04 giu
Ho letto il commento della signora Salvador al post del 19 aprile. Comprendo bene lo stato di ansia che da Tommaso si diffonde sul resto della famiglia e genera in tutti un senso di dolorosa impotenza. Qualsiasi gesto di rassicurazione e di vicinanza non sembra avere effetto. I malesseri fisici del ragazzo sono reali, ma sfuggono alle cure abituali e fanno intravvedere una situazione in cui il ragazzo è fortemente "messo alla prova".
E’ difficile fornire una risposta esauriente, che potrebbe essere data dalla consultazione con uno specialista, a mio parere necessaria se gli stati ansiosi non si concludono con la fine della scuola o si ripropongono alla ripresa di settembre. Posso però provare a fornire alcuni spunti di riflessione.
Un primo elemento da capire è questo: i sintomi ansiosi di cui si parla sembrano emersi all’improvviso, da poche settimane, ma forse sono stati preceduti da qualche preavviso. Si tratta di un fulmine a ciel sereno, oppure già in precedenza ci sono stati dei segnali di malessere che il ragazzo ha manifestato attraverso il corpo? Ci sono già state nel passato somatizzazioni, o comportamenti ansiosi? In quali situazioni, e come sono stati superati?
Una seconda pista di riflessione riguarda questa fase dell’anno. La fine della scuola può attivare una serie di sintomi di questo tipo, legati all’impegno finale delle verifiche e alle preoccupazioni per il bilancio conclusivo della pagella, anche quando i risultati scolastici sono complessivamente positivi. Più in profondità, ci si può interrogare sulla pressione che un ragazzo percepisce a riguardo dei risultati scolastici. Tale pressione viene esercitata sia in modo diretto che indiretto. Direttamente attraverso le richieste degli insegnanti, mediate anche dal tipo di relazioni presenti in classe (ad es. se il clima del gruppo è fondato soprattutto sul supporto reciproco o sulla competizione…). Indirettamente attraverso le aspettative che il ragazzo ha su di sé e che talvolta risentono degli atteggiamenti dei genitori nei confronti dello studio e delle prestazioni scolastiche.
Un terzo elemento riguarda la versatilità dell’adolescente nell’esprimere i propri malesseri. Ad esempio, capita spesso che un ragazzo, attraverso le somatizzazioni e le fobie, manifesti ‘pensieri’ difficili da affrontare e da elaborare, che quindi non trovano la via della parola. Un adolescente che parla poco, che fatica a tradurre i suoi dubbi, le sue preoccupazioni, gli stati emotivi, va aiutato a recuperare le parole per dirli. Con pazienza, talvolta interpretando noi adulti con le parole giuste i suoi stati d’animo al suo posto, altre volte aspettando con tenacia che il ragazzo spezzi i suoi silenzi e dica qualcosa.
Altre dinamiche più profonde e specifiche della fase adolescenziale vanno individuate ed affrontate con una consultazione dei genitori e del ragazzo con uno psicologo esperto di adolescenti o in un servizio specialistico territoriale.
Pubblicato il 04 giugno 2013 - Commenti (0)
24 mag
A metà del colloquio, la madre di Valerio sbotta: «Lei non ci crederà, ma già soltanto vederlo per casa mi irrita. Quando torna da scuola, o dalle uscite pomeridiane, e me lo vedo in giro per la cucina o sul divano del salotto, mi dà fastidio. Anche se non sta facendo nulla di male. Quando poi si parla, riusciamo sempre a litigare. Ha un atteggiamento strafottente. Porta giustificazioni ridicole. Ci stiamo chiedendo, io e mio marito, se non sarebbe meglio che andasse a vivere per qualche tempo da un’altra parte…»
Mi capita, con una certa frequenza, di incontrare genitori, soprattutto madri, esasperati per i comportamenti dei figli adolescenti, al punto da non tollerarne più neppure la presenza fisica. Sono ragazzi che si atteggiano in casa in modo antipatico, aspro, perennemente all’opposizione, oppure indolente, poco partecipe, chiuso nel proprio mondo e sordi alle richieste dei genitori.
Ci mettono sicuramente del loro per rendersi così poco amabili, questi ragazzi. E sono anche molto bravi nello scaricare sui genitori la loro confusione, il loro disorientamento, talvolta il senso di impotenza, la rinuncia a combattere. Forse proprio questo appare così irritante ai genitori. Soprattutto alle mamme. Perché i papà sono più spesso fuori casa per il lavoro. Perché talvolta sono altrove (col corpo o con la testa) anche nel tempo libero. Ma soprattutto perché il pensiero dei padri è in genere meno focalizzato sui figli. Solitamente la madre sente con più determinazione e maggiore costanza, l’impegno di accompagnare il figlio, di ricondurlo ad una ‘norma’. Forse c’è anche la difficoltà di staccare il proprio pensiero dal figlio: una separazione, quella mentale, decisamente più difficile di quella fisica.
Del resto, il compito del ‘grande separatore’ spetta al padre, che si inserisce fin dall’inizio nella relazione simbiotica successiva ai nove mesi di gravidanza e all’accudimento della fase neonatale. Per questo motivo, il padre appare spesso meno esposto alla mancanza di sopportazione che le madri vivono e che manifestano con forza. Quando il padre manca (in molti modi) il problema si fa serio… quando però c’è, la madre deve accettare di lasciargli spazio, ritirandosi fiduciosa e tollerando che gli interventi di contenimento e indirizzo siano gestiti prevalentemente dal padre.
In realtà, la realizzazione di questi interventi richiede un gioco di squadra ben rodato. E spesso finisce per confluire nelle dinamiche coniugali, cioè nel rapporto tra marito e moglie, che è altra cosa rispetto al rapporto tra padre e madre. Mi viene il dubbio che a volte le madri intolleranti verso i figli stiano segnalando la loro solitudine nel compito educativo. Una solitudine il più delle volte effettiva.
