse ancora più evidente l’origine non terrena della sua regalità Gesù ripete: «Il mio regno non è di quaggiù», anche se con la sua parola e le sue opere la esercita di fatto anche qui, tra gli uomini che egli invita ad ascoltare la sua voce e a porsi sulle sue orme. Ancora una volta Pilato non coglie il messaggio profondo veicolato nelle parole di Gesù e ripresenta la stessa domanda: «Dunque tu sei re?» (v. 37). Omettendo però la precisazione «dei Giudei» (v. 33), che limita l’estensione  della sua regalità, di fatto ne proclama la dimensione universale.

Dopo aver affermato la veridicità dell’affermazione del suo giudice: «Tu lo dici: io sono re», Gesù fornisce la spiegazione relativa alla modalità della sua regalità mettendo in luce come effettivamente essa viene esercitata: «Per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità» (v. 37). Tenendo conto di ciò che si legge in merito nel vangelo giovanneo, la testimonianza riguarda la missione di portare in questo mondo ciò che Gesù, che è il Verbo di Dio fatto uomo, ha visto e ha udito presso il Padre.

In una parola, si tratta della rivelazione di Dio portata nel mondo dal suo Figlio unigenito che è destinata ad ogni uomo invitato ad “ascoltare la voce” di Gesù e dunque ad impostare concretamente la vita secondo la proposta di entrare in comunione con Dio che è il cuore della verità ossia della rivelazione.

Pur con un linguaggio diverso, l’apostolo Paolo presenta la regalità del Signore con la categoria più nota della salvezza portata nel mondo e che, nel disegno di Dio, riguarda il mondo intero. È Dio, infatti, che nel suo Figlio «ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati» (Epistola: Colossesi 1,13-14).

Queste parole alludono alla croce sulla quale il Signore ha dato piena testimonianza alla verità contenuta nella sua regalità, che nel progetto divino è destinata a «portare a compimento il mistero della nostra salvezza» che comporta la liberazione dell’umanità dal potere alienante del male e la conseguente consegna al Padre di  «un regno universale ed eterno: regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace» ( Prefazio).

L’apostolo Paolo esorta quanti sono stati assoggettati alla signoria del Signore Crocifisso a obbedire a lui in tutto e a comportarsi «in maniera degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio» (Colossesi 1,10) come autentici cittadini del Regno.

La partecipazione al «Pane della vita immortale» ci dona la grazia e la forza per obbedire «con gioia a Cristo, Signore dell’universo, per regnare anche noi un giorno nella gloria senza fine» (Orazione Dopo la Comunione ).

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30-10- 2011 – II domenica dopo la Dedicazione


1. “La partecipazione delle genti alla salvezza”

 

È il titolo che, nel Lezionario ambrosiano, contraddistingue questa seconda domenica dopo la dedicazione, destinata ad approfondire il mistero della Chiesa. I brani biblici oggi proclamati sono:  Lettura. Isaia 45,20-23; Salmo 21; Epistola: Filippesi 3,13b-4,1; Vangelo: Matteo 13,47-52. Nella Messa vigiliare del sabato viene letto: Marco 16,9-16 quale Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXXI domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.

 


2. Vangelo secondo Matteo 13,47-52

 

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: 47«Il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. 48Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. 49Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. 51Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». 52Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

 


3. Commento liturgico-pastorale

Il testo evangelico conclude la serie delle parabole del regno dei cieli che occupano l’intero tredicesimo capitolo. Quella oggi proclamata, vale a dire la parabola della rete, occupa i vv. 47-48, ai quali fa seguito la spiegazione ai vv. 49-50. I vv. 51-52 rappresentano la conclusione dell’intero discorso in parabole, che interpella la comprensione dei discepoli (v. 51) ed esorta quanti si mettono alla scuola di Gesù per diventare suoi discepoli a fare come lo scriba capace di attualizzare “oggi” gli insegnamenti del Maestro.

La parabola prende spunto da ciò che avviene nel mestiere dei pescatori dove, una volta tirata a riva la rete precedentemente calata in acqua, si opera una cernita tra i pesci commestibili e quelli che non lo sono sia perché ritenuti cattivi sia perché proibiti dalle prescrizioni della Legge: «Tutto ciò che non ha né pinne né squame nelle acque sarà per voi obbrobrioso» (Levitico 11,12).

Proprio questo gesto dei pescatori che separano i pesci buoni da quelli cattivi che stavano insieme nella stessa rete è colto dalla spiegazione della parabola fatta con il ricorso a immagini proprie al genere letterario dell’apocalittica giudaica del tempo di Gesù. Essa allude al giudizio finale «alla fine del mondo», che vede come protagonisti gli angeli, sempre presenti nel linguaggio apocalittico riguardante il giudizio. Esso viene in pratica descritto come una separazione il cui esito qui sembra riguardare soltanto «i cattivi», che sono destinati alla rovina eterna significata nell’immagine della «fornace ardente» e dello «stridore dei denti» (v. 50).

Nella parabola, invece, i pescatori mettono i pesci buoni «nei canestri» (v. 48) che, verosimilmente, rappresentano la sicurezza della salvezza e della felicità eterna per gli uomini giudicati “buoni” perché fedeli a Dio e alla sua Legge, che il Signore Gesù ha tutta racchiusa nella carità. La domanda conclusiva ai discepoli: «Avete compreso tutte queste cose?» (v. 51) riguarda la comprensione dei «misteri del regno» (cfr. Matteo 13,11) ovvero delle «cose nascoste» (13,35) che soltanto chi si fa discepolo può capire.

Questi, come insegna la breve parabola dello «scriba divenuto discepolo del regno dei cieli», è in grado di estrarre dal deposito prezioso che dimora in lui come ascoltatore del Maestro divino «cose nuove e cose antiche» (v. 52), ossia di attualizzare l’insegnamento del Signore nelle mutevoli circostanze dei tempi e dei luoghi. Proclamata nel tempo liturgico segnato dalla contemplazione del mistero della Chiesa, l’odierna pagina evangelica ci dice il carattere universale di essa che, come «la rete gettata nel mare» è destinata ad accogliere in sé tutti gli uomini senza curarsi di emettere su di essi giudizi e “separazioni” preventivi.

Questi, come abbiamo imparato dalla spiegazione della parabola, sono rimandati agli ultimi tempi e sono riservati a Dio stesso. Ora la rete deve essere piena! Del resto già nella pagina profetica di Isaia è annunciato con evidente chiarezza l’universale chiamata dei popoli all’unica salvezza donata dal solo unico Dio: «Non sono forse io il Signore? Fuori di me non c’è altro dio; un dio giusto e salvatore non c’è all’infuori di me» (Lettura: Isaia 45,21). Di qui il pressante invito rivolto da Dio a tutte le genti: «Volgetevi a me e sarete salvi» (v. 22).

Queste parole profetiche si sono realizzate effettivamente nella persona del Signore Gesù che è venuto nel mondo ad abbattere i muri di separazione e a raccogliere l’umanità dispersa in una sola famiglia: quella dei figli di Dio. Ed è ciò che egli continua a fare tramite la Chiesa i singoli fedeli e, dunque, ciascuno di noi, esortati dall’Apostolo a rimanere «saldi nel Signore» (Epistola: Filippesi 4,1) e a rifuggire da sentimenti e da atteggiamenti propri a quanti «si comportano da nemici della croce di Cristo… e si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra» (Filippesi 3,18.19) incuranti del Regno e della salvezza. In questo caso, nell’ora del giudizio, come i pesci ritenuti “cattivi”, saremo “gettati via” (Matteo 13,48) ovvero andremo incontro “alla perdizione” (Filippesi 3,19).

Per questo così preghiamo nell’orazione All’Inizio dell’Assemblea liturgica: «Abbi misericordia, o Dio, dei tuoi servi ed effondi su noi la varietà dei tuoi doni; tieni viva e ardente nel nostro cuore la fiamma delle fede, della speranza, della carità, perché ci sia dato di perseverare con vigile impegno nell’osservanza della tua legge» che è l’amore che ha fatto della Chiesa il segno visibile della partecipazione delle genti alla salvezza in Cristo Signore.

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23-10-2011 – I domenica dopo la Dedicazione

1. La domenica del “mandato missionario”

 

È il titolo con cui il Lezionario ambrosiano contraddistingue questa domenica che ha il compito di mettere in luce ciò che la Chiesa è chiamata essenzialmente a fare: predicare a tutti il Vangelo di salvezza.

Le lezioni bibliche oggi proposte sono: Lettura: Atti degli Apostoli 10,34-48a; Salmo 95; Epistola: 1 Corinzi 1,17b-24; Vangelo: Luca 24,44-49a. Nella messa vigiliare del sabato viene proclamato Giovanni 21,1-14 quale Vangelo della Risurrezione.

Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXX domenica del Tempo «per annum» nel Messale ambrosiano.

 

2. Vangelo secondo Luca 24,44-49a.

 

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 44«Sono queste le parole che io vi dissi  quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». 45Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture 46e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso».

 

3. Commento liturgico-pastorale

 

I versetti evangelici oggi proclamati sono ambientati negli avvenimenti successivi ai fatti centrali della morte e della risurrezione del Signore e, in particolare, fanno parte del più ampio racconto dell’ultima apparizione del Signore risorto ai suoi discepoli (Luca 24,36-49). Ad essi seguono immediatamente i versetti relativi all’ascensione di Gesù al Cielo.

Nella sua apparizione tra i suoi il Signore non solo fa constatare ai discepoli che colui che sta loro davanti è proprio il loro maestro crocifisso, ma addirittura mangia con loro del «pesce arrostito» (Luca 24,42).

Sono due gesti che intendono preparare i discepoli a diventare «testimoni» autorevoli di ciò che hanno udito e visto e che introducono efficacemente gli ultimi «insegnamenti» impartiti dal Signore risorto. Essi riguardano anzitutto il significato autentico dei ripetuti annunci a essi fatti e riguardanti essenzialmente la sofferenza e la morte a cui dovrà andare incontro come adempimento di «tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi»  (v. 44).

Con queste parole il Signore dice ai suoi discepoli, e soprattutto a quelli che crederanno in lui lungo i secoli, che nelle Scritture potranno sempre rintracciare l’annunzio profetico del Cristo e, dunque, di Gesù e di ciò che a lui sarebbe accaduto.

