Don Sciortino

di Fabrizio Fantoni

Fabrizio Fantoni, 54 anni, sposato, tre figli. Psicologo psicoterapeuta, esperto di adolescenti.

 
16
lug

Ozio estivo

Tanto tempo libero. Il sole, la calura, i pomeriggi vuoti. Appena possibile, cioè dopo l’ultimo boccone del pranzo, ragazzi e ragazze si precipitano fuori casa per la libera uscita. Stare con gli amici. Passare dal caldo delle panchine dei giardinetti e delle piazze al fresco dei centri commerciali. Oppure ci si sdraia su letti e divani, a guardare repliche di telefilm alla tv o repliche di youtube sul tablet. Visti mille volte, senza mai annoiarsi. Chi è al mare o ai monti si stende al sole, gioca in spiaggia, rincorre un pallone, mangia un gelato, afferra la bici.

E’ un tempo sospeso. Non c’è preoccupazione per il futuro, se non per gli imminenti momenti successivi, che subito scivolano via. L’orizzonte dei grandi progetti si restringe ai programmi della serata. Non bisogna rendere conto a nessuno delle proprie scelte. Al massimo, ma non sempre, bisogna comunicare ai genitori l’ora di rientro o i soldi spesi. Per moltissimi adolescenti, l’estate è il tempo dell’ozio. Non si fa niente. E’ un abbandono languido, senza forze, senza nerbo, al quale ci si lascia andare. Noi adulti guardiamo a questo tempo con un mix di sentimenti diversi.

Comprensione: si godano le vacanze, almeno loro! si riposino dell’anno.
Irritazione: ci sono tante cose da fare; essere in vacanza non vuol dire mollare tutto, c’è sempre un po’ di studio, e ci sono gli obblighi della vita in famiglia.
Inquietudine: tempo vuoto, tempo senza un senso, senza una direzione.

Che cosa passa nella mente degli adolescenti quando il tempo si fa liquido e perde la sua ‘forma’ abituale, fatta di doveri, di obiettivi, di regole che lo scandiscono? Il tempo, insieme al corpo e agli spazi di casa, è il terreno di battaglia favorito nei conflitti tra gli adolescenti e i loro genitori, quei conflitti che possono essere così utili nella crescita quando non cercano di distruggere l’avversario, ma di incontrarlo, sia pure nel corpo a corpo, e di delimitarlo. Tuttavia in estate, come genitori, siamo anche noi stanchi e desideriamo un po’ di vacanza. Abbiamo già lottato abbastanza per organizzare almeno una parte del tempo estivo: soggiorni all’estero, campi di lavoro, vacanze dai parenti, oratorio feriale, piccoli lavori, ripetizioni.

E’ il momento per dire ai nostri figli: oziate per davvero! Abbandonate anche le solite attività del tempo libero che distraggono, i videogiochi che ottundono. Lasciatevi andare alle vostre fantasie e ai vostri pensieri, seguiteli senza volerli sempre controllare. Vi porteranno lontano e vi faranno approdare a territori che nella quotidianità non potete esplorare.  Sperimentate anche la noia, che è un vuoto che chiede di essere riempito, che porta a cercare ciò che soddisfa davvero, e non narcotizza. State molto, molto tempo con i vostri amici, finché le parole cominciano a mancare, le risate appaiono stanche. Se rinuncerete a facili scorciatoie, che danno ebbrezza ma non saziano, comincerete a guardarvi negli occhi. A parlare di cose che non si capiscono, ma che interrogano ciascuno. E talvolta a cercare anche un po’ di solitudine.    

Pubblicato il 16 luglio 2012 - Commenti (1)
15
giu

Promozione sospesa

Sul cartellone finale del I anno, all’altezza del cognome di Silvia, non ci sono i voti, ma la dicitura “giudizio sospeso”. Lo stesso vale per Davide, Martina, Carolina, Andrea, Giulia, Ludovico…
Tutti se lo aspettavano. Una o due materie da studiare durante l’estate, in più rispetto ai compiti per le vacanze assegnati a tutti. Ne parlo con Silvia, che arriva trafelata dall’oratorio feriale dove sta spendendo le energie dei suoi 15 anni. “Sì, me l’avevano preannunciato. Meno male che la prof d’italiano ha tirato su il 5 e mezzo: era indecisa se darmi anche la sua materia. Ma adesso vado a ripetizioni, e così mi preparo bene!... I miei? Niente, già lo sapevano.
 Una promozione a rischio, così come lo è stato tutto l’anno scolastico, oscillante tra insufficienze a volte clamorose e sufficienze non sempre abbondanti, ma comunque fonte di soddisfazione e rassicurazione. Ha studiato Silvia quest’anno. Magari non sempre, e, soprattutto nella prima metà dell’anno, con un atteggiamento poco adatto alla scuola  superiore: scarso approfondimento dei contenuti e dei particolari, come se bastasse un’infarinatura generale, apprendimento a memoria, poca attenzione alla correttezza e alla fluidità dell’esposizione orale, studio solo in occasione delle interrogazioni e delle verifiche…
E adesso? Fino a settimana prossima, l’oratorio feriale; poi, da metà luglio, una settimana di vacanza con i genitori e due di campo scout; ad agosto, poi, in campagna con nonni e parenti vari. Prendo il calendario: da qui ai primi di settembre, togliendo vacanza di famiglia, campo scout e scampoli di oratorio, restano  4 + 4 = 8 settimane in cui potrà studiare. Silvia resta un po’ perplessa, ma il tempo è quello.
Quando si studia? Al mattino, certo… ma nei prossimi giorni ci sono attività dell’oratorio per le quali si è già impegnata, e dal 27 giugno al 10 luglio, la scuola organizza anche dei recuperi al mattino. Non tutte le mattine e non per tutta la mattina. Però è un ulteriore impegno: utile, ma che non sostituisce lo studio personale. E in campagna, si riuscirà a studiare? Certamente! Sarà lì che si faranno le ripetizioni...
Le 4 settimane di agosto saranno impegnative. Propongo a Silvia di organizzarsi bene: su un foglio, indicare con precisione i giorni, le ore che si dedicheranno alle materie da riparare (al netto delle ore di recupero a scuola o di ripetizione), i contenuti suddivisi  e gli esercizi che ci si propone di fare (che in parte saranno i lavori per le vacanze assegnati). Senza dimenticare che ci sono anche i compiti ordinari delle altre materie da svolgere, ai quali attribuire il giusto tempo. Settimanalmente, poi, andrà verificato se la tabella di marcia è adeguata o magari è eccessivamente esigente.
utto questo sarà il segno di una sua capacità di affrontare in modo autonomo i propri impegni scolastici. Un esercizio per comprendere ancora di più che la scuola, man mano che si cresce, non è e non può essere affare dei genitori o dei professori, ma che è in mano all’adolescente. Non si studia per gli altri, per la soddisfazione e l’orgoglio di mamme e papà, ma per sé.
La strada per comprenderlo è lunga (5 anni!), ma occorre che sia chiaro per i ragazzi. E per i loro genitori, talvolta pressanti e ansiosi, che si sentono investiti della responsabilità del buon andamento scolastico dei figli. Finché un adolescente non percepisce che i risultati scolastici appartengono a lui solo, ogni supporto, ogni aiuto, ogni esortazione cadono nel vuoto.     