Il doppio ruolo di ciascuno dei due (moglie e madre, marito e padre) richiede una attenta gestione: per questo, per essere genitori sufficientemente adeguati, occorre tenere presente in primo luogo la manutenzione del rapporto coniugale. Trovando degli spazi dove i due si ritrovino, magari con il tacito consenso di non parlare dei figli per una sera.
Qualcuno desidera raccontare In quale modo cerca di trovate un equilibrio tra essere coniugi ed essere genitori?
Pubblicato il 24 maggio 2013 - Commenti (1)
19 apr
Martino, 18 anni appena compiuti, da qualche settimana ha paura a dormire da solo. Gli è capitato, pochi mesi fa, di risvegliarsi all’improvviso, nel cuore della notte, con un’oppressione al petto, il cuore che batteva all’impazzata e difficoltà di respirazione. Tutti gli esami clinici svolti non hanno evidenziato problemi organici. Eppure, ancora oggi, spesso la notte si sveglia e non riesce a riaddormentarsi. Per questo vuole che qualcuno dorma in camera con lui, e talvolta dorme nel lettone con uno dei genitori.
Luca, 21 anni, pur avendo un lavoro in centro città, non riesce a prendere la metropolitana, che gli risulterebbe comodissima. Inoltre, pur amando lo sci e lo snowboard, con cui ha sempre compiuto prodezze senza alcuna paura, ora teme di non poter salire su una funivia, attanagliato dal panico, come gli è accaduto nello scorso inverno.
Giovanni, che fin da piccolo era abituato ai soggiorni di studio all’estero o ai viaggi con la scuola, oggi, al solo pensiero di prendere un aereo, teme che gli vengano malesseri addominali e vomito (come gli è capitato in un viaggio recente) e non vuole più allontanarsi di casa. Ora è molto preoccupato, perché i suoi amici gli hanno proposto una vacanza su un’isola greca dopo l’esame di diploma di quinta, e non sa che cosa fare.
Che cosa succede in questi ragazzi, che in modo inaspettato manifestano episodi ansiosi e talvolta veri e propri attacchi di panico? Sovente si verificano in occasione di viaggi, o di situazioni di novità, e hanno carattere di regressione. Come se, allontanandosi dalle certezze della routine quotidiana e dal supporto della famiglia, riemergessero antiche paure, insicurezze profonde tacitate negli anni precedenti, bisogni infantili di rassicurazione.
In realtà, mi sembra che situazioni di questo tipo esprimano sì la manifestazione di qualche lacuna nella struttura della personalità, di elementi di fragilità dell’io. Ma che l’elemento rilevante siano le nuove sfide con cui il ragazzo, giunto nella fase conclusiva dell’adolescenza, deve confrontarsi. Il passaggio alla condizione di “giovane adulto”, soprattutto nei maschi, è caratterizzato da eventi di profondo valore simbolico : il compimento dei 18 anni, l’ottenimento della patente di guida, e più avanti l’esame di maturità, il passaggio alla condizione di studente universitario o di giovane lavoratore (con tutta la fase di ricerca attiva che quest’ultima opzione richiede).
Capire il significato di queste manifestazioni, segnali di movimenti che avvengono a livello più profondo nella mente del giovane, richiede certamente un ripensamento della storia passata, anche remota, del ragazzo, in modo da risalire, grazie a un’attenta ricostruzione, alle radici profonde di questi fenomeni ansiosi. Ma anche uno sguardo in prospettiva a che cosa il ragazzo pensa di sé e del proprio futuro, alle sue risorse personali più autentiche, e a come sente di poterle utilizzare nella partita che sta iniziando.
Dietro ai comportamenti di ogni adolescente, c’è sempre la domanda implicita che riguarda la definizione della propria identità (Chi sono io?). Ma non dobbiamo dimenticare anche l’altro quesito, altrettanto importante, che attiene alla crescita, al distacco dalle sicurezze infantili e alla possibilità di trovare il proprio posto nel mondo : Ce la farò?
Ci torneremo nei prossimi post, magari con l’apporto dei vostri commenti.
Pubblicato il 19 aprile 2013 - Commenti (3)
29 mar
In III liceo non la vedono più. Se n’è andata alla chetichella, senza nemmeno salutare. Ha deciso che tanto non ce l’avrebbe fatta, quest’anno. Per ora, Martina non ha più i ritmi consueti: si alza quando vuole, al pomeriggio esce con la nuova compagnia, talvolta la sera va in discoteca, e torna alle 4 o alle 5 del mattino. Forse ha un nuovo ragazzo, alla ricerca sempre di qualcosa in più nelle relazioni amorose. Calde, protettive, ma anche con la giusta distanza, senza che le stiano troppo addosso.
Anche Gianluca ha deciso, lui però formalmente e con l’appoggio dei genitori. Ha lasciato il I anno di geometra: lo avevano sospeso per le sue ripetute intemperanze in classe. Nessun fatto grave, per carità, ma un disturbo continuo, la noia per le lezioni combattuta a suon di battute e chiacchiere con i compagni, che sabato ha salutato definitivamente. Con questo addio alla classe, ha anticipato una bocciatura a suo dire certa.. Adesso Gianluca dà una mano nel bar della zia un paio di giorni alla settimana, e intanto sta ripensando ad una scelta di formazione più confacente al suo temperamento e alle sue capacità.