È la familiarità con le divine Scritture a farci scorgere in esse essenzialmente una “profezia” del Signore Gesù, ma a nulla varrebbe scrutare le pagine bibliche e studiarle a fondo se il Signore non “apre” a noi, come già ai discepoli, «la mente per comprendere le Scritture» (v. 45). Solo così sarà possibile comprendere fino in fondo il significato e la portata di ciò che la Scrittura annuncia: «Il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» (v. 46), che si è effettivamente verificato nella morte e nella risurrezione del Signore.

Questi fatti, dunque, rientrano in un disegno divino di salvezza profeticamente annunciato nella Legge e nei Profeti e di fatto avverato negli eventi pasquali del Signore crocifisso e risorto. Contenendo questi eventi il disegno salvifico e l’effettiva salvezza, si comprende come questi dovranno essere «predicati a tutti i popoli», compreso il popolo della prima Alleanza rappresentato dalla città di Gerusalemme mediante l’intrinseco appello alla “conversione” della mente e della condotta al fine di ottenere «il perdono dei peccati» (v. 47). Espressione, questa, che sintetizza il frutto di quegli avvenimenti salvifici.

Seguono al v. 48 le solenni parole rivolte ai discepoli: «Di questo voi siete testimoni». Essi infatti hanno visto, udito e compreso tutte le cose “scritte” su Gesù ed effettivamente “avvenute” in lui. Sono perciò “testimoni” affidabili e autorevoli nella predicazione di quelle “cose” a tutti i popoli resi tali dal fatto che il Risorto, prima di congedarsi dai suoi, manda su di essi «colui che il Padre mio ha promesso», vale a dire lo Spirito Santo (v. 49a), che terrà sempre viva in essi la sua Parola e i suoi gesti portatori di salvezza.

Il testo evangelico fornisce così tutti gli elementi indispensabili perché la Chiesa, di cui domenica scorsa abbiamo celebrato il mistero nel segno visibile del nostro Duomo, obbedisca fedelmente al mandato missionario che il Signore Gesù, tramite gli Apostoli, le ha affidato e che è stato espresso nel ritornello al Salmo: «Annunciate a tutti i popoli le opere di Dio».

Per questo la Chiesa dovrà sempre stare alla “scuola della Parola” per interiorizzare nell’illuminazione dello Spirito Santo quanto essa annunzia e rivela circa la salvezza universale che è in Cristo crocifisso e risorto. L’annunzio missionario universale ha come un cuore: «Cristo crocifisso» (Epistola : 1Corinzi 1,23). Ciò non deve sorprendere e impaurire la Chiesa ma, convinta che «è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (v. 21) predichi la «parola della croce» (v. 18) nella quale si dispiega la sapienza e l’irresistibile potenza divina di salvezza. Il continuo contatto con la Parola e l’esperienza del “mangiare” con il Signore, vale a dire, l’Eucaristia memoriale ripresentativo della sua morte e risurrezione, fa della Chiesa e dei fedeli “testimoni” veritieri di ciò che annunziano «a tutti i popoli» (Luca 24,47) senza preclusioni di sorta. Ciò che ha cominciato a fare, superata qualche incertezza, la Chiesa delle origini come leggiamo nella Lettura a proposito dell’esperienza missionaria dell’Apostolo Pietro: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga» (Atti degli Apostoli 10,34-35). Il Prefazio svela e proclama l’eccezionale intento che soggiace a tutto ciò: «Il Signore Gesù da tutte le genti trasse un’unica  Chiesa e a lei misticamente si unì con amore sponsale», avvertendo inoltre che «questo mistero mirabile, raffigurato nel corpo di Cristo, in questa celebrazione efficacemente si avvera».

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16/10/2011 – Dedicazione del Duomo di Milano


1. La domenica della dedicazione del Duomo, chiesa madre di tutti i fedeli ambrosiani


Fa memoria, ogni anno, delle varie dedicazioni succedutesi nei secoli del Duomo di Milano che è la Chiesa Cattedrale per i fedeli della diocesi ambrosiana e Chiesa madre per tutti i fedeli che, pur appartenendo ad altre diocesi, seguono per antica consuetudine la Liturgia ambrosiana Questa domenica inaugura, nel più ampio contesto del Tempo “dopo Pentecoste”, una serie si domeniche e settimane dette “dopo la dedicazione” destinate a concludere l’Anno liturgico con la solennità di Cristo Re dell’universo. Il Lezionario prevede i seguenti brani biblici: Lettura: Baruc 3,24-38 oppure Apocalisse 1,10;21,2-5; Salmo 86; Epistola: 2 Timoteo 2,19-22; Vangelo: Matteo 21.10-18. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare nella Messa vigiliare del sabato è preso da Giovanni 20,24-29.


2. Vangelo secondo Matteo 21,10-17


In quel tempo. Mentre il Signore Gesù 10entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». 11E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea». 12Gesù entrò nel tempio e scacciò tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe 13e disse loro: «Sta scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera. Voi invece ne fate un covo di ladri». 14Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì. 15Ma i capi dei sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che aveva fatto e i fanciulli che acclamavano nel tempio: «Osanna al figlio di Davide!», si sdegnarono, 16e gli dissero: «Non senti quello che dicono costoro?». Gesù rispose loro: «Sì! Non avete mai letto: Dalla bocca di bambini a e di lattanti hai tratto per te una lode?». 17Li lasciò, uscì fuori dalla città, verso Betània, e là trascorse la notte.


3. Commento liturgico-pastorale

L’odierno brano evangelico si presenta composto dai versetti conclusivi (10-11) del racconto fatto dall’evangelista Matteo dell’ingresso “messianico” di Gesù in Gerusalemme e da quelli riguardanti la “purificazione” del Tempio (vv. 12-17). In particolare nei versetti 10-11 leggiamo la reazione all’ingresso trionfale in Gerusalemme di “tutta la città” e dunque dei suoi abitanti che si pongono la domanda: «Chi è costui?» (v. 10) alla quale risponde la folla che lo aveva accompagnato nel cammino di avvicinamento e di ingresso in città: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea», alludendo forse alla realizzazione della promessa fatta da Dio a Israele di mandare “un profeta” pari a Mosè (Deuteronomio 18,15).

Gesù, dunque, fa il suo ingresso nel Tempio e, proprio nella sua veste di Profeta, ovvero di Messia, compie il gesto sorprendentemente violento descritto al v. 12 cacciando fuori «tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano» dando spiegazione del suo gesto con il ricorso ad alcuni passi della Scrittura come Isaia 56,7: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera» e Geremia 7,11 che aveva parlato già del Tempio ridotto «a un covo di ladri». Il v. 14 registra un altro gesto rivelatore della messianicità di Gesù: «Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì». La novità non è certo nelle guarigioni, da sempre operate da Gesù, ma nel luogo dove queste ora si compiono: nel Tempio.

Tutto ciò sembra entrare in contrasto con le disposizioni fatte risalire al re Davide che vietavano proprio al “cieco” e allo “zoppo” di entrare nella casa del Signore (cfr. 2 Samuele 5,8). Possiamo dire al riguardo che in Gesù viene abbattuta ogni barriera, ogni ostacolo per accedere a Dio. Con i malati anche i pagani non potevano accedere al Tempio. Con il suo gesto Gesù ci rivela che in lui, Tempio di Dio non costruito dalla mano dell’uomo, tutti senza eccezione, a cominciare dai malati nel corpo e nello spirito, possono trovare “guarigione” e salvezza e in lui, vera Casa di Dio, far salire la loro preghiera fino al suo trono. Il v. 15 riporta la reazione ostile dei «capi dei sacerdoti e gli scribi» suscitata, si badi bene, dalle “meraviglie” compiute da Gesù.

Come capi e guide del popolo, esperti dottori della Legge e dei Profeti, avrebbero almeno dovuto porsi degli interrogativi come quello iniziale degli abitanti di Gerusalemme: «Chi è costui?» (v. 10) che fa cose che la Scrittura attribuisce all’Inviato di Dio. La loro indignazione riguarda specialmente l’acclamazione entusiastica rivolta dai “fanciulli” a Gesù proprio nel Tempio: «Osanna al figlio di Davide». Capi dei sacerdoti e scribi sanno molto bene che si tratta di un’acclamazione che riconosce in Gesù il compimento della regalità senza fine fatta da Dio a Davide e alla sua discendenza.

Gesù quindi quale Re-Messia! A essi, ancora una volta, Gesù risponde con la citazione scritturistica del Salmo  8,3: «Con la bocca di bambini e di lattanti: hai posto una difesa contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli». Il brano si chiude al v. 17 con l’“uscita” di Gesù da Gerusalemme. Egli si reca a Betania, verosimilmente a casa di Maria, Marta e Lazzaro. Nella città santa aveva trovato gente pronta a riconoscerlo come il Messia di Dio: le folle, i malati, i bambini così come gente perplessa davanti a lui, come gli abitanti di Gerusalemme, o addirittura ostili come i capi dei sacerdoti e gli scribi. Ostilità che preannunzia come Gesù, il Messia, avrebbe operato la salvezza e la “guarigione” del mondo come “servo sofferente” del Signore.

Proclamato in questa domenica della dedicazione del Duomo il testo evangelico ci dice di andare oltre ciò che i nostri occhi vedono per scorgere nella grande, meravigliosa costruzione il “mistero” che esso racchiude ed esprime. Il “mistero” di Cristo quale nuovo e definitivo Tempio e Casa di Dio e il “mistero” della Chiesa che in esso si raduna. Il Duomo ci dice che in Cristo e da Cristo che associa a sé la sua Chiesa salgono a Dio le preghiere e le suppliche per il popolo santo dei fedeli ma anche per l’intera umanità. Il Duomo ci dice che in Cristo tutti trovano accesso a Dio senza distinzioni o preclusioni di sorta. In esso è offerto a Dio il culto spirituale che dà a Dio la lode a lui gradita e che ottiene da lui salvezza e “guarigione” per il  mondo intero.