Pubblicato il 15 giugno 2012 - Commenti (1)
01
giu

Due film

Nelle sale cinematografiche in queste settimane sono apparsi due film sugli adolescenti, girati con sensibilità da registe donne. Nel primo caso, si tratta delle due sorelle francesi Delphine e Muriel Coulin. Il titolo del film è 17 ragazze, narrazione delle diciassette gravidanze contemporanee di altrettante liceali, sullo sfondo di una città post industriale del Nord della Francia, Lorient, in disarmo per la crisi economica e di futuro.

Il film è un’amara parabola, che come tale va intesa in senso metaforico, sulla ricerca di vita da parte di queste adolescenti in cerca del loro futuro. Non trovano una proposta di progettualità negli adulti, genitori e insegnanti. E allora se la inventano restando incinte ‘in serie’, non in seguito a dei rapporti amorosi (vi è la ricerca della gravidanza, non della relazione), ma dal desiderio di generare. Un desiderio gestito in solitudine, come nei momenti in cui, con la camera fissa, sono riprese immobili e pensose nelle loro camerette inondate di oggetti infantili. Oppure condiviso nella solidarietà delle amiche, anch’esse coinvolte nell’impresa. Per le ragazze c’è questa possibilità. Per i maschi… i coetanei sono pressoché assenti nel film, tranne il fratello maggiore, di poco, della protagonista, che per procacciarsi un futuro va come militare in Afghanistan a sparare, come lui stesso afferma, a dei tipi che neanche conosce, e probabilmente senza saperne il perché, accompagnato anche lui da un peluche, uno degli oggetti che abbondano anche nelle camere delle ragazze, inutili custodi delle promesse di felicità dell’infanzia. Per i ragazzi come per le ragazze, progetti di vita o di morte sembrano equivalersi, basta che aprano ad un futuro.

Può un figlio essere una promessa di futuro? Il problema, che non viene affrontato nel film,  è che generare un figlio è mettere al mondo un’altra persona, che è diverso dal genitore e che viene cresciuto per staccarsi da lui. Non è un progetto per se stessi, ma per un altro; e questo lo rende un’impresa così difficile.

Il secondo film, Sister, anch’esso diretto da una donna, la svizzera Ursula Meyer, racconta le peripezie di un dodicenne svizzero che ogni giorno lascia il grigio casermone di pianura dove vive per salire all’empireo dei campi da sci più rinomati e frequentati da vacanzieri di tutto il mondo per rubare su commissione articoli sportivi di lusso e mantenere così sé e una confusa sorella maggiore,  tossica e alla ricerca di amori sconsiderati.

Questo film mette a tema, tra altri spunti, la compresenza nei primi anni dell’adolescenza di bisogni affettivi diversi, e ci ricorda come spesso, anche nelle società più benestanti, come quella svizzera, essi restino inascoltati e disattesi. Da un lato c’è quello del diventare adulti, espresso, come nel caso del giovanissimo protagonista, assumendosi perfino il carico del mantenimento della famiglia, con coraggio, sagacia e buon senso. Qui addirittura si può diventare grande, come purtroppo avviene in non poche situazioni, al di fuori dei percorsi ordinari della scuola e del lavoro.  Dall’altro lato ci sono i bisogni infantili di protezione, cura e calore, che permangono, soprattutto per chi, come il protagonista, non ha ricevuto soddisfazione negli anni infantili e ne è ancora assetato, al punto da doverne acquistare il soddisfacimento da chi per natura dovrebbe offrirglielo (ed è il punto emotivamente più intenso del film).

Il finale, in cui la ragazza più grande sale verso l’alto in funivia alla ricerca del piccolo protagonista, che nel frattempo sta discendendo con un’altra cabina, resta aperto: possibilità di essere di nuovo accolto e desiderato o drammatica impossibilità di qualsiasi incontro?  Lascio ai lettori il quesito.

Pubblicato il 01 giugno 2012 - Commenti (0)
20
apr

Marco tra affetti e prestazioni

I genitori di Marco si sono separati da un anno e mezzo. La mamma è andata a vivere nella stessa città, ma poco lontano. I figli sono rimasti con il papà. Marco è nel pieno dei suoi 14 anni. Vive con intensità i rapporti con le persone: i compagni dell’oratorio, il migliore amico (“uno stupido come me”), la coetanea di cui è innamorato e che lo ricambia. Tutto quanto è relazione con i coetanei lo coinvolge. A scapito delle prestazioni, quelle scolastiche in primo luogo. Forse rischia l’ammissione all’esame di licenza media; ma ancor più i genitori temono il passaggio alle superiori e all’impegno che richiedono.

Arriva sempre in ritardo ai nostri incontri: «Ero con i miei amici, sono stato fino all’ultimo… ma poi  il tempo mi è sfuggito, non me ne sono accorto», mi dice assai contrito, ma pure dispiaciuto di avere lasciato gli altri ancora a divertirsi sul campo. In casa fa disperare il papà: lo sconvolgimento causato dal distacco tra i genitori ha lasciato scie di sofferenza in tutti, e Marco si mette in salvo vivendo nel suo mondo fatto di amici e, in casa, di videogiochi, e disattendendo i compiti che gli spettano. In particolare, ha ingaggiato una lotta sistematica con il papà e le sue richieste, dall’alzata al mattino, all’orario in cui coricarsi alla sera. Egli guarda molto al papà, alla sua forte personalità, e ha pensato di identificarsi con lui attraverso l’opposizione e il braccio di ferro continuo. Più in profondità, Marco sta rifiutando il dolore mostrato dal papà. Verso di lui e i suoi sforzi non c’è solidarietà, ma irritazione. Spesso il malessere mostrato dai genitori sembra generare nei figli reazioni più di sgomento che di comprensione. Come accade ad alcuni bambini piccoli, che non tollerano i giorni in cui la mamma non sta bene, e la fanno disperare con i loro capricci anziché fare i bravi.