E’ questo il periodo delle defezioni, dagli abbandoni scolastici. Alla scarsa motivazione, all’assenza di relazioni educative autentiche si aggiunge la convinzione che ormai è impossibile salvare l’anno. Troppe insufficienze. Spesso ho l’impressione che i professori delle superiori stiano a guardare, impotenti o talvolta disinteressati. E’ difficile che un insegnante chiami un allievo, gli parli al di fuori della classe. Che cerchi di capire che cosa stIa succedendo. La cultura pedagogica e psicologica dei nostri insegnanti è spesso affidata alla buona volontà e alla sensibilità peculiare dei singoli, e non ad un progetto educativo del consiglio di classe.
E i genitori? I più avveduti stanno monitorando da tempo le difficoltà scolastiche dei figli, e cercano di dare loro un significato all’interno del cammino di crescita dei ragazzi. Si chiedono se i ragazzi stanno andando a scuola per sé stessi o per soddisfare i desideri dei genitori. Si chiedono se i ragazzi stanno crescendo nella fatica mentale oppure se sono tesi nello sforzo di evitarla, a scuola e nella vita. SI fanno aiutare da una rete di relazioni. Parenti, amici, allenatori, preti, educatori, specialisti. Nella crescita degli adolescenti, passaggi come questi non si riesce ad affrontarli da soli. Occorrono aiuti da più parti. Mettersi al tavolo con l’adolescente perché egli possa riprendere a camminare in una nuova direzione. Perché possa imparare dai propri errori a non fuggire più, e ad accettare anche le sconfitte.
Nei giorni scorsi, un tweet del card.Ravasi (@CardRavasi) citava una canzone dei Coldplay:
Just because I’m losing doesn’t mean I’m lost
(Solo perché sto perdendo, non significa che io sia perso)
Pubblicato il 29 marzo 2013 - Commenti (0)
31 gen
Sono di ritorno da una serata sui videogiochi in una scuola media. Una serata con una importante novità: genitori e figli, insieme davanti alle postazioni dei PC di un’aula di informatica. Siamo partiti dai primi esperimenti degli studenti universitari americani degli anni ’50, per arrivare alle attuali simulazioni in 3D.
I padri (e qualche madre) hanno raccontato i giochi elettronici di quando erano ragazzi, da Tetris a Space Invaders. I ragazzi hanno descritto i loro videogames più emozionanti, più avvincenti, più difficili: quelli d’azione (primo fra tutti Call of Duty, nelle sue varie versioni), quelli di simulazione (i giochi di calcio, come Fifa, la guida di auto o di aerei… i giochi con la WII). Tra le ragazze, meno inclini a videogiocare, Just Dance 4 appare il preferito. I genitori hanno espresso le loro difficoltà nel negoziare talvolta coi figli orari e modalità di gioco. Abbiamo esplorato insieme il sito del PEGI, il sistema europeo di classificazione che con le sue icone indica su ogni confezione i contenuti pericolosi, l’età consigliata, il numero di giocatori, la possibilità di gioco online.
Ma soprattutto, davanti alla stessa postazione, ragazzi e ragazze coi rispettivi padri e madri, hanno provato a giocare insieme su un PC, alternandosi alla tastiera, sfidandosi. Qualche madre dapprima più timida e insicura, si è poi lasciata coinvolgere.
L’incontro fa parte di una più ampia iniziativa di educazione alla tecnologia (il cui resoconto potete trovare su http://educazioneallatecnologia.blogspot.com) che prevede serate per genitori e figli di fronte al computer sui temi dei videogiochi, delle molte opportunità del web, dei social network. I genitori hanno aderito in gran numero, insieme ai loro ragazzi.
Siamo partiti dall’idea che c’è spesso al computer si sta in alternanza: o gli adulti, con i loro interessi e attività, o i ragazzi, con i giochi, Facebook o i video di Youtube. L’ideatore di queste serate, il preside Danilo Piazza, ed io vogliamo aiutarli a scoprire che si può stare anche insieme davanti al PC, per esplorare il web; che il web è occasione di dialogo e non di chiusura su posizioni di scontro. Come chiediamo ai figli di raccontarci ciò che fanno a scuola o quando escono con gli amici, possiamo chiedere loro di raccontare le avventure di gioco, o magari i contatti di FB.
Spesso nei genitori prevale un atteggiamento misto di incoraggiamento e di diffidenza verso il coinvolgimento dei ragazzi con le nuove tecnologie. Sono frequente oggetto di regalo, ma l’uso che i ragazzi ne fanno è prevalentemente giudicato con preoccupazione. Eppure, si tratta di un’occasione educativa in cui si impara a fare mediazione in famiglia. I rischi ci sono: per restare ai videogiochi, dal troppo tempo trascorso - spesso a danno dello studio - alle conseguenze emotive, alla riduzione del tempo che si passa in altre attività (sport, amici, impegno)… Un atteggiamento equilibrato consente di conoscerli meglio e di poterne parlare, per capirsi di più e trovare regole di comportamento condivise.
Pubblicato il 31 gennaio 2013 - Commenti (0)
11 gen
Una discesa dal pendio innevato a bordo di una camera d’aria con un’amica, come hanno fatto tutti prima di lei. Una rete sfondata, un salto nel vuoto. Così è morta Chiara, scout di 16 anni. Dopo è Il lutto, il senso di colpa. E’ la rabbia, la paura, il dolore.
A distanza di pochi giorni dall’accaduto, mi incontro con i genitori del reparto scout a cui apparteneva Chiara. Hanno figli che vanno dalla II media alla II superiore. Ci si sente particolarmente vicini ai genitori della ragazza, con i quali ci si identifica; al loro posto, poteva esserci chiunque di noi a piangere il proprio figlio. Si scrive loro una lettera, per manifestare affetto e vicinanza e ringraziarli della loro testimonianza. Si solidarizza con i capi scout, ragazzi poco più che ventenni, che avvertono all’improvviso tutta la responsabilità di condurre nelle imprese ragazzi e ragazze. Ci si accorge come il ringraziamento nei confronti di questi giovani non sia mai abbastanza, per ciò che fanno, per l’aiuto grande che danno a genitori alle prese con un rapporto educativo non facile con i figli adolescenti.