Il Duomo ci dice che il popolo che in esso si raduna è segno del raduno di tutte le genti in Cristo che è in verità la «grande casa di Dio»  (Lettura: Baruc 3,24), la “sapienza” vivente di Dio che «è apparsa sulla terra e ha vissuto fra gli uomini» (v. 38) per rivelare e attuare il mirabile disegno divino di universale salvezza. Il Duomo con la sua mole possente ci dice che la Chiesa è stata fondata da Dio su solide fondamenta (cfr. Epistola: 2 Timoteo 2,19) vale a dire sul sacrificio pasquale del suo Figlio e con le meraviglie che esso racchiude ci esorta a essere tutti «come un vaso nobile, santificato, utile al padrone di casa, pronto per ogni opera buona» (v. 21), lontani ed estranei, perciò, ad ogni “iniquità” (v. 19) ma dediti alla «giustizia, la fede, la carità e la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro» (v. 22). In adorazione davanti alla “sapienza” divina che ha voluto porre la sua dimora tra gli uomini nella persona stessa del suo Figlio Gesù attivo e presente nella Chiesa, suo Corpo, sua Sposa, contempliamo nel Duomo, nostra Chiesa madre, il “mistero” che tutti ci coinvolge quello di formare, ognuno per la nostra parte, la Casa di Dio tra gli uomini.

Ci viene incontro, per questo, la preghiera liturgica espressa nel Prefazio: «Il Signore Gesù ha reso partecipe la sua Chiesa della sovranità sul mondo che tu gli hai donato e l’ha elevata alla dignità di sposa e di regina. Alla sua arcana grandezza si inchina l’universo perché ogni suo giudizio terreno è confermato nel cielo. La Chiesa è la madre di tutti i viventi, sempre più gloriosa di figli generati ogni giorno a te, o Padre, per virtù dello Spirito Santo. È la vite feconda che in tutta la terra prolunga i suoi tralci e, appoggiata all’albero della croce, si innalza al tuo regno. È la città posta sulla cima dei monti, splendida agli occhi di tutti, dove per sempre vive il suo Fondatore».

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9-10-2011 - VI dopo il martirio del Battista


1. La sesta domenica “dopo il martirio” del Precursore


Ha il compito nella serie delle domeniche dopo il martirio del Battista di testimoniare con l’annuncio della Parola e la celebrazione della Pasqua del Signore qual è la fisionomia della Chiesa: una Comunità di discepoli del Signore. Il Lezionario riporta i seguenti brani della Scrittura: Lettura: Giobbe 1,13-21; Salmo 16; Epistola: 2 Timoteo 2,6-15; Vangelo: Luca 17,7-10. La pericope di Luca 24,13b.36-48 viene letta alla Messa vespertina del sabato come Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono presi dalla XXVIII domenica del Tempo «per annum» nel Messale ambrosiano.  


2. Vangelo secondo Luca 17,7-10  

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 7«Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti in tavola”? 8Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi , quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.  


3. Commento liturgico-pastorale  

Il breve brano che viene oggi proclamato fa parte di una serie di insegnamenti impartiti da Gesù ai suoi discepoli (Luca 17,1-10) allo scopo di far comprendere loro ciò che in effetti comporta l’essere discepolo: evitare lo scandalo dei piccoli, ovvero degli ultimi della Comunità (vv. 1-2); la piena disponibilità al perdono vicendevole (vv. 3-4) e la necessità di aver fede (vv. 5-6).

I versetti oggi letti, prendendo lo spunto dalla realtà sociale del tempo in cui era praticata la schiavitù insegnano, a quanti seguono il Signore, a non pensare di poter vantare qualche pretesa davanti a lui per il fatto di essere suoi discepoli: non hanno compiuto altro che il loro dovere!

Per questo viene messo in campo il rapporto padrone/servo (=schiavo) abituale nell’antichità. Un rapporto dove il servo adibito per i lavori agricoli e per la cura del gregge non pensa neppure di avere diritto di sedersi a mensa per sfamarsi ma, al contrario, sa che la sua dura condizione di schiavitù, che lo relega nell’infimo gradino della scala sociale, lo obbliga a prendersi cura del suo padrone servendolo a tavola (v. 8).

Le parole del Signore diventano ancora più dure nel sottolineare come il padrone non è nemmeno sfiorato dall’idea di esprimere in qualche modo la sua «gratitudine verso quel servo». Egli ha solo «eseguito gli ordini ricevuti» (v. 10).

La parola conclusiva del Signore diretta ai suoi discepoli, se possibile, è ancora più difficile da capire e da accettare: dopo aver fedelmente ottemperato ai suoi insegnamenti i discepoli devono ritenersi semplicemente «servi inutili», gente facilmente sostituibile, quasi dei “buoni a nulla” (v. 10). Si tratta di una lezione quasi scoraggiante che Gesù rivolge ai suoi discepoli di un tempo e dunque anche a noi.

Letta e ascoltata nel tempo liturgico che prende avvio dal martirio del Battista e che sfocia nella grande domenica, quella prossima, della Dedicazione del Duomo, Chiesa madre per tutti i fedeli ambrosiani, vuole far comprendere con estrema chiarezza a tutti noi come si sta nella Chiesa, nella compagnia di Gesù che ha per regola unica la carità messa in luce domenica scorsa.

Ci viene detto che, nella Chiesa, tutti siamo “servi” e per di più non indispensabili. D’altra parte il Signore stesso è venuto dal Cielo come “servo” e ha portato a compimento l’antica profezia del “servo di Dio” umiliato e messo a morte.

È la via obbligata per i discepoli, che sopprime nei nostri cuori la smania del potere, del successo, della presunzione, del dominio che rallenta non poco il nostro passo sulle vie del Vangelo da annunziare e da testimoniare al mondo.

È la via dello svuotamento di sé e della consegna totale alla volontà di Dio sulla quale ci ha preceduto il santo Giobbe che, spogliato di tutto, compreso l’affetto dei figli, esclama: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Lettura: Giobbe 1,21).

Non diversamente l’apostolo Paolo, che a causa del Vangelo soffre «fino a portare le catene come un malfattore» (Epistola: 2 Timoteo 2,9) che «sopporta ogni cosa per quelli che Dio ha scelto» (v. 10) pronto a morire con il Signore e a dare la vita per lui. Egli non reclama per sé onori e ricompense, ma insegna al suo discepolo a fare come lui ha fatto: «Sforzati di presentarti a Dio come una persona degna, un lavoratore che non deve vergognarsi e che dispensa rettamente la parola della verità» (v. 15).

A questa scuola occorre mettersi come discepoli del Signore, ma soprattutto come sua Comunità, sua Chiesa, consapevoli che si tratta di abbandonare vie e pensieri umani per mettersi sulle vie di Dio. Cosa questa che ottiene chi si affida a lui nella preghiera come l’antico orante: «Tendi a me l’orecchio, (o Dio) ascolta le mie parole, mostrami i prodigi della tua misericordia» (Salmo 16) e quanti aprono il loro cuore per assumere gli stessi sentimenti e gli stessi atteggiamenti del Signore Gesù, “il servo di Dio”, resi al vivo nella celebrazione dei divini misteri.

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2-10-2011 - V dopo il martirio del Battista


1. La quinta domenica “dopo il martirio” del Precursore

 

Indica nell’amore di Dio e del prossimo la norma suprema che regola la vita della Chiesa e di ogni credente. Il Lezionario offre le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Deuteronomio 6,2-12; Salmo 17; Epistola: Galati 5,1-14; Vangelo: Matteo 22,34-40. Nella Messa vespertina del sabato viene letto Luca 24, 13-35 quale Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXVII domenica del Tempo «per annum» nel Messale ambrosiano.

 

2. Vangelo secondo Matteo 22,34-40

 

In quel tempo. 34I farisei, avendo udito che il signore Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme 35e uno di loro, un dottore della Legge lo interrogò per metterlo alla prova: 36«Maestro, nella Legge, qual’è il grande comandamento?». 37Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. 38Questo è il grande e primo comandamento. 39Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. 40Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

 


3. Commento liturgico pastorale

 

Il brano evangelico odierno rappresenta l’ultima delle tre controversie riportate in Matteo 22,15-40 e che contrappongono a Gesù i farisei, i membri della classe sacerdotale (sadducei) e i sostenitori del re Erode (erodiani) sulla questione del pagamento del tributo all’imperatore romano (vv. 15-22); sulla risurrezione dei morti (vv. 23-33) e, dunque, sul precetto più grande della Legge (vv. 34-40).


Il testo si apre con la precisazione della riunione dei farisei (v. 34) che sembra preparare quella che decreterà la rovina del Signore Gesù. Si avverte, infatti, un’intonazione malevola e minacciosa alla domanda che uno di essi fa a Gesù «per metterlo alla prova» (v. 35), ossia per ottenere dalla sua risposta argomenti per attaccarlo. La domanda riguarda nientemeno il “grande precetto” imposto dalla Legge data da Dio al suo popolo (v. 36).


Nella sua risposta, a ben guardare, Gesù dice che il precetto, il più grande, è quello dell’amore, che va in due direzioni le quali permettono di parlare di un “primo” e di un “secondo” precetto. Anzitutto l’amore per Dio (v. 37) al quale, con citazione diretta del libro del Deuteronomio 6,5, va riservato un amore «con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». Dio, dunque, al di sopra di tutto e di tutti. A lui nulla e nessuno può essere anteposto. In questo senso è il più grande e il primo nella scala gerarchica di tutti i comandamenti (v. 38).


Speculare a questo è il secondo che, con citazione del libro del Levitico 19,18, riguarda l’amore del prossimo «come te stesso». Si tratta di una disposizione che supera quella riportata in Matteo 7,12, comunemente nota come la “regola d’oro”: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro». L’amore del prossimo è senza dubbio, il secondo nel duplice precetto dell’amore ma, nel suo adempimento, si rispecchia quello più grande dell’amore per Dio.


La solenne conclusione di Gesù chiude la controversia: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (v. 40), ossia tutta la divina prima rivelazione contenuta appunto nella Legge (= i primi cinque libri della Bibbia o Pentateuco) e nei Profeti (comprendente non solo i libri profetici ma anche quelli storici e i Salmi). Tutto dunque sta come appeso a questi due cardini dell’amore per Dio e per il prossimo!