Marco si è ritirato da questo mondo degli adulti. Il suo cattivo andamento scolastico è il segnale di questa fuga, come se cercasse un’anestesia. Più ancora che i risultati negativi, colpiscono la sua mancanza di un metodo di lavoro scolastico e di strategie efficaci. Egli afferma non soltanto di non studiare, ma di non  avere delle procedure chiare in mente per organizzarsi. Non sottolinea, non si prepara schemi. Non stabilisce delle priorità tra le materie da svolgere, tra scritti e orali, tra la preparazione di una verifica e lo studio più ordinario. Come molti ragazzi, Marco, chiuso nella sua protesta, lasciato da solo in questi anni nel lavoro a casa, ha bisogno ancora di un accompagnamento verso l’impegno. Ora i genitori cercheranno un tutor che lo alleni, per gli esami di licenza ma soprattutto per il passaggio alla scuola superiore. Qualcosa di più delle classiche ‘ripetizioni’: una persona che attraverso una relazione di attenzione e simpatia lo guidi a sviluppare una motivazione e un metodo. Certo, questo non basta. Occorre ritrovare dei tempi di relazione tra ciascuno dei genitori e Marco, una comunicazione più fluida e sicura, per superare la frattura difensiva tra il rifugio nella tana delle relazioni con i coetanei, dove Marco è più al sicuro, e il mondo delle relazioni con gli adulti, in cui ci si allena a rispondere a richieste di prestazione, ed è meno gratificante. Forse, il fatto stesso che papà e mamma riprendano a parlarsi tra loro di Marco (e degli altri figli), con fatica e con impegno, può essere il primo segno di un cambiamento, che consentirà ai genitori di chiedere in modo più credibile a Marco lo sforzo di modificare i propri atteggiamenti.    

Pubblicato il 20 aprile 2012 - Commenti (3)
14
mar

Questione di fede

«Qualcosa come un futuro esiste nella misura in cui la nostra fede riesce a dare sostanza, cioè realtà alle nostre speranze. Ma la nostra, si sa, è un' epoca di scarsa fede o, come diceva Nicola Chiaromonte, di malafede, cioè di fede mantenuta a forza e senza convinzione. Quindi un’epoca senza futuro e senza speranze - o di futuri vuoti e di false speranze». Su Repubblica dello scorso 18 febbraio, Giorgio Agamben ha pubblicato un commento sulla “feroce religione del denaro” che divora il futuro. Un filosofo laico con forza richiama alla fede (non necessariamente religiosa) come condizione necessaria per concepire un futuro.

Fa riflettere, proprio nel momento in cui invece l’educazione sembra via via perdere il suo carattere di proiezione fiduciosa delle nuove generazioni nel futuro. A mio parere, la differenza principale tra i genitori di oggi e quelli della generazione precedente sta proprio in questo: in una carenza di fiducia, oggi, da parte degli adulti nella possibilità che i figli si realizzino quando diverranno a loro volta adulti. La generazione precedente era sorretta dalla serena consapevolezza che una sicurezza lavorativa, un benessere economico e una vita di coppia erano bene o male riservati a tutti i loro figli. Qualcuno ricorderà le tre "M" che negli anni Sessanta simboleggiavano le promesse del futuro: mestiere, marito o moglie, macchina (scegliete voi l’ordine). Nei genitori d’oggi questa fiducia nel futuro dei figli vacilla. Le difficoltà che i giovani incontrano nell’accesso al lavoro, la sua frequente precarietà; l’idea che le sicurezze economiche e la possibilità di risparmio dell’attuale generazione adulta non saranno conseguite dagli adulti di domani; la percezione di un ristretto orizzonte temporale e di una fragilità di molte relazioni affettive… tutto questo sembra prendere il sopravvento negli atteggiamenti educativi di molti genitori.

L’educazione basata sulla speranza viene sostituita da un’educazione fondata sull’ansia e sulla paura. E’ quanto i due autori francesi Benasayag e Schmit, riprendendo un’espressione di Spinoza, hanno sintetizzato nel titolo di un loro libro di successo di qualche anno fa, dedicato alla cura verso gli adolescenti: L’epoca delle passioni tristi (Milano, Feltrinelli, 2004). Si tratta dell’attuale periodo, in cui sembrano predominare la percezione del futuro come minaccia anziché come opportunità, la noia, il senso di impotenza, di disgregazione, la perdita di significato.

Si possono contrastare le passioni tristi, che defraudano i ragazzi del loro futuro? Forse sì, con molteplici atteggiamenti. Ne propongo alcuni:

  1. Guardare al futuro con occhi diversi da quanto ci viene proposto, sapendo che la speranza non risiede nelle cose attorno a noi, ma negli occhi di chi guarda.
  2. Comunicare ai figli la possibilità di accedere alla vita adulta, a partire prima dalla costruzione della propria persona, di un’interiorità ricca e sensibile, di una capacità di vivere relazioni e legami, e poi dalle competenze che la scuola può offrire.
  3. Non puntare sulla molteplicità delle esperienze che i ragazzi possono fare, in modo talora dispersivo, ma sulla capacità di pensare ciò che loro accade, sia nella riflessione personale che in quella condivisa con gli altri.
  4. Consentire con serenità che si stacchino dagli adulti di riferimento e, fin da piccoli, possano percorrere le vie del mondo fiduciosi nelle proprie forze ma anche capaci di chiedere aiuto quando occorra.
  5. Coltivare fin dalla vita in famiglia l’idea di un bene comune, che è quella di concorrere allo star bene di tutti attraverso la partecipazione di ciascuno agli impegni e alle fatiche di tutta la comunità.
  6. Mettere a tacere l’eccesso di protezione e di difesa dal mondo, le ansie e i timori che le fragilità dei figli suscitano nei genitori, che fanno sì che i ragazzi non si misurino mai con i risultati dei loro sforzi perché, per arrivare da qualche parte, occorre sempre l’indispensabile aiuto degli adulti…
L’elenco è certamente limitato. Chi vuole aggiungere altri atteggiamenti che consentono di accrescere la fede dei figli nel loro futuro?  