C’è bisogno di stare insieme, di condividere e far circolare i sentimenti; vale per i ragazzi del reparto, ma anche per i loro genitori, alle prese con figli che piangono o fanno come se nulla fosse accaduto, che ricordano continuamente i particolari della tragedia o, all’opposto, sembra come se non fossero neppure presenti.
E dopo i giorni delle celebrazioni, delle veglie di preghiera, dei funerali, come in sospeso, vengono quelli della ripresa. Ricominciare le attività, ma come? Come si torna all’ordinario, sapendo che non è più come prima? C’è smarrimento. Ci vuole attenzione per tutti, cura sensibile per ciascuno.
Un grande dolore non è vano se fa crescere: va espresso, nei suoi molteplici volti (la rabbia, la paura, l’impotenza, la colpa…), in modo anche da curare pian piano le ferite emotive e non lasciarle incancrenire. Va contenuto: le lacrime bisogna trasformarle in pensieri e in parole, affinché non si riducano ad una reazione emotiva forte ma passeggera. Va accompagnato: ritrovarsi insieme, guardarsi negli occhi, condividerlo rende più profonde e autentiche le relazioni tra le persone.
Pubblicato il 11 gennaio 2013 - Commenti (2)
23 dic
Quest’anno desidero lasciare a tutti coloro che leggono questo blog due indicazioni di lettura per gli adulti (a Natale, un libro è sempre un dono gradito) e un augurio.
Il primo libro è un romanzo di Philip Roth, Nemesi (Einaudi 2012), che descrive le vicende del passaggio al mondo adulto di un giovane ebreo americano, un ventitreenne animatore sportivo di un campo giochi, nell‘afosa estate del 1944. A fare da cornice, gli eventi della II guerra mondiale, e soprattutto un’epidemia di poliomielite che miete giovani vittime in alcune grandi città degli Stati Uniti. La vicenda si snoda tra la maturazione di questo giovane, di sani principi e molto, forse troppo, pervaso dal senso di responsabilità, e il diffondersi della malattia. Il tutto raccontato da un narratore che solo lentamente emerge dall’anonimato, fino ad una conclusione davvero inattesa, dove i grandi nodi morali della vita, primi fra tutti la capacità di scegliere, il principio di responsabilità e il senso di colpa, vengono affrontati in un drammatico dialogo conclusivo.
La seconda indicazione è di tipo più strettamente educativo, e si rivolge ai genitori alle prese con l’impegnativo rapporto con i figli che crescono. SI tratta di E adesso che cosa faccio?, scritto dal medico e psicologo Luigi Ballerini (Ed.Lindau, 2012), un’utile e concreta riflessione educativa che propone fin dal sottotitolo di “ripensare il rapporto fra genitori e figli” in base alla considerazione che gli adolescenti “vanno trattati a partire dal fatto di essere giovani uomini e giovani donne… soggetti che chiedono che venga preso sul serio il loro pensiero, che vengano stimati in quanto soggetti desiderosi di essere al mondo e di dire la loro” (pag.68). Di qui una serie di indicazioni per compiere il viaggio della crescita accanto ai figli, che si tratti di Facebook o di una bocciatura…
Natività, Pinturicchio (1502).
Infine l’augurio è rappresentato da una immagine ricca di colore e calore, una Natività del 1502 del Pinturicchio, accompagnata da un pensiero di Edith Stein. Buon Natale a tutti!
«Ho sempre pensato - e forse è un azzardo - che il mistero dell'Incarnazione sia più grande della Resurrezione. Perché un Dio che si fa bambino... e poi ragazzo... e poi uomo, quando muore non può che risorgere»
(Edith Stein)
Pubblicato il 23 dicembre 2012 - Commenti (0)
14 dic
Bella serata, qualche giorno fa, in una scuola dell’hinterland. Una platea di soli uomini. In ombra, defilate nell’antisala, le uniche due donne presenti, la preside e un’insegnante, che fanno gli onori di casa. E’ una serata rivolta ai papà: una settantina, che si interrogano sulle modalità nuove di svolgere l’antico compito della paternità.
Sono stato invitato ad iniziare un percorso di tre serate su questo tema. Sono genitori di bambini di scuola d’infanzia e di primaria, e di ragazzi di scuola media. I due incontri successivi, in forma di laboratorio, saranno realizzate dagli operatori di un Consultorio.
Il clima è diverso dal solito: bisogna trovare qualcosa di specifico per i padri, che li differenzi dalle madri. Il gioco fisico con i figli? L’autorità paterna? I rapporti con il mondo esterno alla famiglia? La gestione dell’aggressività? Oggi ormai si tratta di comportamenti equamente condivisi da padri e madri.
Mi torna allora in mente il gesto che Ettore, l’eroe troiano, compie nell’Iliade, levando verso l’alto il suo bambino. Giunto dal campo di battaglia, ha dovuto spogliarsi dell’elmo e dell’armatura perché il piccolo non si spaventasse. Ora il bimbo lo ha riconosciuto; il padre lo alza verso il cielo e prega così:
Zeus e voi altri dèi, rendete forte questo mio figlio. E che un giorno, vedendolo tornare dal campo di battaglia, qualcuno dica : “E’ molto più forte del padre”.