Queste parole del Signore scolpiscono nel cuore dei suoi discepoli, e di tutta la Chiesa, ciò che è essenziale e da ritenere come l’unica cosa indispensabile: l’osservanza sine glossa dell’unico comandamento da lui lasciato: quello dell’amore verso Dio anzitutto, già chiaramente rivelato nella prima alleanza: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Lettura: Deuteronomio 6,4-5) e quello verso il prossimo come ci tramanda da subito la predicazione apostolica: «Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso». (Epistola: Galati 5,14).


È quanto la Chiesa e, in essa, ogni fedele è tenuto a osservare per poter efficacemente rendere al mondo la testimonianza più limpida, trasparente, immediatamente leggibile al suo Signore e a ciò che egli ha compiuto donandosi senza riserve alla volontà del Padre e consegnando la sua stessa vita per ogni uomo a partire da quanti lo hanno tradito, umiliato e messo a morte.


La celebrazione eucaristica mette alla portata di tutti l’Amore con cui il Signore ci ha amati e il cui segno è la sua Croce attualizzata nel mistero. Abbiamo così la possibilità di valutare la reale consistenza della nostra fede e l’autenticità della nostra partecipazione all’Eucaristia nell’osservanza quotidiana del precetto dell’amore predicato e anzitutto vissuto dal Signore Gesù.


Non lo dimentichiamo: la forza attrattiva della Chiesa non consiste in altro se non nella sua graduale trasformazione in una comunità retta e guidata dall’amore senza condizioni o contropartite verso il nostro prossimo, ossia ogni uomo che incontriamo sul nostro cammino.


Del resto, nel nostro amore brilla qualcosa di quello immenso con il quale Dio, come preghiamo nel Prefazio, ha «tanto amato il mondo e tanta pietà hai provato per noi, da mandare il tuo Unigenito... e così nel tuo Figlio fatto uomo ci hai amato tutti con un amore nuovo e più alto». È questo Amore che rende possibile a noi l’amore!

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25-09-2011 – IV dopo il martirio del Battista


1. La quarta domenica “dopo il martirio” del Precursore
   

Offre la “testimonianza” al Signore Gesù il rivelatore del Padre, inviato e donato al  mondo come “pane di vita eterna”. Registriamo nel Lezionario le seguenti lezioni scritturistiche: Lettura: Isaia 63,19b-64,10; Salmo 76; Epistola: Ebrei 9,1-12; Vangelo: Giovanni 6,24-35. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXVI domenica del Tempo «per annum» nel Messale ambrosiano. Alla Messa vigiliare del sabato viene proclamato: Giovanni 20,11-18 quale Vangelo della risurrezione.    


2. Vangelo secondo Giovanni 6,24-35    

In quel tempo. 24Quando la folla vide che il Signore Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. 25Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».    
26Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. 27Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». 28Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». 29Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».    
30Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? 31I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». 32Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. 33Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». 34Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». 35Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».
   


3. Commento liturgico-pastorale    

Il brano oggi proclamato introduce, di fatto, quello che viene comunemente indicato come il discorso sul “pane della vita” (6,35-59) avviato dal grande “segno” compiuto da Gesù nello sfamare oltre cinquemila persone con “cinque pani d’orzo e due piccoli pesci” (v. 9) che un ragazzo, tra la folla, recava con sé.

Si comprende, perciò, come la folla cercasse Gesù inseguendolo al di là del lago di Tiberiade alla volta di Cafarnao (v. 24) e, una volta trovatolo, intesse con lui un dialogo che, secondo lo stile narrativo dell’evangelista Giovanni, è tutto orientato alla domanda conclusiva del v. 34: «Signore, dacci sempre questo pane» che provoca la parola di rivelazione: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» (v. 35).

In una prima risposta (vv. 26-27) Gesù invita i suoi interlocutori, che lo seguono al fine di ricevere ancora cibo gratuito e abbondante (v. 26), a darsi da fare (= operate): «non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna» (v. 27).

Parole misteriose che riguardano un “alimento” certamente non materiale e che può essere dato soltanto dal “Figlio dell'uomo”, vale a dire dal Messia consacrato a Dio dal suo “sigillo”, ossia dal suo Santo Spirito (v. 27).

Esse provocano negli interlocutori un’ulteriore domanda riguardante cosa devono compiere per «fare le opere di Dio» e così ricevere il «cibo che rimane per la vita eterna». La risposta di Gesù è lapidaria: «che crediate in colui che egli ha mandato» (v. 29). L’“opera” dunque da fare è accogliere e prestare fede all’inviato di Dio come suo unico rivelatore, ossia allo stesso Gesù.    
E' quanto comprendono gli interlocutori che sono disposti a credere in lui a patto però che faccia  un “segno” che lo accrediti appunto come tale (v. 30). Di qui la citazione scritturistica del “segno” dato da Mosè che nel deserto, fa piovere dal cielo la manna come “cibo”, compresa anche al tempo di Gesù come figura del dono della Legge che è data a Israele come vero nutrimento quotidiano.

Gesù, a questo punto, conduce ancora più in alto il dialogo con la solenne affermazione  introdotta dal duplice “In verità in verità io vi dico”, rivelando quale autore del dono del “pane dal cielo”, non un uomo per quanto grande come Mosè, ma Dio stesso e indicando nel segno del “pane” la persona stessa del suo Inviato (v. 33), incaricato non solo di nutrire Israele ma di “dare la vita” al mondo intero (v. 33).

Di qui la richiesta dei Galilei: «Signore dacci sempre questo pane» (v. 34) alla quale Gesù risponde con la solenne parola di auto-rivelazione: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» (v. 35). Gesù pertanto non è solo in grado di ottenere da Dio il pane di vita eterna ma lui, in persona, è  quel “pane”!

È questa la “testimonianza” che accogliamo oggi dalla parola di Dio e che come comunità del Signore, ma anche come singoli credenti, dobbiamo saper trasmettere. Gesù, l’inviato dal Padre, il rivelatore del suo volto, è il pane di vita e di salvezza dato da Dio al mondo. Egli è la concreta risposta che, ieri come oggi, Dio dà all’umanità avvilita e umiliata dal potere del male e che a lui grida: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Lettura: Isaia 63,19b).

Gesù è disceso dal cielo, è venuto dal Padre per strapparci al potere del male che fa dell’intera umanità, secondo la parola profetica, «una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento» (Isaia 64,5).

Gesù “pane di vita” è ora offerto e donato al mondo nell’attuazione liturgica della sua croce, vale a dire del suo sacrificio pasquale. Con esso egli ha posto fine ai sacrifici materiali dell’antica alleanza entrando «una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri o di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna» (Epistola: Ebrei 9,12).

Il segno perenne del suo sacrificio redentivo è il “pane eucaristico” che viene imbandito sull’altare perché chi crede ne mangi per avere fin da ora la “vita eterna” che è comunione con la vita divina. Si comprende, perciò, come sia decisivo per tutti i membri della Chiesa «restare in comunione con Cristo, nostro capo, nella fede e nelle opere» per poter «ritrovarci tutti partecipi della felicità eterna» (Orazione Dopo la Comunione) già sperimentata nel mistero eucaristico del “ pane di vita”.

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18-09-2011 – III dopo il martirio del Battista


1. La terza domenica “dopo il martirio” del Precursore    

Offre una peculiare “testimonianza” a Gesù, il Messia sofferente riconosciuto come “il Cristo di Dio”. IL Lezionario prevede le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Isaia 11,10-16; Salmo 131; Epistola: 1Timoteo 1,12-17; Vangelo: Luca 9,18-22. Le orazioni e i canti per la Messa sono quelli della XXV domenica del Tempo «per annum» nel Messale ambrosiano. Viene proclamato: Matteo 28,8-10, quale Vangelo della risurrezione, nella Messa vigiliare del sabato.    


2. Vangelo secondo Luca 9,18-22   

In quel tempo. 18Il Signore Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». 19Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia; altri uno degli antichi profeti che è risorto». 20Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». 21Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno.    
22«Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».     


3. Commento liturgico-pastorale    

Il brano è immediatamente preceduto dal racconto dell’invio missionario dei Dodici e della moltiplicazione dei pani (Luca 9,1-17) ed è seguito dall’insegnamento su cosa significhi essere discepoli del Signore (Luca 9,23-27).

Tutta la sezione intende condurre a una più profonda conoscenza di Gesù a partire proprio dal nostro testo che riporta le parole con cui Pietro riconosce in Gesù il Messia (vv. 18-20) e quelle con cui Gesù annuncia, per la prima volta, la sua passione e morte (vv. 21-22).

Il riconoscimento di Pietro è però preceduto dall’importante precisazione che esso avviene mentre Gesù «si trovava in un luogo solitario a pregare» (v. 18). L’evangelista Luca ama collocare gli avvenimenti più significativi che vedono Gesù come protagonista nel contesto della preghiera, cosa questa, da annotare da parte di coloro che intendono farsi suoi discepoli.

In un primo momento Gesù chiede ai discepoli:  «Le folle, chi dicono che io sia?» ottenendo, in pratica, la stessa risposta che veniva data al re Erode incerto su cosa pensare di Gesù (Luca 9,7). Nell’“opinione” corrente tra il popolo Gesù sarebbe Giovanni il Battista, o Elia, o «uno degli antichi profeti che è risorto» (v. 19).

Ora la domanda è direttamente rivolta ai discepoli che Gesù sta preparando a diventare i futuri capi della sua comunità: «Ma voi, chi dite che io sia?». La risposta è data da Pietro che dovrà assumere un ruolo speciale nel gruppo stesso dei discepoli e dei Dodici: «Il Cristo di Dio» (v. 20) ovvero riconosce in Gesù “l’unto di Dio” e, dunque, il Messia annunziato e promesso da Dio e la cui venuta era particolarmente tenuta desta in Israele al tempo di Gesù.

Luca omette l’ampia replica di Gesù riportata in Matteo 16,17-19 e subito passa a chiarire come dovrà essere riconosciuto Gesù nella sua identità messianica. Un Messia non certo trionfante ma “sofferente”. Di qui la prima predizione della sua passione (v. 22) nella quale Gesù si attribuisce il non immediatamente comprensibile titolo di “Figlio dell’uomo” di origine profetica (cfr. Ezechiele 2,1.3ss. e Daniele 7,13) che contraddistingue proprio il Messia sofferente ma anche il Giudice della fine dei tempi.