Pubblicato il 14 marzo 2012 - Commenti (2)
21
feb

Costanza si è messa con Giovanni

“Finalmente!” dicono gli amici più stretti. Sono mesi, ormai, che Giovanni trascura gli studi della sua terza liceo per aiutare Costanza ad affrontare i suoi di II superiore. E’ sempre disponibile, quando lei gli telefona per chiedergli spiegazioni sulle equazioni o sulla cellula. E lui, che non è mai stato un cannone in matematica o in biologia, lo diventa per lei.
Giovanni è davvero sempre pronto a dare una mano agli amici. Impegnato in oratorio, nella scuola, con chiunque abbia bisogno di aiuto. Giorno e notte. Tutti sanno  che Giovanni non  nega mai la sua presenza, o almeno un sms sollecito, quando si è preoccupati, tristi, confusi, e ci si rivolge a lui. Ma intanto la pagella di Giovanni tracolla. Tanto da essere, a questo punto dell’anno, a rischio di bocciatura, malgrado le buone risorse cognitive del ragazzo.

Qualche giorno fa, tornando a casa da scuola per le solite ‘lezioni’ pomeridiane, Giovanni e Costanza si sono guardati come mai prima e si sono baciati. “Che cosa stiamo facendo?!” “Non lo so, ma è bellissimo…” Come per molti ragazzi, la prima preoccupazione è che l’intensa amicizia sia messa a repentaglio dall’innamoramento. Se un giorno l’amore finirà, che cosa ne sarà della loro amicizia? Saranno costretti a chiudere anche quella?  Il pericolo è reale, ma quando si è innamorati, ci si sente pronti a correre qualsiasi rischio.

Adesso però Costanza si interroga: la vicinanza di Giovanni è stata proficua per la sua situazione scolastica. Ma non c’è reciprocità. Certo, lei non può aiutare l’amico, che frequenta un corso più avanzato del suo. Ma anche la sua azione di sprone, le sue esortazioni a Giovanni di maggiore impegno nello studio, non sembrano avere effetti.

Come altri adolescenti, Giovanni gode dei vantaggi di una sua disponibilità vero gli altri che rasenta l’oblazione, il tentativo di donarsi pienamente. La sua generosità è sicuramente lodevole, ma forse esprime anche profondi bisogni evolutivi. Un adolescente infatti non soltanto cerca di rispondere ad una domanda di identità (chi sono?), ma anche di valore per gli altri (per chi sono?). Gli amici diventano lo specchio dal quale apprendere la stima di sé. E talvolta l’adolescente cerca non soltanto apprezzamento e conferme, ma anche qualcosa di più. Ad esempio, essere tanto importante per gli altri da poter alimentare un’immagine idealizzata di sé, come se lui fosse “l’amico perfetto”.

Talvolta, ciò sembra compensare carenze di autostima più profonde. Come avviene per Giovanni, che con la sua disponibilità cerca di compensare la propria consapevole fragilità di fronte alle fatiche mentali dello studio. E così egli cerca anche di riparare l’immagine che a casa gli viene rispecchiata dai genitori, comprensibilmente preoccupati dall’andamento scolastico del figlio, ma anche troppo delusi e poco capaci di manifestare autentica stima nei suoi confronti.

Pubblicato il 21 febbraio 2012 - Commenti (0)
20
gen

Ragazzi che non imparano la matematica

Sicuramente Emanuele è un ragazzo di buona intelligenza, brillante nelle argomentazioni, risoluto nelle affermazioni, rispettoso ma talvolta caparbio nelle sue convinzioni. Gli piace incrociare le armi della polemica, del contraddittorio, con i coetanei ma soprattutto con gli adulti, e lo fa con ricchezza verbale e proprietà di linguaggio.

Eppure… consigliato dagli insegnanti delle medie di frequentare il liceo scientifico per i buoni risultati conseguiti in tutte le discipline, si è iscritto al primo anno della sperimentazione informatica, ma ha incontrato notevoli difficoltà nello studio. E’ passato in II nel liceo scientifico ordinario, ma a metà anno ha abbandonato la scuola, per gli esiti decisamente negativi e stati di malessere derivanti dalle faticose relazioni familiari. Ad un certo punto, la sua rivolta (inconsapevole) lo aveva portato addirittura a sovvertire l’alternanza del giorno e della notte, restando sveglio per la maggior parte delle ore notturne e prendendo sonno solo alle prime luci dell’alba. Ora sta ripetendo il II anno, con buoni risultati in molte materie… tranne matematica. Pur avendo buon intuito, non si applica con continuità, e i risultati sono decisamente scadenti.

Anche Mathias è un ragazzo dalle ottime potenzialità intellettive: intuizioni vivaci, uno stimolante contesto familiare. Ha un pensiero logico forte e consequenziale. Con le parole se la cava benissimo. E’ iscritto anche lui al liceo scientifico, in primo anno. Il suo andamento scolastico è alterno, anche a causa di una situazione personale e familiare complessa e delicata. Mathias infatti utilizza buona parte del suo tempo a tramare contro genitori ed insegnanti, ad escogitare modi per ingannare gli adulti che lo circondano, in primo luogo per liberarsi da un controllo severo, a volte esasperato, che i suoi genitori mettono in atto.  E’ oppositivo e in-sofferente. Malgrado tutto ciò, riesce comunque a mettere a segno buoni risultati in alcune materie, come il latino, l’italiano  e l’inglese. Ma non in matematica…

Sono molti i ragazzi che incontrano difficoltà in matematica, e non sempre per carenze di base o difficoltà specifiche nell’apprendimento. I loro risultati sono in contrasto con le loro buone capacità logiche, con l’intuito che mostrano anche in ambito scientifico e numerico. Certo, spesso scontano una carenza di esercizio e talvolta, a causa delle loro personalità combattive e non sempre controllate, arrivano allo scontro con l’insegnante per le loro inadempienze.

Mi viene da pensare però che ci sia dell’altro, e non soltanto la carenza di impegno nel lavoro a casa. Noto che spesso si tratta di ragazzi piuttosto refrattari alle norme dei ‘grandi’, strenui difensori della propria libertà personale contro il controllo messo in atto dai genitori e dagli altri adulti.