Qualcuno del pubblico pensa che io mi stia riferendo alla gratificazione del figlio per le sue prestazioni. E’ qualcosa di più. Non si tratta semplicemente di lodarne le qualità sportive, o intellettuali, o le capacità di relazione. Bisogna saperne ‘pronunciare il nome’, cioè dirgli la nostra stima, affermare il riconoscimento di quello che è e che sta diventando. Comunicargli la fiducia che saprà muoversi sulla strada per diventare adulto, staccandosi gradualmente dalla protezione della famiglia.
Questo compito assume diverse forme a seconda dell’età dei figli. Durante l’adolescenza, in particolare, diventa la capacità di affermare la stima per il proprio figlio (maschio o femmina che sia), per quello che sta divenendo, anche quando i risultati sono differenti dalle nostre aspettative. E’ apprezzarne lo sforzo e lì’impegno, e non solamente il risultato. E’ riconoscere quanto di più adulto e solido prende forma nelle sue scelte, nei suoi atteggiamenti, nei suoi atti. E’ sostenerlo nel fare i conti con la realtà, lasciando anche che talvolta questa lo possa ferire. Senza mai perdere di vista che diventerà adulto, o adulta, e certamente migliore del padre.
Una domanda ai padri: vi ritrovate in questo ruolo? Come pensate di realizzarlo nella relazione con i vostri figli e figlie? Che cosa pensate del dibattito sulla paternità? Mi piacerebbe ricevere i vostri pareri e le vostre esperienze.
Pubblicato il 14 dicembre 2012 - Commenti (1)
16 nov
Ancora sull’orientamento (2)
Girando per le scuole, e incontrando i genitori, mi accorgo che la scelta orientativa interpella molte famiglie non soltanto sull’individuazione della scuola che il ragazzo o la ragazza frequenterà. La riflessione si allarga sulle sue caratteristiche, sia quelle più generali (il carattere, gli interessi, le attitudini, le capacità di relazione con gli altri), sia altre più specifiche. Così, i genitori mi parlano della tolleranza alle frustrazioni dei loro ragazzi, della capacità di affrontare gli impegni, dell’organizzazione dello studio pomeridiano, dei loro livelli di attenzione e concentrazione...
Una migliore conoscenza di questi aspetti appare decisiva per la scelta scolastica. Anche perché alcune motivazioni nella scelta sembrano essere più in negativo, come “Scelgo quella scuola perché si studia poco” oppure “perché c’è poca matematica (o poco inglese ecc.)”. Anziché avere motivazioni in positivo, legate ad interessi e attitudini: “Scelgo quella scuola perché si impara… perché si studia…”
Chi sceglie un liceo, sa che ha di fronte a sé un impegno di studio per almeno 8 anni (5 di secondaria e almeno 3 di università). Deve essere attrezzato a stare sui libri per alcune ore al giorno, a qualunque indirizzo si iscriva.
Un istituto tecnico, contrariamente a quanto molti ragazzi e genitori pensano, è comunque una scuola prevalentemente di tipo teorico, con poche ore dedicate agli apprendimenti pratici. Nei primi due anni si pongono le basi culturali, scientifiche e tecniche, attraverso uno studio più generalista. Mentre nel triennio divengono prevalenti le materie d’indirizzo, diverse a seconda che l’istituto tecnico sia industriale (meccanico, elettronico, informatico ecc.), commerciale o di altro ambito.
Gli istituti professionali (oggi non più divisi nel triennio di qualifica - dopo il quale lasciare la scuola per accedere al mondo del lavoro - e nel biennio successivo) sono scuole quinquennali che, rispetto alle precedenti, lasciano uno spazio maggiore alla pratica di laboratorio. L’apprendimento è suddiviso tra le materie di studio teorico e quelle professionalizzanti pratiche, che impegnano diverse ore alla settimana. Si tratta comunque di scuole dove resta presente in modo significativo lo studio a casa, anche se meno rilevante come tempistica.
Prima di iscriversi a questi istituti è buona cosa informarsi sulle possibilità che gli studenti degli ultimi anni effettuino stages in azienda a cura della scuola, in genere durante il periodo estivo. E’ un’attività indispensabile per ragazzi che desiderano un inserimento a breve nel mondo del lavoro. Gli istituti professionali non vanno confusi con i corsi di formazione professionale, presenti nelle regioni che li attivano. Si tratta di formazione breve (triennale, che si può estendere di uno o due anni) ed eminentemente pratica. Questi corsi sono rivolti a quei ragazzi che sentono di avere “l’intelligenza nelle mani”. Ciò significa che l’apprendimento in loro nasce prevalentemente non dallo studio sui libri, ma dalla riflessione sull’esperienza concreta di laboratorio. In questi corsi le attività di stages sono ordinariamente previste nel corso dell’anno formativo, per diverse settimane all’anno a partire dal secondo.
Pubblicato il 16 novembre 2012 - Commenti (0)
31 ott
Sono in una terza media. Stiamo parlando di orientamento. “Io, dice Fulvio, l’anno prossimo farò un professionale per diventare cuoco.”. Gli chiedo: “Un istituto professionale di 5 anni o un corso professionale di 3?” “Non lo so ancora”. “Perché vuoi diventare cuoco?” “Perché mi piace”. “Se venissi a casa tua, quale piatto mi offriresti, perché sei bravi a cucinarlo?” Fulvio mi sorride, mentre i compagni ci ascoltano attenti, e non risponde. Più tardi mi dirà che non ha mai cotto un uovo, né affettato una cipolla.
Irene invece vuole fare il turistico; le chiedo conferma che sta pensando ad un istituto tecnico di 5 anni. Mi dice di sì e mi chiede in quali materie bisogna essere bravi per fare quella scuola. Le rispondo che dovrebbe valutare in particolare il suo andamento nelle lingue straniere e in geografia. Le chiedo anche se ritiene di avere una buona base grammaticale, per affrontare meglio lo studio delle lingue. Irene si preoccupa un po’. Le chiedo pure perché pensa al turistico. “Perché voglio viaggiare tanto e stare lontano dai miei”, mi dice.