Con i due verbi che dicono “sofferenza” e “rifiuto” viene annunziato senza ambiguità di sorta cosa attende il Messia secondo i misteriosi disegni divini di salvezza indicati nel verbo “deve”! Sono anche individuati negli “anziani”, nei “capi dei sacerdoti” e negli “scribi” ovvero nei componenti il Sinedrio che aveva competenza in materia religiosa per tutti i Giudei, gli autori delle molte sofferenze e del doloroso “rifiuto” del Messia da parte del suo popolo.  Il culmine delle sofferenze è raggiunto con la “morte” del Cristo destinato però alla risurrezione “il terzo giorno”.

Il peculiare contesto liturgico nel quale è proclamato porta a evidenziare, nel brano evangelico, il riconoscimento ovvero la “testimonianza” resa da Pietro a Gesù e che deve portarci a fare altrettanto riconoscendo e testimoniando nella nostra vita con la parola e il comportamento che Gesù è “il Cristo” di Dio.

Tutte le divine promesse riguardanti Israele e, in esso, tutti i popoli della terra, si sono avverate nella venuta nel mondo di Gesù, il Figlio, come Messia potente. è lui in verità la “radice di Iesse” che il Profeta dice sarà come «un vessillo per i popoli» e che «le nazioni la cercheranno con ansia. La sua dimora sarà gloriosa» (Lettura: Isaia 11,10).

E' lui la “mano” con la quale Dio riscatterà il suo popolo. è lui, in persona, nell’ora della croce, il “vessillo”  che Dio alzerà «tra le nazioni e raccoglierà gli espulsi d’Israele; radunerà i dispersi di Giuda dai quattro angoli della terra» (v. 12).

Non diversa è la testimonianza che Paolo offre di Cristo «venuto nel mondo per salvare i peccatori» dei quali egli si ritiene “il primo”. In lui, prima «un bestemmiatore, un persecutore, un violento» (Epistola: 1Timoteo 1,13), Gesù ha dimostrato «tutta quanta la sua magnanimità» facendo di Paolo un «esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna» (v.  16).

La celebrazione eucaristica memoriale attuativo della morte e risurrezione del Signore è il luogo dove ci è dato di “riconoscere” Gesù, di professare la nostra fede in lui e di testimoniare che la salvezza e la riconciliazione sono stabilite proprio in colui che ha subito “molte sofferenze”.

Essa è pure il luogo dove impariamo cosa comporti in concreto la sequela del Signore come “discepoli”: accettare di seguirlo nella via della sofferenza, della morte e persino del “rifiuto”. In tal modo la comunità dei discepoli, la Chiesa, diviene quel “vessillo” attorno al quale tutti sono chiamati a radunarsi per ottenere vita e salvezza.

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11/09/11-II dom dopo il Martirio del Battista

1. La seconda domenica “dopo il martirio” di San Giovanni, il Precursore del Signore    

È incentrata sulla rivelazione di Gesù quale “Figlio Unigenito” e sulla conseguente “testimonianza” da dare di lui mediante l’accoglienza della fede. Il Lezionario, pertanto, riporta i seguenti brani biblici: Lettura: Isaia 60,16b-22; Salmo 88; Epistola: 1Corinzi 15,17-28; Vangelo: Giovanni 5,19-24.    
Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXIV domenica del Tempo «per annum» nel Messale ambrosiano. Alla Messa vigiliare del sabato viene proclamato Giovanni 20,1-8 quale Vangelo della risurrezione.    


2. Vangelo secondo Giovanni 5,19-24    

In quel tempo. 19Il Signore Gesù riprese a parlare e disse loro: «In verità, in verità  io vi dico: il Figlio da sé stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo. 20Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste perché voi ne siate meravigliati. 21Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole. 22Il Padre infatti non giudica nessuno , ma ha dato ogni giudizio al Figlio, 23perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato.    
24In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. 
       


3. Commento liturgico-pastorale    

Il brano fa seguito al  racconto della guarigione di un paralitico operata da Gesù presso la piscina Bethesda, “in giorno di sabato” (Giovanni 5,1-9) e la conseguente diatriba con i “giudei” a motivo proprio del sabato (5,10-18) legato, come si sa, al “riposo” secondo la prescrizione della Legge.

Sono qui riportati alcuni versetti del più ampio discorso di “rivelazione” sul Figlio (vv. 19-47) considerato come colui che “opera” poiché “il Padre mio opera sempre” (v. 17).

In un primo punto (vv. 19-20) a quanti gli contestano la guarigione del paralitico in giorno di sabato e soprattutto la pretesa di farsi uguale a Dio Gesù risponde (v. 19) con la solenne affermazione riguardante la sua condizione di Figlio, il quale in tutto ciò che dice e fa non lo dice e lo fa da sé stesso ma tenendo costantemente rivolto il suo sguardo al Padre e, dunque, al suo agire.

Viene inoltre detto che il motivo profondo di una tale sintonia tra l’agire del Padre e del Figlio risiede nel fatto indicibile dell’“amore” del Padre verso il Figlio: “Il Padre infatti ama il Figlio” (v. 20) e perciò a lui manifesta ogni cosa e tra queste la sua intenzione di operare non solo cose grandi come quella della guarigione del paralitico, bensì “opere ancora più grandi” come subito viene detto al v. 20.

In un secondo punto (vv. 20-23) vengono elencate le “opere ancora più grandi” che consistono essenzialmente nel potere di dare la vita ai morti (v. 21) e nel potere di ”giudicare” (v 22).

Queste stesse “opere più grandi” sono dunque partecipate anche al Figlio, il quale è in grado letteralmente di risuscitare i morti come in effetti avverrà nella risurrezione di Lazzaro, nella quale si fa evidente che in lui agisce il medesimo potere di Dio di dare la vita, di richiamare alla vita, come “segno” della possibilità per l’uomo di avere in sé la “vita”, quella “eterna” che è partecipazione alla comunione con la vita divina.

Una simile risurrezione e il dono della vita Gesù la dona anzitutto a livello fisico ma come annuncio di una risurrezione alla “vita eterna” una volta liberato l’uomo dai lacci funerei dell’incredulità e del peccato.

Se il dono della risurrezione e della vita è detenuto dal Padre e dal Figlio sembra di capire al v. 22 che l’“opera” del “giudizio” è stata invece messa totalmente nelle mani del Figlio. Si comprende così come “avere la vita” equivale ad accogliere con fede il Figlio, mentre chi non lo accoglie va incontro al “giudizio” di condanna e, dunque, di rovina perenne. è necessario perciò “onorare” il Figlio alla pari con il Padre (v. 23) anche perché è il Figlio il rivelatore del Padre e a lui va dunque prestata fede per poter risalire a Dio, il Padre.

Il brano si chiude al v. 24 sintetizzando la precedente rivelazione con la solenne esortazione di Gesù ad “ascoltare” la sua parola. Perciò possiede la vita eterna, non va incontro alla condanna e, di fatto, vive già ora la condizione definitiva contrassegnata dal passaggio “dalla morte alla vita” colui che ascoltando, ossia accogliendo la Parola del Signore Gesù, di fatto pone la sua fede in Dio, il Padre, che ha “inviato” il Figlio nel mondo proprio perché il mondo si salvi.

Proclamato in questa seconda domenica dopo il martirio del Precursore che ha indicato Gesù come il Messia, il Giudice, l’Agnello di Dio, il testo evangelico sottolinea il mistero di Cristo come Figlio Unigenito al quale il Padre ha confidato le opere sue più grandi: richiamare in vita i morti e operare il “giudizio”.

Alla luce di ciò leggiamo la pagina profetica di Isaia, nella quale Dio, rivolgendosi al suo popolo, proclama: «il Signore sarà per te luce eterna, il tuo Dio sarà il tuo splendore» (Lettura: Isaia 60,19b). In effetti con la venuta nel mondo del Figlio Unigenito è entrata nel mondo la “luce” che ha rivelato il mistero e il volto invisibile del Padre proprio nel Figlio che è lo “splendore” del Padre.

L'apostolo Paolo vede concretamente avverata nella risurrezione del Signore considerato quale “primizia di coloro che risorgono dai morti” (Epistola: 1Corinzi 15,17-28) quanto era stato profeticamente annunziato: «Il tuo popolo sarà tutto di giusti, per sempre avranno in eredità la terra, germogli delle piantagioni del Signore, lavoro delle sue mani per mostrare la sua gloria» (Isaia 60, 21).

La celebrazione eucaristica, dal canto suo, è il momento in cui ci è dato di guardare il “volto” di Dio nel suo Figlio che ripresenta, nel mistero, lo splendore della sua croce, annunzio certo della nostra partecipazione anche alla sua risurrezione. In essa si realizza la beatitudine proclamata nel ritornello al Salmo 88: «Beato il popolo che cammina alla luce del tuo volto» e che esige di condurre nella vita di ogni  giorno l’illuminazione ricevuta nel mistero.

In tutta verità, allora, potremo dire: «Il Pane di vita è spezzato, il Calice è benedetto. Il tuo corpo ci nutre, o Dio nostro, il tuo sangue ci dia vita e ci salvi» (allo Spezzare del Pane).

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4/09/11-I dom dopo il Martirio di S. Giovanni


1. La  prima domenica dopo il martirio del Battista
   

Questa domenica imprime, come sappiamo, una prima svolta nel Tempo “dopo Pentecoste”, ponendo in luce nella vita e nel martirio del Precursore del Signore, il dono e la responsabilità  di un’autentica testimonianza di fede che la Chiesa, colma della grazia della Pasqua ad opera dello Spirito Santo, è chiamata a dare a tutti tramite tutte le sue “membra”. Le lezioni scritturistiche offerte dal Lezionario ambrosiano sono: Lettura: Isaia 65,13-19; Salmo 32; Epistola: Efesini 5,6-14; Vangelo: Luca 9,7-11. Nella Messa vespertina del sabato viene letto Luca 24,9-12 come Vangelo della risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXIII domenica del Tempo «per annum» nel Messale ambrosiano.    