Forse c’è qualche collegamento tra gli elementi caratteriali di oppositività e di conflitto con le norme sociali che alcuni ragazzi, come i due citati, manifestano (sia pure in modi diversi)  e la difficoltà ad accettare la ‘sottomissione’ alle norme operative della matematica sui numeri, l’adesione alle quali non sembra avere altra giustificazione che un obbligo interno alla materia stessa. La matematica è la più astratta delle conoscenze, pur avendo delle applicazioni concrete così necessarie per la nostra vita. I suoi elementi sono ì lontani dalla concretezza: i numeri, le lettere, le forme geometriche… Chi non ricorda le prime lezioni di geometria in cui l’insegnante, disegnando un punto con il gesso sulla lavagna, subito avverte : “Questo NON è un punto, perché il punto è un’entità geometrica senza dimensioni” e così via con la retta, il piano, lo spazio… Anche i  rapporti tra gli enti matematici e geometrici seguono regole stabilite formalmente, che non si possono discutere. Prendere o lasciare. Un’alternativa difficile da accettare per i ragazzi di cui sto parlando. In più la matematica mi appare come la materia dove più è necessario sottoporsi ad una disciplina interna ferrea, tanto nell’attenzione costante alle spiegazioni, quanto nell’esercizio domestico; e ciò appare molto difficile ad Emanuele e Mathias, che faticano ad accogliere le richieste degli adulti di rispettare la disciplina, l’autorità, le regole formali del comportamento. Ragazzi che hanno sempre bisogno di essere rassicurati sui legami affettivi con gli altri, perché hanno paura che rispettare la disciplina significhi doversi sottomettere ad un’autorità rigida e poco affettuosa come quella che hanno sperimentato in famiglia. Le mie sono riflessioni che nascono da una pratica quotidiana che non è quella specifica del matematico. Mi piacerebbe invece sapere che cosa ne pensano i matematici di professione…    

Pubblicato il 20 gennaio 2012 - Commenti (2)
22
dic

Pensare al Natale: un augurio

Ciò che più mi colpisce, del Natale, resta sempre l’evento incomprensibile di un Dio creatore e Signore assoluto del tutto che, anziché starsene nel più alto dei cieli, nella sua pienezza assoluta e perfetta, avverte una specie di ‘mancanza’ in sé e decide di calarsi nel corpo di un uomo, provando in tutto la condizione umana. E lo fa per amare fino in fondo l’uomo e tutto il creato.

Resta per me un atto di immenso coraggio e di amore assoluto quello di Dio che si fa piccolo, fino ad entrare nella vita di un bambino, inerme di fronte ai bisogni più elementari. Che si lascia vincere dal sonno o squassare dalla fame. Che si lascia accarezzare, nutrire, vestire, pulire e sperimenta tutte le primordiali sensazioni di ogni bambino… E che poi cresce, incomincia a pensare, a provare i sentimenti che colorano il mondo interiore di ogni uomo. Che si consente di vivere i molteplici moti dell’animo : l’attaccamento a chi si ama, il piacere e la delusione, la paura e la rabbia. Che sperimenta il pensiero, lo studio e la conoscenza.

Per questo Dio che si è fatto uomo, tutto nel mondo appare ancora più nuovo, perché egli proviene da distanze siderali e resta pur sempre Dio, pur essendo pienamente calato nella dimensione umana. Immagino che ciò abbia molte volte provocato in Gesù una tensione enorme tra questi due estremi, sempre presenti insieme.

Questo senso di novità, quasi di stupore, che, posso immaginare, ha continuamente accompagnato Gesù, mi ricorda quello di ogni adolescente che, crescendo, vede e sperimenta con sensi nuovi e nuovi pensieri ciò che avviene attorno e dentro a sé. Anche Gesù avrà guardato il suo corpo crescere, avrà sperimentato la speranza che nutre i progetti e la fatica di realizzarli, l’incertezza e l’entusiasmo. E’ questo ciò che rende miracolosa ogni adolescenza, ciò che, quando rimane vivo, depositato dentro di noi, anche da adulti o da vecchi, ci permette di gustare la vita in modo nuovo.

Auguro a chi legge di poter sentire dentro di sé la vita rinnovata dall’atto di coraggio e di amore che Gesù ci offre anche in questo Natale 2011, incarnandosi nuovamente.

Per parte mia, regalo a tutti le parole, tanto più intense delle mie, di un grande poeta, Jorge Luis Borges, che in “Elogio dell’ombra”, rilegge così il versetto del Vangelo di Giovanni sull’Incarnazione “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv, 1, 14).

Non sarà questa pagina enigma minore
di quelle dei Miei libri sacri
o delle altre che ripetono
le bocche inconsapevoli,
credendole d’un uomo, non già specchi
oscuri dello spirito.
Io che sono l’È, il Fu e il Sarà
accondiscendo ancora al linguaggio
che è tempo successivo e simbolo.
Chi gioca con un bimbo gioca con ciò che è
prossimo e misterioso;
io volli giocare coi Miei figli.
Stetti fra loro con stupore e tenerezza.

 
 

Per opera di un incantesimo
nacqui stranamente da un ventre.
Vissi stregato, prigioniero di un corpo
e di un’umile anima.
Conobbi la memoria,
moneta che non è mai la medesima.
Il timore conobbi e la speranza,
questi due volti del dubbio futuro.
Ed appresi la veglia, il sonno, i sogni,
l’ignoranza, la carne,
i tardi labirinti della mente,
l’amicizia degli uomini,
la misteriosa devozione dei cani.

Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce.
Bevvi il calice fino alla feccia.
Gli occhi Miei videro quel che ignoravano:
la notte e le sue stelle.
Conobbi ciò ch’è terso, ciò ch’è arido,
quanto è dispari o scabro,
il sapore del miele e della mela
e l’acqua nella gola della sete,
il peso d’un metallo sul palmo,
la voce umana, il suono di passi sopra l’erba,
l’odore della pioggia in Galilea,
l’alto gridio degli uccelli.

 
 

Conobbi l’amarezza.
Ho affidato quanto è da scrivere a un uomo qualsiasi;
non sarà mai quello che voglio dire,
sarà almeno la sua eco.
Dalla Mia eternità cadono segni.
Altri, non questi ch’è il suo amanuense, scriva l’opera.
Domani sarò tigre fra le tigri
e dirò la Mia legge nella selva,
o un grande albero in Asia.
Ricordo a volte e rimpiango l’odore
di quella bottega di falegname.

Pubblicato il 22 dicembre 2011 - Commenti (0)
19
dic

Ancora a proposito del suicidio

La lettura dei due commenti di bastardobuono e trismamma75 (che voglio ringraziare per la fedeltà con cui seguono il blog) mi spinge ad aggiungere qualcosa al post. Quando Flavio, come molti altri ragazzi all’incirca della sua età, dice di voler morire, non credo che pensi concretamente alla morte come esperienza definitiva, dalla quale non si torna indietro, come fine completa della vita terrena. Spesso gli adolescenti, quando parlano di morte, pensano di far morire qualcosa di sé, ma di tenere qualcos’altro vivo.