La scelta della scuola secondaria superiore è un mix di desideri, proiezioni nel futuro di adulto, consapevolezza di abilità acquisite e di attitudini individuali. Si aggiunge a questo il passaggio davvero epocale da una prima adolescenza, caratterizzata dai cambiamenti fisici della pubertà, dei 12/13 anni alla piena adolescenza che coincide con gli anni iniziali delle scuole superiori (14/17 anni). Il che significa un nuovo modo di pensare a sé, di presentarsi (capire come si vuole essere visti nel presente) e di progettarsi (chi si vuole diventare nel futuro).
Accompagnare i figli nella scelta, che è loro e solo loro possono fare, vuol dire non solo parlare di scuole diverse, ma anche considerare questo quadro. Approfondirò queste riflessioni in alcuni prossimi post. Se qualcuno ha quesiti da porre, li attendo nei commenti per prenderli in considerazione nei contributi delle prossime settimane.
Pubblicato il 31 ottobre 2012 - Commenti (1)
19 ott
Alcuni genitori segnalano la scarsa dimestichezza dei propri figli (e delle proprie figlie) con la pulizia personale. Dai racconti che raccolgo, non sono pochi i ragazzi che trascurano di lavarsi quotidianamente, privilegiando la doccia settimanale, magari solo in occasione di un impegno sportivo. Ciò innesca conflitti senza fine tra genitori che sottolineano come la cura della pulizia del proprio corpo sia una questione di rispetto di sé e degli altri, e figli che rispondono cambiando gli abiti e la biancheria anche frequentemente (talvolta più di una volta al giorno), ma non detergendosi con pari assiduità.
Questo costume mi sembra piuttosto diffuso nella primissima adolescenza. Permane anche oltre, ma riducendosi di portata. Non mancano tuttavia ragazzi che anche oltre l’adolescenza mantengono un certo disinteresse verso la cura personale, talvolta malgrado una vita sessuale attiva che implica momenti di intimità fisica con il/la partner. Peraltro, la cura del corpo risulta talora carente anche negli adulti, sia per stile personale che per atteggiamenti di scarsa attenzione verso di sé. Questo appare più chiaramente nelle situazioni in cui traspare una forte disistima verso se stessi ed è spesso segnale di una depressione in atto. Negli adolescenti, la scarsa pulizia sembra avere significati diversi. Un primo, e forse più evidente, riguarda un rapporto ambivalente con il proprio corpo. Soprattutto nella prima fase dell’adolescenza, in cui si assiste all’irrompere della pubertà, alcuni sembrano ‘dimenticarsi’ di avere un corpo, trascurandolo, magari maltrattandolo (ad esempio con sforzi fisici inappropriati ed eccessivi). Il corpo sembra essere una ‘sovrastruttura’ a cui non dare peso, se non per soddisfare i bisogni primari. Più spesso, questo corpo nuovo viene preso in considerazione in modo parziale, utilizzandone i lati positivi e di più immediata fruizione, e scordando quelli ‘faticosi’, che richiedono più impegno.
Il corpo diviene il mezzo per manifestare forza, bellezza, attrattiva erotica, al fine di dare solidità all’identità di genere. Ci si sente maschi o femmine al cento per cento attraverso l’espressione corporea: il corpo seduce, esprime energia e potenza, dominio e controllo su di sé e sugli altri, che lo guardano ammirati. Nell’abbigliamento, nell’acconciatura, nella presenza di piercing o tatuaggi, il corpo assume il compito di ‘carta d’identità’ visibile, di espressione di appartenenza ad un gruppo, di manifestazione della propria personalità. Ci si dimentica però che ha bisogno di una ‘manutenzione’ giornaliera, attraverso la cura della pulizia, che non solo richiede costanza, ma può mettere a contatto con gli aspetti meno gradevoli della corporeità.
Il corpo nuovo dell’adolescente emette (soprattutto nella prima fase e in modo spesso inatteso) effluvi, umori, fioriture di acne, anche spiacevoli. E’ frequente la presa in giro degli aloni di sudore sugli abiti o dei brufoli. Tipico è anche il caso di alcune ragazzine che, pur riconoscendo piacevolmente di essere oggetto di attrazione fisica per i coetanei, rifiutano di essere anche portatrici di una potenzialità generativa, che si esprime mensilmente nel ciclo mestruale, che non considerano, ed evitano la pulizia personale anche in quei giorni. Per altri, poi, la pulizia diventa il luogo di scontro con i genitori. Uno scontro spesso reale, con i genitori che premono per un uso di acqua e sapone, di spazzolino e dentifricio, regolarmente disatteso dall’adolescente, che trova una soddisfacente occasione di sfida. Ciò nasconde un conflitto più profondo e simbolico: è il corpo del bambino, accudito anche nella pulizia dai genitori quando si era piccoli, che viene negato e consente un’esperienza di separazione. Non si è più puliti e inodori, grazie alle cure dei genitori, ma sporchi e disordinati. Ci si può sottrarre così all’abbraccio tenero e regressivo della mamma, segnalando con forza che un cambiamento definitivo è avvenuto.