2. Vangelo secondo Luca 9,7-11
   

In quel tempo. 7Il tetrarca Erode sentì parlare di tutti questi avvenimenti e non sapeva che cosa pensare, perché alcuni dicevano: «Giovanni è risorto dai morti», 8altri: «è apparso Elia», e altri ancora: «è risorto uno degli antichi profeti». 9Ma Erode diceva: «Giovanni, l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?». E cercava di vederlo. 10Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto. Allora li prese con sé e si ritirò in disparte, verso una città chiamata Betsàida. 11Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono. Egli le accolse e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.    


3. Commento liturgico-pastorale    

Il brano evangelico si presenta diviso in due parti: vv. 7-9 e vv.10-11. I vv. 7-9 riferiscono gli interrogativi del “re” Erode Antipa a proposito del clamore suscitato tra le popolazioni della Galilea a lui soggetta dall’attività “missionaria” di Gesù narrata dall’Evangelista (cfr. Luca 8,26-56) e da quella dei Dodici da lui incaricati di «annunziare il regno di Dio e di guarire gli infermi» (Luca 9,2), cosa che essi compiono con successo andando «di villaggio in villaggio, ovunque annunciando la buona notizia e operando guarigioni» (v. 6) mostrando in tal modo la reale consistenza del Regno stesso.

Si comprende così la perplessità e l’interesse di Erode circa “tutti questi avvenimenti” (v. 7) legati all’attività dei Dodici e soprattutto  di Gesù. Egli cerca di farsi un’idea su tale attività raccogliendo le opinioni correnti tra il popolo su Gesù che, tra l’altro, pensa possa essere Giovanni il Battista risorto dai morti, ucciso proprio da Erode al quale rimproverava la condotta perversa contraria alla Legge di Dio. Altri vedono avverata in Gesù la profezia del ritorno di Elia alla fine dei tempi ovvero lo vedono come “uno degli antichi profeti” tornato in vita.

Proprio Erode, che confessa apertamente di averlo fatto decapitare in carcere (Cfr. Marco 6,17-29 e Matteo 14,3-12), esclude categoricamente che Gesù sia in realtà Giovanni redivivo. Di qui la domanda assillante: ”chi è dunque costui” (v. 9) che lo spinge a cercare di conoscerlo e di incontrarlo, cosa questa che si verificherà nell’ora tragica della passione del Signore, allorché il governatore romano Ponzio Pilato, avendo appreso la provenienza di Gesù dalla Galilea, lo mandò proprio a Erode che di quella terra era il “re” (Luca 23,6-10).

Al v. 10 il racconto si riallaccia alla citata attività missionaria degli apostoli che, una volta conclusa, li vede intenti a riferire a Gesù «tutto quello che avevano fatto» compiendo fedelmente il mandato da lui ricevuto. Viene inoltre sottolineata la premurosa attenzione di Gesù nei confronti dei missionari invitati a stare un po’ in disparte insieme a lui.

Il brano si conclude al v. 11 con l’accorrere delle folle intono a Gesù provocando in lui un vivo sentimento di “accoglienza” e una grande disponibilità a prendersi cura di esse mediante l’annunzio del “regno di Dio” e la guarigione di «quanti avevano bisogno di cure».

Se, com’è necessario, si tiene legati il brano odierno ai versetti che lo precedono immediatamente: 1-6, va sottolineato l’intento dell’evangelista di far risalire a Gesù stesso l’individuazione e l’incarico missionario ai Dodici nel quale si può intravedere il loro futuro compito di guida della comunità dei credenti e di predicatori del Vangelo del Regno quando per Gesù verrà l’ora di tornare al Padre con la sua morte e risurrezione.

Lo stesso evangelista, inoltre, mette in luce come essi agiscono con l’autorità data da Gesù, l’autorità che Gesù possiede e dimostra di avere nella predicazione del Regno autorevolmente avvalorata dalle “guarigioni”.

Proclamato nel tempo liturgico delle “domeniche e settimane dopo il martirio di san Giovanni il Precursore”,  prende particolare rilievo nel brano odierno il riferimento alla figura e all’opera del Battista che è l’ultimo dei grandi profeti dell’Antica Alleanza incaricato di annunziare e di dare testimonianza a colui che viene ad adempiere concretamente le promesse di Dio al suo popolo, ovvero a Gesù.

Promesse trasmesse per bocca degli antichi profeti come Isaia, che annunzia a nome di Dio: «Io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare» (Lettura: Isaia 65,17-18).

In effetti, con la sua venuta nel mondo il Signore Gesù ha inaugurato “i nuovi cieli e la nuova terra”, vale dire ha introdotto effettivamente il regno di Dio che lui stesso ha predicato e che i suoi apostoli hanno diffuso su tutta la terra. Il Precursore del Signore con la sua vita e la sua parola ha dato fedele testimonianza alla novità del Regno con l’offerta della sua stessa vita.

Sulla sua scia siamo tutti esortati ad annunziare e a testimoniare che in Gesù sono apparsi davvero “i nuovi cieli e la nuova terra” e che, in realtà lui, in persona, è il regno di Dio. La nostra testimonianza sarà autentica se, consapevoli d'essere diventati per la fede e per i sacramenti pasquali “luce nel Signore” (Epistola: Efesini 5,8), ci comporteremo effettivamente come “figli della luce” portando “il frutto della luce” che consiste  “in ogni bontà, giustizia e verità” (vv. 8-9).

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28 agosto 2011 – XI domenica dopo Pentecoste

1.  La domenica che precede il Martirio di S. Giovanni il Precursore   

La tradizione liturgica ambrosiana ha sempre avuto una grande considerazione per la figura e il ruolo del Battista nel compiersi della storia della salvezza in Cristo. Il suo “martirio”, la cui memoria è fissata il 29 agosto, costituisce così come una prima “svolta” nel Tempo “dopo Pentecoste” che, a partire da quella data viene denominato “domeniche e settimane dopo il martirio di San Giovanni il Precursore”. Questo spazio liturgico è come annunciato nell’odierna domenica, caratterizzata dalla Lettura che è sempre presa dai due libri dei Maccabei.

Per il presente anno liturgico il Lezionario ambrosiano prevede: Lettura: 1Maccabei 1,10.41-42; 2,29-38; Salmo 118; Epistola: Efesini 6,10-18; Vangelo: Marco 12,13-17. Nella Messa vespertina del sabato viene letto Marco 16,1-8a come Vangelo della risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXII domenica del Tempo «per annum» nel Messale ambrosiano.    


2. Vangelo secondo Marco 12,13-17    

In quel tempo. I sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani 13mandarono dal Signore Gesù alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso. 14Vennero e gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. è lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare o no?». 15Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: «Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo». 16Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: «Questa immagine e l'iscrizione di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». 17Gesù disse loro: «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio». E rimasero ammirati di lui.       


3. Commento liturgico-pastorale    

Il brano riporta la seconda delle cinque controversie che oppongono Gesù ai «capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani» (cfr. Mc 11,27), i quali, in questo caso, agiscono per interposta persona. Si tratta di «alcuni farisei ed erodiani» presumibilmente contrari i primi al pagamento del “tributo a Cesare”, mentre i secondi erano molto facilmente favorevoli.    L’intento dei mandanti è di natura malevola nei confronti di Gesù e cercano di metterlo in tutti i modi in difficoltà anche se, a parole, i loro emissari ne riconoscono la rettitudine e la franchezza (v. 14).

La “trappola” in cui sperano di far cadere Gesù riguarda il pagamento del “tributo a Cesare” che poneva un serio problema alla coscienza del popolo d’Israele fiero nel riconoscere come proprio sovrano e signore il solo Dio! (vedi il primo comandamento: Esodo 20,2-6; Deuteronomio 5,6-10). Pagare il “tributo” equivale infatti a dichiarare la sottomissione all’imperatore romano!

Di qui la difficoltà di rispondere a una tale domanda: dire di sì significa squalificarsi agli occhi del popolo che non sopportava la dominazione dei romani; dire di no significa pronunciare una parola di aperta ribellione al potere di Roma e, dunque, il rifiuto di sottomettersi all’imperatore.

L’evangelista tiene a porre in rilievo il potere divino di Gesù di leggere nel cuore degli uomini precisando che egli immediatamente colse l’intenzione maligna della domanda a lui rivolta. Spiazza così i suoi interlocutori facendosi dare “un denaro” ossia la moneta romana in argento che equivaleva a un giorno di paga per i braccianti e “intrappolandoli” a sua volta con una domanda: «Questa immagine e l’iscrizione di chi sono?» (v. 16) che poteva avere una sola risposta: “Di Cesare” ossia dell’imperatore romano del tempo.

La mirabile “sentenza” del Signore: «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare» fa capire che usando la moneta di Cesare i suoi avversari ne accettano, di fatto, il potere e la sovranità e, pertanto, sono tenuti a pagare il tributo.

Nella seconda parte della sua risposta: «e quello che è di Dio, (rendetelo) a Dio» (v. 17), Gesù eleva il dibattito al piano “teologico” per sottolineare come non c'è nessun potere umano che possa ritenersi superiore al potere divino. Anzi “ciò che è di Cesare” è subordinato a “ciò che è di Dio” al quale anche Cesare appartiene. La controversia perciò si conclude con la sottolineatura di Marco: «E rimasero ammirati di lui».

Proclamato nel peculiare contesto liturgico orientato al Martirio del Battista, il brano evangelico vuole sottolineare con forza l’unicità di Dio e della sua esclusiva signoria sul mondo e sulla storia.

Signoria alla quale veniamo esortati a tenere fede sull’esempio del Battista e, ancora prima di lui, dei “martiri per l’osservanza del sabato” di cui ci parla la Lettura. Si tratta di un migliaio di persone tra uomini, donne e bambini che, all’epoca della persecuzione scatenata dal re Antioco IV Epifane contro i Giudei che non accettavano l'ellenizzazione forzata, preferirono andare inermi incontro alla morte dichiarando: «Moriamo tutti nella nostra innocenza», pur di non venir meno alla fedeltà e all’obbedienza alle disposizioni divine (1Maccabei, 2,37).

L’Epistola paolina esorta anche noi credenti nel Signore a rafforzarci in lui «e nel vigore della sua potenza» (Efesini 6,10) per poter perseverare ed essere vittoriosi nella battaglia che dobbiamo ogni giorno affrontare contro i «dominatori di questo mondo tenebroso» (v. 12). L’Apostolo ci dice anche quale “armatura” indossare per affrontare la battaglia e soprattutto ci esorta a prendere «la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (v. 17).