E’ paradossale, ma il più delle volte, gli adolescenti che parlano di morte lo fanno per non morire. Anzi, qualcuno dice: «Se muoio, voglio proprio vedere quante persone verranno al mio funerale; voglio sentire  che cosa la gente dirà di me…». Come se si potesse partecipare al proprio funerale (come nella vecchia canzone di Jannacci) e di nascosto scoprire i legami più autentici, le amicizie più profonde, e smascherare quelle ipocrite e false. Come se in questo modo si potesse far emergere ciò che di più vivo c’è nella loro attuale esistenza.

Non tutti gli adolescenti pensano di morire, certo; anche se molti percepiscono di doversi confrontare con questa esperienza sconvolgente e radicale, sia direttamente (pensandoci, parlandone…), sia indirettamente, attraverso la musica (specie quella degli ‘eroi’ morti giovani, da Jim Morrison a Kurt Cobain) o il cinema (pensiamo ai film dell’orrore, oppure a quelli che hanno per protagonisti vampiri, zombies e altre creature morte ma vive). Forse, in tutto questo, c’è di mezzo anche l’esperienza di una ‘morte’ simbolica come quella dell’età infantile, un’epoca della propria vita così tranquilla da desiderarla ancora un po’, ma anche da superare. Si fa il “funerale” al bambino che si era (mettendo via per sempre i giochi che prima occupavano la camera; cambiando completamente amicizie e interessi…) e si diventa grandi, ma con un po’ di nostalgia per una fase della vita irrimediabilmente passata. E intanto ci si proietta  verso l’età adulta, sperando di riuscire ad arrivare al di là del guado adolescenziale. Questo è ciò che accade un po’ a tutti gli adolescenti, quelli “normali” (uso apposta le virgolette), cioè con le oscillazioni proprie di ogni adolescenza; a questi pensieri fanno da barriera le sicurezze interiori che hanno acquisito, soprattutto nelle relazioni (familiari, di amicizia, amorose) che sono così importanti. I pensieri sulla morte vengono anche a quei ragazzi e ragazze che vivono una vita più difficile, qualche volta più disperata, e pertanto temono maggiormente di non farcela a crescere e trovare la propria direzione. Loro pensano alla morte in modo meno protetto, e magari giocano pericolosamente con la morte, attraverso vari comportamenti a rischio, per sfidarla e pensare di vincerla, proprio perché ce l’hanno molto presente. Per loro le cose avvengono in modo meno sereno che per la maggior parte dei ragazzi… E’ soprattutto per loro che diventa importante trovare relazioni vere, forti, profonde, che li aggancino alla vita!

P.S. per bastardobuono: in un commento precedente avevi espresso il desiderio di chiedermi un parere più personale: puoi farlo scrivendo all’indirizzo di redazione famigliacristiana@stpauls.it. Grazie e ciao!

Pubblicato il 19 dicembre 2011 - Commenti (1)
13
dic

Flavio vuole morire

Da quando ha dodici anni (adesso ne ha 14), pensa ogni giorno di morire. Di farla finita. Così mi dice Flavio all’inizio di una consultazione, con aria tranquilla e senza la vergogna che di solito gli adolescenti manifestano quando parlano di queste cose. Mi dice che forse qualche volta succederà. Perché gli piacerebbe vedere com’è. Una volta ha provato a salire in piedi sul davanzale della finestra, ma poi è sceso. Anche altre volte ha avuto questo pensiero in modo molto intenso, ad esempio quando è scappato di casa, un pomeriggio. In quell’occasione, era in III media, ha lasciato la cartella a scuola, ha telefonato ad alcuni amici manifestando i suoi propositi, e verso sera è tornato a casa: lo hanno cercato il fratello e la sorella più grandi, lo hanno convinto gli amici. Con la sua solita tranquillità, ma anche in modo polemico, aggiunge che non l’ha fatto certo per mamma e papà…

Malgrado il garbo e la pacatezza delle sue parole, afferma le cose che dice come se fossero forti prese di posizione, che non lasciano scampo. I genitori non lo capiscono, gli pesano addosso. Vuole rendersi autonomo dalla famiglia e uscire di casa il prima possibile. Il liceo che sta frequentando al primo anno (con scarsi successi) e a cui dice che l’hanno iscritto i genitori in combutta coi prof delle medie, è una strada troppo lunga per andare a lavorare presto, come vorrebbe. Per ora ha degli amici, che gli vogliono bene e con cui vuole divertirsi. Vuole stare con loro al pomeriggio, farsi le canne insieme. Quando fuma sta bene, i pensieri di morte se ne vanno, e con loro molti altri pensieri…

In questo periodo l’unico impegno che regge stabilmente è la palestra, che frequenta da solo due volte la settimana. Vuole rafforzare il suo corpo alto ed esile. Magari, prima o poi, gli capiterà di usare la sua forza, forse in una rissa, come quelle che tanto lo attraggono, ma da cui anche si tiene a debita distanza.

I genitori, attenti e sensibili, sono preoccupati, ma anche arrabbiati: la mamma, più esigente, appare come irrigidita e in difficoltà a riconoscere le istanze di autonomia del figlio; il padre argomenta con gli stessi modi pacati e distensivi che appartengono anche al ragazzo, ma che Flavio, nel suo percorso di acquisizione della virilità, vorrebbe integrare con modi più aggressivi e ‘duri’.

La depressione di Flavio non sembra essere quella triste e amara di quegli adolescenti preoccupati di non farcela ad attraversare la ‘linea d’ombra’ della loro età per approdare alla sponda dell’essere grandi, uscendo in questo modo dalle oscillazioni e dalle incertezze identitarie della prima adolescenza. Piuttosto, Flavio sembra mancare di un obiettivo, di una méta verso la quale convogliare le proprie energie, a contatto con situazioni concrete e persone reali. Questa situazione si può definire come un caso di ‘depressione esistenziale’, una manifestazione particolare della ricerca profonda di un senso per cui vivere, che appartiene a tutte le età della vita, ma che nell’adolescenza si esprime spesso con più intensità.

Talvolta, come genitori o educatori, rischiamo di non accorgerci di una domanda di difficile decifrazione come questa, e di interpretarla in modo superficiale, o peggio moralistico e giudicante (disimpegnato! menefreghista! fannullone!).