Pubblicato il 19 ottobre 2012 - Commenti (1)
15 set
Riaprono le scuole. I ragazzi a gruppi si avviano verso gli istituti superiori e i centri di formazione professionale. I primini, i bocciati, quelli che hanno cambiato indirizzo o scuola iniziano un nuovo percorso. Gli altri si ritrovano con i compagni e la maggior parte dei prof dell’anno scorso. Per molti, forse la maggior parte, l’eccitazione del nuovo anno è legata al ritrovarsi con i vecchi compagni. Molte ragazze si fanno belle, scelgono la mise e il trucco giusto: “Mai più senza…” sembra essere il loro motto. Anche alcuni ragazzi hanno da mostrare un nuovo look, o un’abbronzatura, o una muscolatura rafforzata.
Tutti ripensano alle imprese svolte durante l’estate, per raccontarle all’uditorio lasciato al mese di giugno. Viaggi, seduzioni, avventure… vengono raccontati al gruppo o all’amico/amica preferiti: “Sapessi che cosa ho fatto…!”
In un liceo pubblico di periferia, il primo giorno di scuola, un professore di filosofia e storia ha chiesto ai ragazzi di raccontare qualcosa di significativo delle loro vacanze. Non gli interessavano i viaggi mirabolanti (in Romagna o in California), e neppure le esperienze belle e utili che alcuni ragazzi hanno compiuto. Chiedeva loro qualcosa di più alto e difficile. Un’esperienza che avesse valore simbolico, che consentisse di leggere la realtà con uno sguardo più profondo e meno ancorato alla contingenza. E ha portato un esempio: durante un viaggio ad Istanbul, ha visitato una chiesa con una particolare struttura architettonica. Un atrio esterno preparatorio all’ingresso in chiesa, un atrio interno chiuso di introduzione, con mosaici che raffigurano Maria, e l’interno, con le immagini del Cristo. Una progressiva approssimazione dall’indefinito, senza confini, all’approdo alla dimensione generata, definita, e definitiva.
Forse questo insegnante non guarda questa chiesa con gli occhi della fede, ma ha colto e ha saputo proporre un percorso di ricerca ai suoi adolescenti un po’ attoniti, che magari non hanno capito bene che cosa il prof chiedesse loro, ma hanno intuito una direzione. La direzione della scuola, cioè quella del pensiero, che va oltre la concretezza, per diventare significativo di verità più profonde.
Pubblicato il 15 settembre 2012 - Commenti (0)
03 set
Sono molte le parole e i gesti che in queste ore vengono rivolti al cardinale Carlo Maria Martini, nei giorni del lutto. Molti rievocano la memoria dei suoi gesti, delle parole che ha pronunciato e scritto. Le nostre ore del ricordo sono per lui il tempo dell’incontro faccia a faccia con Dio. Il momento in cui ciascuno potrà conoscerne direttamente il volto, non più scorto “in modo confuso, come in uno specchio”.
Migliaia di persone, in un flusso continuo, affollano il Duomo di Milano. Nel maggio 2005, durante la messa in Duomo in occasione del 25° anniversario del suo episcopato, Martini rievocava le folle che avevano reso testimonianza, un mese prima, alla salma di Giovanni Paolo II, e sottolineava che “a poco varrebbe venerare un padre spirituale dell’umanità se Dio poi non parlasse nell’intimo di ogni cuore, indicando a ciascuno di noi qual è il nostro compito, la nostra vocazione, ciò che è chiesto proprio a noi e non ad un altro”. Il modo specifico di ciascuno, con le sue manchevolezze e le sue fragilità, di “rendere testimonianza al messaggio della tenerezza di Dio”, come il cardinale ricordava nella stessa occasione citando gli Atti degli Apostoli.
Il ricordo di una persona che muore, la partecipazione, l’omaggio sono atti gravosi per chi li compie. Soprattutto quando si parla di grandi anime. Significa chiedersi: che cosa ho a che fare con questa persona? Perché la sua vita mi interpella, al punto da rendergli testimonianza quando essa si conclude su questa terra? Che cosa mi lascia in eredità e che cosa del suo insegnamento mi dispongo a far rivivere nella mia vita?
Martini è stato il nostro (e mio) vescovo a Milano dal 29 dicembre 1979 all’11 luglio 2002. Gli anni del suo episcopato sono stati quelli della mia maturazione e della mia piena età adulta. Ha insegnato, a noi giovani adulti, ad ascoltare: la Parola di Dio, sempre e prima di tutto, e le parole di ogni interlocutore che si incontra, vicino o lontano da noi. Ci ha insegnato a tenere viva la continua necessità di conversione, per non invecchiare e morire, come ha mostrato fino alla fine. Ci ha insegnato che pensare è il principale atto di libertà e di responsabilità e che il cammino verso la verità è sempre accompagnato da avversità e da profonde contraddizioni. Ci ha insegnato a porci sempre domande, ricercando le risposte nel Vangelo. E, per noi che ci occupiamo di educazione, ci ha ricordato che è sempre Dio che, prima di tutto, educa il suo popolo.
Un maestro, di cui sentiamo la mancanza. Ma che ci rimanda al nostro personale impegno a capire, a non farci prendere dalla paura e dallo scoraggiamento, a lasciare che il nostro sguardo interrogante, illuminato dalla Parola, si rivolga alla realtà di tutti i giorni e vi cerchi i segni dello Spirito, che soffia dove vuole perché avvenga la conversione, il cambiamento profondo.
Era questo atteggiamento che consentiva a Martini, anche in questi anni di malattia, di far pervenire la sua voce, sempre più fioca nel suono, ma viva nei contenuti. Pronta a tracciare la via delle priorità per non perdere il contatto con le generazioni future. E a interrogarci ancora una volta nel profondo.