La celebrazione eucaristica ponendoci a contatto con la Parola e con il Corpo del Signore ci riveste dell’invincibile potenza racchiusa nella sua Pasqua e, perciò, siamo in grado di “resistere”, sull’esempio dei martiri, «nel giorno cattivo» e di «restare saldi dopo aver superato tutte le prove» (v. 13) nell’obbedienza della fede al nostro Dio e Signore.  

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21 agosto 2011 – X domenica dopo Pentecoste


1. La decima domenica “dopo Pentecoste”

Pone in primo piano l’edificio materiale del Tempio di Gerusalemme come annunzio e figura profetica del vero Tempio di Dio che sono tutti i credenti i quali, sull’esempio di Gesù, offrono sé stessi al Padre. Per la presente domenica pertanto il Lezionario ambrosiano prevede come Lettura: 1Re 8,15-30; Salmo 47; Epistola: 1Corinzi 3,10-17; Vangelo: Marco 12,41-44. Il Vangelo della risurrezione da proclamare alla Messa vespertina del sabato è preso da Giovanni 20,19-23, mentre le orazioni e i canti sono quelli della XXI domenica del Tempo «per annum» nel Messale ambrosiano.


2. Vangelo secondo Marco 12,41-44

In quel tempo. 41Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. 42Ma, venuta una povera vedova, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. 43Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».


3. Commento liturgico-pastorale

Il brano evangelico oggi proclamato è immediatamente preceduto dalle severe parole con le quali il Signore smaschera l’ipocrisia degli “scribi”, ovvero di alcuni maestri e dottori della Legge (Marco 12,38-40), i quali amano ostentare una devota religiosità, mentre la loro condotta è ben lontana dalla Legge di Dio. La protagonista della presente pagina evangelica è presentata con un atteggiamento del tutto contrario a quello degli scribi.

Il v. 41 colloca la scena nel Tempio di Gerusalemme e in particolare nei pressi del Tesoro dove erano collocate alcune cassette adatte a ricevere le offerte che i fedeli vi gettavano per contribuire alle spese di manutenzione del Tempio e per il culto divino che in esso veniva offerto. Tra la folla degli offerenti si distinguono agli occhi di Gesù, attento osservatore, “tanti ricchi” che vi gettavano “molte” monete forse con un atteggiamento di compiaciuta ostentazione simile a quella prima descritta negli scribi (vv. 38-40).

Il v. 42 presenta a questo punto “una povera vedova” che getta nel “tesoro” “due monetine”, che ben traduce il termine greco usato dall’evangelista per indicare la più piccola moneta allora in circolazione nella terra di Gesù. Occorre pure notare come la vedovanza, per la maggior parte delle donne, comportava una triste condizione di vita alla quale non c’era rimedio se non affidandosi ai figli o alla pubblica carità. Si comprende perciò come esse andavano sovente incontro a soprusi e sfruttamento, già denunciati dai profeti e anche da Gesù che accusa gli scribi di «divorare le case delle vedove» (v. 40).

È evidente che nel sottolineare il gesto della povera vedova si vuole esaltare la sua generosità totale verso Dio che l’Antico Testamento aveva più volte presentato come «difensore delle vedove e degli orfani».

Di qui la reazione di Gesù che chiama «a sé i suoi discepoli» (v. 43) ai quali intende impartire un insegnamento di grande importanza, come si deduce dalla solenne formula di introduzione: «In verità io vi dico», con la quale egli mostra, ancora una volta, di saper leggere nei cuori di tutti, come nel cuore della vedova che dona una somma di per sé insignificante ma lo fa come segno esterno della sua volontà di donare a Dio «tutto quanto aveva per vivere» (v. 44) ossia tutta sé stessa.

Le parole del Signore sulla “povera vedova” che dona tutto al Tempio e, dunque, a Dio fanno comprendere il significato più profondo di ciò che era prefigurato nell’edificio materiale del Tempio, costruito con grande sfarzo da Salomone figlio di Davide (cfr. Lettura: 1Re 8,15-30).

Il Tempio rappresenta la realizzazione del desiderio del grande re Davide di «costruire una casa al nome del Signore» (v. 17) perché il suo “nome” dimorasse in mezzo al suo popolo Israele garantendo in tal modo la costante presenza di Dio, al quale Salomone chiede di ascoltare «la supplica del tuo servo e del tuo popolo Israele, quando pregheranno in questo luogo» (v. 30).

Il Signore Gesù, con il suo insegnamento, ha mostrato che il Tempio, materialmente inteso come abitazione di Dio in terra, annunziava la costruzione della “santa dimora” che Dio si edifica nel cuore dei credenti veri suoi adoratori. Egli, infatti, non cerca elargizioni e offerte materiali, ma gradisce l’offerta e il sacrificio del cuore come nel caso della vedova che, nelle due monetine, si consegna totalmente e definitivamente a lui.

Avvertiti dall’Apostolo: «Non sapete che siete tempio di Dio» (Epistola: 1Corinzi 3,16), imprimiamo nel nostro spirito ciò che il Signore ha detto scrutando il cuore della povera vedova e riconoscendo nel suo gesto di offerta un anticipo di quanto lui stesso avrebbe compiuto sull’altare della croce: l’offerta di tutto sé stesso al Padre, sacrificio a Dio gradito e fonte di riconciliazione e di santificazione per tutti.

Con le stesse disposizioni così preghiamo nell’Orazione sui doni: «Accetta, o Padre, le offerte che deponiamo sull’altare per esprimere il nostro proposito di servirti e di amarti, e ridonale ai tuoi figli devoti, rese segno e principio di vita redenta».

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15 agosto 2011 - Solennità dell'Assunta


Assunzione della Beata Vergine Maria

1. La solennità dell’Assunta

È destinata a celebrare, ogni anno, il mistero dell’assunzione al cielo della Vergine Santa, da sempre e dovunque creduto nella Chiesa e così essenzialmente presentato dal papa Pio XII che nel 1950 ha ritenuto di proclamarlo come verità dogmatica: «La Madre di Dio, unita a Gesù Cristo fin da tutta l'eternità... alla fine ottenne di coronare le sue grandezze, superando la corruzione del sepolcro. Vinse la morte, come già il suo Figlio, e fu innalzata in anima e corpo alla gloria del cielo, dove risplende Regina alla destra del Figlio suo, re immortale dei secoli». La nostra tradizione liturgica possiede per la solennità odierna due formulari di Messe: “della vigilia” e “nel giorno”.


2. La Messa “ nel giorno”

Ci limitiamo qui ad indicare i brani biblici e alcuni testi orazionali della Messa “nel giorno”. Quella della “vigilia” non viene celebrata perché coincide con quella della IX domenica dopo Pentecoste (14 agosto). Il Lezionario ambrosiano dei Santi.

  • Lettura: Apocalisse 11,19;12,6a.10ab. Presenta nella “donna vestita di sole” insidiata, nell’ora del parto, dall’enorme “drago rosso” l’immagine della Chiesa che lungo i secoli soffre nel vedersi minacciata e perseguitata senza però essere mai vinta. La tradizione della Chiesa vi ha visto anche l’immagine della Vergine Santa.
  • Epistola: 1Corinzi 15,20-26 Trasmette l’insegnamento apostolico riguardante il mistero pasquale del Signore Gesù che, quale nuovo Adamo, fa partecipi tutti gli uomini della “risurrezione dai morti”.
  • Vangelo: Luca 1,39-55 Riporta il racconto della visita di Maria alla cugina Elisabetta rimasta incinta “nella sua vecchiaia” (vv. 39-45) e dell’inno uscito dal cuore della Vergine Santa, il Magnificat (vv. 46-55) pieno di esultanza e ammirazione davanti alle “grandi cose” che Dio ha compiuto in lei, in Elisabetta e, continua a compiere, negli umili che si dichiarano suoi “servi”.

3. Il Messale ambrosiano

Tra le orazioni e i canti propri della Messa dell’Assunta proponiamo il Prefazio e l’orazione Dopo la Comunione:

  • Prefazio: oggi la Vergine madre di Cristo è assunta nella gloria dei cieli. In lei, primizia e immagine della Chiesa, riveli il compimento del mistero di salvezza e fai risplendere per il tuo popolo, pellegrino sulla terra, un segno di consolazione e di sicura speranza. Tu non hai voluto che conoscesse la corruzione del sepolcro colei che ha generato il Signore della vita.
  • Dopo la Comunione: proteggi, o Dio onnipotente, il popolo che hai saziato col Pane del cielo e, per l’intercessione di Maria, concedi al nostro cuore e alla nostra vita il dono della castità e della pace per andare incontro con le lampade accese a Cristo, lo Sposo che sta per venire, e vive e regna nei secoli dei secoli.

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14 agosto 2011 – IX domenica dopo Pentecoste


1. La nona domenica “dopo Pentecoste”

Pone in risalto la rivelazione del potere di rimettere i peccati proprio di Dio e del suo unico Figlio. Il Lezionario prevede Lettura: 2Samuele 12,1-3; Salmo 31; Epistola: 2Corinzi 4,5b-14; Vangelo: Marco 2,1-12. Il Vangelo della risurrezione è: Luca 24,13b. 36-48 mentre le orazioni e i canti sono quelli della XX domenica «per annum».


2. Vangelo secondo Marco 2,1-12

In quel tempo. 1Il Signore Gesù entrò in Cafarnao. Si seppe che era in casa 2e si radunarono tante persone che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la Parola. 3Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone. 4Non potendo però portaglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico. 5Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figlio, ti sono perdonati i peccati». 6Erano seduti là alcuni scribi e pensavano in cuor loro: 7«Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?». 8E subito Gesù, conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate queste cose nel vostro cuore? 9Che cosa è più facile: dire al paralitico “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Alzati, prendi la tua barella e cammina”? 10Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, 11dico a te – disse al paralitico -: alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua». 12Quello si alzò e subito presa la sua barella, sotto gli occhi di tutti se ne andò, e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».