Flavio non desidera morire, né ci sono, a mio parere, rischi in tal senso. Paradossalmente, la sua voglia di ‘provare a morire’ è una richiesta di vita più forte e coinvolgente, come ogni altra esperienza estrema. La ricerca di sensazioni intense e vive, sedata con i pomeriggi passati al parchetto a ‘fumare’, è il bisogno di un progetto di vita, ancora provvisorio ma che dia un senso ai giorni che passano. Trovare un lavoro, confrontarsi da solo con le scadenze della quotidianità, vivendo fuori dalla famiglia, sono i modi che Flavio ha scelto per dare una direzione tangibile alla propria crescita. Sa che ciò non gli è possibile nel concreto, per la sua troppo giovane età, ma non rinuncia a porre a modo suo la domanda di senso che sta nel cuore di ogni adolescente. Ha bisogno di un surplus di vita, in questo momento, che non gli viene dai progetti a lungo termine della scuola. Può essere più utile, in questa fase, un impegno di volontariato forte e coinvolgente, che preveda un incontro autentico con l’esistenza delle persone, anche nelle sue forme più difficili e faticose. Un incontro con chi ha trovato la sua strada nella apertura agli altri e nella prossimità.

In questo modo, il pensiero da cui Flavio vorrebbe fuggire, attraverso la fantasia eccitante ed estrema della morte, attraverso il rifiuto della famiglia e dello studio, attraverso l’ebetitudine delle canne, diventerebbe accessibile: trovare la propria strada da percorrere che dia la forza e la sicurezza per diventare uomo.

Pubblicato il 13 dicembre 2011 - Commenti (2)
07
nov

Per contattarmi

Giungono talvolta delle richieste di comunicazione personale, o tramite i commenti (ad es. quello di bastardobuono di qualche tempo fa) oppure attraverso richieste in redazione.
Penso che la cosa migliore sia quella di far pervenire le vostre domande di carattere personale, che non riguardano i post e i commenti, all’indirizzo di redazione famigliacristiana@stpauls.it, con la specifica indicazione per me. Mi impegno a rispondere personalmente a ciascuno. Probabilmente questo consentirà anche una più diretta vicinanza tra me e i molti lettori di questo blog. Sono tanti, anche se il numero dei commenti ai post non lo mostra, e per questo voglio ringraziarli!

Fabrizio Fantoni

Pubblicato il 07 novembre 2011 - Commenti (0)
04
nov

Un colloquio

La signora, mamma di tre ragazzi, si lamenta del marito: è buono, partecipe, ma è incapace di prendere posizioni chiare e decise in famiglia. Succede che allora Ii ragazzi non gli chiedano niente, perché risponde distrattamente oppure li lascia fare. Qualche volta, inaspettatamente, si irrigidisce sulle sue posizioni, e non c’è possibilità di dialogo. In certe situazioni, impone ai figli di fare alcune cose, ma poi non si cura di verificarne l’adempimento, che spetta alla moglie.

Talvolta, nelle frequenti discussioni tra la mamma ed i figli, quando viene chiamato in causa, il marito non sostiene la moglie, ma acconsente alle richieste dei figli, senza pensare alle motivazioni che spingono la moglie ad essere più severa : ad esempio, che i ragazzi non possono uscire se non hanno finito i compiti, non  si meritano di fare qualcosa che piace se hanno fatto disperare fino a poco prima o non hanno obbedito a quanto richiesto. Il papà concede, la mamma contiene.

Il marito, interpellato, racconta di non avere avuto una figura di padre da cui ‘imparare il mestiere’. E’ il figlio maggiore di un uomo prepotente e tirannico, che se n’è andato di casa, lasciando la moglie con quattro figli nella miseria e nella depressione. Sono stati anni difficili, quelli della sua adolescenza, e si è dovuto sobbarcare il compito di mantenere la famiglia e sostenere una madre sempre triste ed arrabbiata.

La signora riprende la parola: finché i bambini erano piccoli, le cose in famiglia sono andate abbastanza bene, ma adesso che i figli sono adolescenti, tutto si è fatto più difficile. Le difficoltà del marito sono messe in luce anche dai ragazzi stessi, che a volte rimproverano il padre.

Con i suoi comportamenti, l’adolescente punta sull’adulto un nuovo sguardo, che impone all’adulto di confrontarsi con se stesso: con le sue parti più intime e messe da parte. Al genitore l’adolescente impone un lavoro interiore di ripensamento di sé e di riflessione sulle sue certezze e credenze. Lo mette di fronte ai suoi progetti giovanili, ai suoi ideali e alle sue illusioni, al loro successo o al loro fallimento. Lo forza ad un lavoro interiore che è assai difficile per l’adulto. Gli chiede di rivedere se stesso adolescente, di mettere a fuoco che cosa ha imparato in quell’età, come e quanto è maturato in quella fase della vita. Di ripensare anche a ciò che allora è rimasto irrisolto, ed oggi, con i figli adolescenti, torna a galla.  

Pubblicato il 04 novembre 2011 - Commenti (1)
14
ott

Quando imparare è difficile per un disturbo

In questi giorni compie un anno la legge n.170 sui disturbi specifici dell’apprendimento. Cioè quelle difficoltà che affliggono molte persone (una percentuale tra il 2,5 e il 3,5 della popolazione, secondo dati dell’Istituto Superiore di Sanità) le quali, pur avendo una normale intelligenza, non automatizzano alcuni processi neuropsicologici alla base del leggere, scrivere e far di conto. Per loro la lettura e la comprensione di ciò che si legge, oppure la corretta scrittura secondo le norme dell’ortografia, o l’acquisizione della matematica diventano compiti faticosi e spesso frustranti per gli scarsi risultati, malgrado l’impegno profuso.

La condizione di queste persone, se non riconosciuta, ha spesso importanti conseguenze sulla stima di sé, sulla preoccupazione di essere poco intelligenti o di essere fatalmente votati all’insuccesso scolastico. Chi è dislessico, disgrafico, disortografico o discalculico porta con sé, ben oltre la scuola, la percezione di un limite che, quando non viene opportunamente affrontato, si può trasformare in senso di colpa. E’ facile che un bambino o un ragazzo che va male a scuola venga accusato di essere indolente, poco impegnato, senza comprendere la reale natura delle sue difficoltà, e si porti dietro anche da adulto lo stigma : quello, come si diceva una volta, di essere “un asino”.

La legge 170 ci fa passare da un’epoca in cui l’intervento degli insegnanti era frutto di benevolenza ad un’altra in cui la loro mancanza può diventare illegalità. In cui la scuola che non segnala ai genitori le difficoltà dei bambini manca ad un obbligo fondamentale e sancito dalla legge. In cui i genitori, gli specialisti, i docenti hanno precisi doveri (ulteriormente precisati per la scuola dalle Linee guida emanate nello scorso luglio dal Ministero dell’Istruzione).