Pubblicato il 03 settembre 2012 - Commenti (0)
23 ago
Al telefono, la voce di Claudia è un po’ allarmata: - Hai visto sul sito del Corriere? Un diciassettenne in coma etilico a Pietrasanta… Anche Valentina è lì, in campeggio con i suoi amici, tutti ragazzi di 16/17 anni. Speriamo che non capiti niente! –
Mi racconta di come sua figlia Valentina, con la sua compagnia di coetanei, abbia ottenuto il permesso di trascorrere quattro giorni in campeggio in Versilia. I genitori hanno oscillato per un po’ tra la preoccupazione di lasciare dei minorenni da soli, lontani dal luogo di residenza, e la consapevolezza di lasciargli fare questa esperienza. Sono sei ragazzi (due femmine e quattro maschi) tutto sommato tranquilli, di buon senso, abbastanza quadrati… ma non si sa mai che cosa possa accadere in questi luoghi di divertimento senza giorno e senza notte.
Già, perché è soprattutto la notte a preoccupare Claudia : gli spostamenti al buio, i locali, la mancanza di controllo sugli orari… e su tutto il resto.
Il papà di Valentina, pur con qualche perplessità, è più favorevole all’esperienza: riconosce i dubbi della moglie, ma sostiene che i ragazzi debbano fare esperienze per imparare a distinguere i comportamenti corretti da quelli dannosi, per sé o per gli altri. Sanno la teoria, ma devono fare pratica.
Provo a tranquillizzare la mamma di Valentina, facendo leva sulla lunga frequentazione della figlia con questi amici, sul senso di responsabilità che hanno manifestato più volte tutti insieme. – Comunque, mi dice Claudia in chiusura di chiamata, sarò pienamente tranquilla solo quando sarà a casa! –
Mi richiama ieri, contenta: - Valentina è tornata, ed è un fiume in piena di racconti. Le giornate in spiaggia, le serate in giro con gli amici. Tutto è andato bene. Hanno anche incontrato altri tre coetanei con cui hanno trascorso le giornate e le nottate. Uno ha un po’ alzato il gomito, ma gli altri lo hanno contenuto, e anche protetto. Anche Valentina si è sentita protetta dagli amici, con cui si è divertita e con cui ha condiviso le responsabilità delle cene da cucinare, della spesa, dell’organizzazione…, degli orari di treni e pullman per il viaggio. E, perché no, della gestione delle relazioni nel piccolo gruppo…
E riporta i lunghi racconti di Valentina su divertimenti, preoccupazioni, irritazioni, anche paura (la notte che sono tornati per la via buia che portava dalla spiaggia al campeggio… neanche i ragazzi l’avrebbero fatto da soli!). Per diventare esperienza, non basta che le cose accadano: vanno pensate. Attraverso la narrazione gli eventi e le emozioni trovano il loro posto nella mente dei ragazzi e diventano utili per crescere.
Pubblicato il 23 agosto 2012 - Commenti (0)
14 ago
Sto passeggiando in un parco cittadino, godendo la bellezza degli alberi e qualche soffio di vento sottile, quando i miei occhi incrociano quelli di un ragazzo che, passando in bicicletta, mi sta guardando. Volta la bici e mi si rivolge: «Lei è il dottor Fantoni, vero? Sono un ragazzo della scuola dove viene a fare lo sportello, quest’anno è entrato anche nella mia classe a parlarci di affettività. Non so se si ricorda di me... A settembre andrò in III superiore». Lo saluto, conversiamo brevemente.
«Non vai via per le vacanze, quest’anno? Starai in città in agosto?» «Sono appena tornato dall’Inghilterra, ho trascorso due settimane per una vacanza studio; poi andrò al mare con i miei, settimana prossima… Anche se non è un momento molto tranquillo per i miei genitori. Sono tesi, si arrabbiano facilmente tra loro…» «Non preoccuparti, gli rispondo, magari hanno bisogno di un po’ di vacanza. E’ normale che ci siano periodi così nelle coppie, si accumula la stanchezza, a questo punto dell’anno; magari qualche preoccupazione sul lavoro che si scarica a casa… ci possono essere tanti motivi». Tento di ridimensionare in modo un po’ goffo.
«Sì, è vero… ma c’è un’altra cosa… ieri, sul cellulare di mio papà, ho trovato un messaggio di una persona, una signora, che diceva che papà le manca molto e che spera di rivederlo presto. Non so di chi sia…» Lo ascolto in silenzio e lo guardo. «Chi sarà? Magari qualcuno del lavoro che vuole augurargli buone vacanze, no?» «Forse». Sembra preoccupato e in colpa per avere scoperto così questo indizio. «E’ stato il papà a lasciarmi il suo cellulare perché dovevo uscire e il mio era scarico».
Sono imbarazzato, quanto lo è lui. Ancora una volta un adolescente riesce a far provare ad un adulto qualcosa di ciò che sta vivendo: preoccupazione per un possibile inganno, vergogna per ciò che si sa, imbarazzo per uno sguardo rivolto a vicende personali, incertezza per quanto avverrà.
Il ragazzo è agitato dal contrasto tra il desiderio di avere certezze, per capire meglio ciò che sta avvenendo tra i genitori, e quello di non sapere nulla di tutto ciò. Tra il dispiacere per il padre e quello per la madre. Provo a dirgli che in fondo queste sono cose che riguardano gli adulti, che lui deve cercare di restarne fuori; ma so che adesso serve a poco.
Gli chiedo se in questi giorni è a casa da solo con i suoi, o se c’è ancora in giro qualche amico. «Domani vado a trovare la mia ragazza : non è vicina, è a un’ora di treno da qui. Ma sarà bello». Glielo auguro anch’io.
P.S. Ricordo alle persone che desiderano contattarmi per quesiti di carattere personale che possono farlo inviando le loro richieste all’indirizzo di redazione famigliacristiana@stpauls.it con la specifica indicazione per me.
Pubblicato il 14 agosto 2012 - Commenti (0)
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