3. Commento liturgico-pastorale

Per comodità di lettura possiamo così suddividere il brano evangelico: i vv. 1-2 sono introduttivi all’intero racconto che occupa la parte che va dal v. 3 al v. 12 nella quale si inserisce il dialogo polemico con gli “scribi” (vv. 6-9) che culmina con la parola di rivelazione sul potere di Gesù di “perdonare i peccati” (vv. 10-11). In particolare i versetti introduttivi mentre ambientano la successiva scena drammatica evidenziano l’accorrere della gente attorno a Gesù il quale «annunciava loro la Parola» (v. 2).

Capiremo nel corso del racconto incentrato sulla “guarigione” di un “paralitico” come tale annunzio sia finalizzato a suscitare la fede negli ascoltatori. Fede che è espressa non a parole ma con il gesto concreto dei portatori del paralitico i quali, pur di mettere davanti a Gesù il malato, non esitano a scoperchiare «il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico» (v. 4).

Di fatto Gesù riconosce in quei gesti, alquanto decisi e sbrigativi, “la loro fede” (v. 5) che in questo caso esprime la totale fiducia dei portatori e del paralitico in Gesù. A lui, di fatto, si consegnano confidando nel suo potere!

Le parole del Signore, a questo punto, sono davvero sorprendenti: non sono infatti parole di “guarigione” come era lecito aspettarsi, ma di “perdono dei peccati”. Parole tanto sorprendenti al punto da suscitare la reazione degli “scribi” (vv. 6-7) ovvero degli esperti conoscitori delle Scritture i quali sanno bene che solo Dio ha il potere esclusivo di perdonare i peccati e nessun altro (cfr. Deuteronomio 6,4).

Va qui rimarcata la sottolineatura dell’evangelista. Egli dice che la reazione ostile degli scribi, i quali “giustamente” accusano Gesù di “bestemmia” perché si è attribuito un potere che spetta unicamente a Dio, non viene da essi dichiarata ma pronunciata nel segreto dei loro cuori (v. 6).

Il fatto che Gesù conosca “nel suo spirito” ciò che gli scribi pensavano nella loro mente (v. 8) rivela che egli è dotato di un altro esclusivo potere divino: quello di «conoscere il cuore degli uomini» come in più parti affermano le Scritture.

Arriviamo, così, al culmine del racconto che ha al centro la parola di rivelazione di Gesù sul suo potere di «perdonare i peccati sulla terra» (v. 10), un “potere” al quale gli uomini sono invitati ad aderire con fede e che rende visibile il “potere” stesso di Dio che ha mandato nel mondo il suo Figlio a ridonare all’uomo la gioia del perdono (cfr. ritornello al Salmo 31) che porta alla guarigione integrale, così come avviene nel paralitico. È lui infatti, ora, sulla parola di Gesù (v. 11), ad alzarsi, a prendere la barella e ad andarsene sotto gli occhi stupiti e ammirati dei presenti (v. 12).

Il cammino di fede che ogni anno ci ripropone il tempo liturgico “dopo Pentecoste” giunge in questa domenica a una delle svolte più decisive nella storia della salvezza; quella cioè che il “potere” esclusivo di rimettere i peccati che avviluppano l’uomo nella malattia mortale dello spirito, un potere proprio di Dio, brilla in Gesù Cristo, l'Unigenito suo Figlio che nella sua Pasqua di morte e di risurrezione ha realizzato il perdono dei peccati degli uomini, facendo davvero rifulgere “dalle loro tenebre” la “luce” della vita rinnovata, della risurrezione (cfr. Epistola: 2Corinzi 4,6).

L’iniziale rivelazione vetero-testamentaria annunzia ed esalta ripetutamente il potere divino di rimettere i peccati. È ciò che leggiamo nella Lettura a proposito dell’abisso di colpa nella quale era sprofondato nientemeno che il grande re Davide oggetto delle benedizioni più elette e delle promesse di Dio.

In questo caso, però, Dio per concedere il suo perdono si serve di un intermediario, come il profeta Natan. Questi dopo aver portato alla luce il peccato di Davide e ottenuta da lui la parola di pentimento: «Ho peccato contro il Signore» (2Samuele 12,13a) è in grado non di dare ma di significare a Davide il perdono concesso da Dio che legge il pentimento nel suo cuore: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai» (v. 13b).

Al contrario, il Signore Gesù, il Figlio unico del Padre, è lui in persona ad “assolvere” e a guarire dal male: «Figlio, ti sono perdonati i peccati» (Marco 2,5). Questo potere ora il Signore Gesù continua a esercitarlo nella sua Chiesa specialmente nell’attuazione della sua morte sulla croce che è l’Eucaristia, nell’immersione battesimale nella sua morte e risurrezione, nel sacramento della Riconciliazione o Penitenza.

A questo perdono con fede ferma dobbiamo ricorrere di continuo sapendo che tutti noi portiamo “i tesori” della grazia di Dio nei “vasi di creta” quali sono le nostre persone (2Corinzi 4,7).

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7 agosto 2011 – VIII domenica dopo Pentecoste


1. L’ottava domenica “dopo Pentecoste”
   

Nella “chiamata” di Samuele viene annunciato ciò che avrebbe compiuto il Signore Gesù con il chiamare a sé gli apostoli come collaboratori nella missione di estendere il Regno. Vengono pertanto oggi proclamate le seguenti lezioni bibliche: Lettura: 1Samuele 3,1-20; Salmo 62; Epistola: Efesini 3,1-12; Vangelo: Matteo 4,18-22. Come Vangelo della risurrezione viene letto nella Messa vespertina del sabato che è quella della festa della Trasfigurazione del Signore (6 agosto): Luca 24,13-35. Le orazioni e i canti sono quelli della XIX domenica del Tempo «per annum» nel Messale ambrosiano.    


2. Vangelo secondo Matteo 4,18-22    

In quel tempo. 18Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 19E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». 20Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. 21Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. 22Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.     


3. Commento liturgico-pastorale    

Il brano evangelico è inserito nel più ampio contesto del racconto degli “inizi” del ministero di Gesù in Galilea (vv. 12-22) subito dopo aver ricevuto la notizia che Giovanni il Battista era stato imprigionato da Erode (v. 12). Gli “inizi”, in particolare, sono contrassegnati dal messaggio essenziale di Gesù: «Convertitevi. è prossimo ormai il regno dei cieli» (v. 17).

La scena si svolge «lungo il mare di Galilea», a Cafarnao dove Gesù viene ad abitare dopo essersi trasferito da Nazaret (v. 13). Il brano, da tenere legato a quanto precede (vv. 12-17), vuole mostrare come il regno dei cieli comincia, in effetti, a diffondersi tra gli uomini.

Il testo presenta una prima (vv. 18-20) e una seconda coppia di “chiamati”, composte entrambi da “fratelli” (vv. 21-22). I primi due: «Simone detto Pietro e Andrea» sono “visti” da Gesù nell’atto di compiere il gesto proprio alla loro professione di pescatori: «gettavano le reti in mare».

Proprio a essi rivolge un invito che è come un comando: «Venite dietro a me», un’espressione che indica la relazione alla quale li chiama Gesù: letteralmente a stare “dietro” a lui e, dunque, a diventare suoi discepoli. Il motivo di tale chiamata, capace di cambiare la loro vita, è quello di farli diventare “pescatori di uomini” ossia di renderli idonei a conquistare gli uomini al regno dei cieli. La reazione dei due è contrassegnata dalla loro prontezza a lasciare “le reti” e a seguirlo, accettando  in tal modo il mutamento della loro vita segnata oramai dalla sequela di Gesù.

Anche la seconda coppia di fratelli, Giacomo e Giovanni, sono chiamati mentre «riparavano le loro reti» e dunque nell’ordinarietà della loro vita di pescatori. Anch’essi, come Pietro e Andrea, “subito” si lasciano alle spalle la loro vita da pescatori e addirittura “il loro padre” e “lo seguirono” collocandosi cioè con decisione nella via del discepolato, sulle orme del Signore Gesù e, dunque, suoi collaboratori nella predicazione del Regno.

Osserviamo nel contesto del tempo liturgico che è in corso come nello sviluppo graduale della storia della salvezza che ha il suo culmine nella Pasqua del Signore, Dio ha “chiamato” dal suo popolo alcuni uomini da lui scelti per “annunciare” la sua Parola e la cui accoglienza è decisiva per la salvezza.

E' il caso davvero singolare della triplice “chiamata” del piccolo Samuele nel cuore della notte (Lettura: 1Samuele 3,4-8) e la prontezza di lui nel rispondere: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta», e soprattutto nel riportare fedelmente ciò che aveva udito dal Signore (v. 18).

Può sorprendere qui, come nel brano evangelico, che la chiamata Dio la rivolge ad un ragazzino come Samuele, a dei “pescatori” come i primi chiamati da Gesù presso il mare di Galilea, o, come nel caso di Paolo, a un “nemico” un “persecutore”, un “bestemmiatore” ovvero, come lui stesso afferma: «A me, che sono l’ultimo fra tutti i santi» (Epistola: Efesini 3,8).

Comprendiamo così come è la “chiamata” di Dio del tutto libera e misteriosa a rendere idonei i “chiamati” alla loro “missione”: Samuele come “giudice” tra il popolo; i primi quattro apostoli come conquistatori di uomini al regno di Dio; Paolo al quale: «è stata concessa questa grazia: annunciare alle genti le impenetrabili ricchezze di Cristo e illuminare tutti sull’attuazione del mistero nascosto da secoli in Dio...» (vv. 3,8-9) vale a dire che ogni uomo, senza eccezione, è chiamato: «in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo» (v. 6).

La “chiamata” del Signore è incessante anche ai nostri giorni. Egli non smette di chiamare a collaborare con lui alla vera unica indispensabile missione: introdurre l’umanità nel Regno che lui è venuto ad annunciare e a impiantare realmente in questo nostro mondo, ovvero a far «trascorrere l’uomo da una condizione di morte ad una prodigiosa salvezza» (Prefazio).

E' la chiamata che egli rivolge anche a noi che, partecipando all’Eucaristia, ascoltiamo l’annuncio potente del Signore Gesù Cristo, che ci parla nelle Divine Scritture e che partecipando del Pane e del Vino dell’altare «formiamo un solo corpo», quello del Signore che attende di accogliere in sé ogni uomo e ogni donna.

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