Questo discorso sembra, a prima vista, riguardare soprattutto i bambini della scuola primaria. Eppure sempre più spesso, nella pratica clinica, mi capita di incontrare ragazzi di scuola superiore la cui dislessia o discalculia non è stata riconosciuta in precedenza. Spesso per incuria o incompetenza della scuola. O perché i genitori hanno scelto di non accogliere le preoccupate segnalazioni degli insegnanti, per paura o per superficiale noncuranza.

Il prezzo è alto: adolescenti demotivati per lo studio, che fuggono dagli impegni scolastici e non ne tollerano le frustrazioni. Ragazzi inclini a sottovalutare le loro capacità, che compiono scelte orientative sbagliate. Ragazzi oppositivi, verso la scuola e la famiglia, perché le sentono alleate nell’imporre loro un cammino troppo faticoso. Ragazzi che rischiano di entrare con strumenti inefficaci in un mondo che richiede una preparazione intellettuale sempre più ricca, per affrontare la complessità della vita lavorativa e sociale.

Gli insegnanti e la famiglia devono affinare l’attenzione verso queste difficoltà, attraverso l’accertamento precoce, intervenendo con gli strumenti più efficaci per sostenere l’apprendimento. E anche tenendo in considerazione coloro che, più grandi, potrebbero essere portatori di questi disturbi: ancora oggi gli esperti ci ricordano che i ragazzi con diagnosi di dislessia presenti nelle scuole sono solo una parte delle persone affette da questo disturbo.

La diagnosi di queste situazioni richiede specialisti competenti: purtroppo le strutture pubbliche di servizi per l’età evolutiva, spesso oberate da richieste (non solo per i disturbi dell’apprendimento) e in sofferenza per carenze di personale, non sempre sono in grado di rispondere alla crescente  domanda di diagnosi. Occorre un affiancamento tra il pubblico e il privato che, con il medesimo rigore diagnostico (formalizzato da documenti importanti, tra cui una Consensus Conference dell’Istituto Superiore di Sanità del dicembre 2010), possano offrire un adeguato supporto ai ragazzi e ai genitori. Le varie regioni stanno regolando questa materia, con tempi e modi differenti. Il web offre anche ai genitori costanti riferimenti in merito. In particolare, mi sembra utile segnalare il sito dell’Associazione Italiana Dislessia (www.aiditalia.org), sempre aggiornato sulle novità e le iniziative in merito ai disturbi specifici dell’apprendimento su tutto il territorio nazionale e nelle diverse sezioni diffuse sul territorio.   

Pubblicato il 14 ottobre 2011 - Commenti (0)
06
ott

La morte di Steve Jobs

Poche ore fa, si è diffusa contemporaneamente in tutto il mondo la notizia della morte di Steve Jobs, creatore di Apple. Uomo geniale, coraggioso, sognatore, intraprendente, inflessibile : così ci viene detto sul web in tutte le lingue.

Malgrado i tempi di crisi, di scoraggiamento, di disilluso e crudo realismo, abbiamo bisogno di miti che ci ricordino dove l’uomo può giungere. Ci piace pensare che in una sola persona si concentrino capacità, carattere, volontà, che gli permettano di lasciare nel mondo un’impronta più profonda del nostro essere ‘a immagine e somiglianza’ di Qualcuno Altro.

Non si è mai da soli nel realizzare qualcosa di bello e importante, e anche Jobs avrà avuto i suoi collaboratori con i quali condividere sogni e ansie. Con i quali, prima ancora, imparare a condividere, anche affrontando i conflitti. Penso che anche lui abbia dovuto apprenderlo col tempo, forse all’indomani della sua estromissione, nel 1985, dall’azienda che aveva contribuito a fondare, e alla cui guida sarebbe tornato undici anni dopo.

Si possono apprezzare queste figure, senza cadere nell’idealizzazione o nella commozione effimera che accompagna i grandi eventi mediatici, per quello che hanno fatto e per quello che hanno detto. Quando, nel giugno 2005, Jobs, già malato di tumore al pancreas, fu chiamato a parlare ai neolaureati dell’Università di Stanford, lui, che aveva lasciato gli studi accademici dopo solo 6 mesi, perché costavano troppo per la sua famiglia e non gli davano abbastanza, fece un discorso (che si può trovare facilmente sul web) alto e stimolante. Per noi adulti, e anche per i nostri adolescenti, che a volte ci sembrano così legati ad una quotidianità di scarso respiro.

In quel discorso, classicamente articolato in tre parti, parlò delle sue origini di bambino dato in adozione prima di nascere dai suoi genitori, due studenti (un’americana e uno studente straniero, siriano). Fu così accolto da una famiglia di origine armena, con la promessa che, una volta cresciuto, lo avrebbero mandato all’università. Parlò di sé come di un ragazzo alla ricerca, appassionato di calligrafia: un ragazzo che pieno di paura decideva comunque di seguire la sua curiosità, pagando anche con una scelta di precarietà. Bisogna tollerare queste incertezze, perché da giovani non si sa come andrà. Quale disegno uscirà “unendo i puntini”, lo sapremo solo dopo. Se avremo fede.

La seconda parte è dedicata all’amore e alla perdita. L’insuccesso è parte della vita, perché consente di essere ancora debuttanti, e di ritrovare l’amore per ciò che si è scelto di fare.

Ma è la terza parte quella più intensa e commossa. Là dove parla della morte. Dove, in modo molto pragmatico, Jobs diceva:

“Per gli ultimi 33 anni, mi sono guardato allo specchio ogni mattina e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, farei quello che sto per fare oggi?”. E ogni volta che la risposta è stata “No” per troppi giorni di fila, sapevo che dovevo cambiare qualcosa”.
Il pensiero della morte come strumento per compiere le grandi scelte. Per distinguere ciò che è accidentale da ciò che è autenticamente importante. Parole non nuove, certo, ma testimoniate da una persona che ci raccontava il dramma di una diagnosi infausta, che rendeva presente e vicina la morte. Ma che la percepiva come un formidabile agente di cambiamento e di rinnovamento. Un invito forte a non sprecare e a non disperdere la vita.

Una versione laica e tutta immanente di ciò che chi ha una fede religiosa sente, pur nella paura e nel dubbio che appartengono ad ogni essere umano. La morte è una risorsa per i viventi. E non è l’ultima parola, ma siamo chiamati a vivere anche dopo la fine della vita biologica, se sappiamo alzare lo sguardo, se sappiamo amare,  se teniamo viva in noi una fede. 

Pubblicato il 06 ottobre 2011 - Commenti (1)
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