Don Sciortino

di Fabrizio Fantoni

Fabrizio Fantoni, 54 anni, sposato, tre figli. Psicologo psicoterapeuta, esperto di adolescenti.

 
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Risposta a Vitazero

RISPOSTA AL POST DI VITAZERO DEL 19/12/2010

Caro Vitazero,
non credo che la scuola che descrivi nella tua triste narrazione esista ancora oggi (almeno in Italia). Per fortuna, quello che definisci ‘iperprotezionismo’ (quando non è ‘iper’, ma è la necessaria protezione) ha consentito che questa cultura della sopraffazione e della violenza, almeno nell’istituzione scolastica, non avesse più libero corso, magari con l’appoggio delle famiglie. Chi non ricorda che un tempo alcuni genitori rassicuravano le maestre che, per ogni ceffone dato a scuola, ne sarebbero piovuti il doppio a casa sul malcapitato ragazzino? Ciò non esclude che attualmente si possano avere forme più sottili di prevaricazione sui ragazzi. Ad esempio, temo che a volte famiglia e scuola si alleino nelle proprie aspettative sulle prestazioni dei ragazzi. Capita così che le richieste esigenti di alcuni insegnanti si sommino con quelle dei genitori che vorrebbero figli bravi a scuola, nelle relazioni , nello sport… Soprattutto nei primi mesi di scuola, alcuni genitori perdono il senso della misura e si aspettano prestazioni sempre elevate dai ragazzi. Qualche genitore storce il naso di fronte a voti dignitosissimi, ma che non sono “il massimo”. Altri, in modo meno esplicito, fanno pressione manifestando un interesse pressoché esclusivo per la scuola e i suoi risultati, che diventano l’unico argomento di conversazione nei momenti comuni. Col rischio di perdere di vista il ragazzo che sta crescendo.

(leggi il post di Vitazero)

Pubblicato il 23 dicembre 2010 - Commenti (0)
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Una frase di Sant'Agostino

Preparando gli auguri per il Natale, ritrovo questa frase di s.Agostino che ho utilizzato per gli auguri alle scuole di qualche anno fa:

“E’ ben più efficace, per imparare, il desiderio di sapere che nasce dalla libertà che non la necessità di sapere che nasce dalla paura”                                                                                        (Le Confessioni, Libro 1, 14).

Mi fa riflettere sulla motivazione allo studio che nasce faticosamente da un atto interiore di scelta e di ‘gusto’ per ciò che si fa, e non può venire primariamente dalle pressioni che genitori e insegnanti esercitano attraverso i voti negativi, i castighi, le minacce… E neppure dalle proiezioni in un futuro lavorativo fosco ed incerto dove si salverà solo chi ha un titolo di studio. Una motivazione interiore non è un dono di natura, ma una acquisizione spesso sofferta, maturata insieme alla crescita, con momenti di slancio e altri di stanchezza.

Qualcosa che va ‘educato’, nel senso che ogni ragazzo che cresce va aiutato a tirarla fuori dal proprio intimo, a crescerla, a tenerla viva. In altre parole, è una questione di senso. Accompagnare i figli adolescenti all’esperienza della scuola significa in fondo questo. Non basta sostenere, incoraggiare, dare indicazioni di metodo sull’organizzazione del tempo. Non basta neppure intervenire con forza quando le cose vanno male, dopo le verifiche negative e le pagelle disastrose, per aiutare a ritrovare la concentrazione e la forza di volontà. Non sono sufficienti le ripetute esortazioni banali : “Studia per farti una cultura! Studia perché potrai trovare un lavoro migliore!”

Come genitori, occorre ripensare alla propria esperienza, che si abbia avuto la possibilità di studiare oppure no, per trovare parole più autentiche sull’apprendimento e sul confronto (a volte scontro) con la fatica del pensare. Occorre riflettere con i figli sui linguaggi oggi necessari: la conoscenza della lingua italiana per poter meglio comunicare le proprie idee e i propri pensieri; della lingua straniera, per sentirci aperti al mondo più vasto che entra nelle nostre case attraverso le tv e internet; dell’economia e della storia; delle scienze e della matematica; delle tecniche… Occorre pensare che la mente è lo strumento più prezioso che ci accompagna nella vita. La fatica mentale è l’allenamento faticoso e costante di questa funzione, per uscire dal mondo dell’opinione ed entrare in quello della conoscenza, per  capire meglio noi stessi e gli altri.

Pubblicato il 23 dicembre 2010 - Commenti (1)
30
nov

La mente dell’adolescente

Torno sulla tematica dell’orientamento scolastico con un passo ulteriore. Tra le caratteristiche di un ragazzo da valutare in ordine alla scelta orientativa va data particolare attenzione all’atteggiamento nei confronti dello studio.

Quanto un ragazzo di terza media è in grado di affrontare la fatica mentale? Quali strategie ha appreso nei tre anni di scuola relativamente all’organizzazione pomeridiana del tempo, alla scansione degli impegni scolastici ed extrascolastici, alla preparazione in vista delle verifiche? Soprattutto, come affronta i pensieri anti-apprendimento che si affollano nella mente di molti adolescenti quando si mettono a studiare, e che si manifestano sotto forma di:
                      “Non ce la faccio! Non ci capisco!”
                      “Che noia! Basta!”
                      “Come faccio a studiare tutta questa roba?”
                      “ E poi, domani mi dimentico tutto…” 
e simili.
Si tratta in realtà di espressioni diverse di un unico malessere, quello relativo alla difficoltà di fare silenzio (fuori, ma anche dentro) per attivare i processi mentali di riflessione, elaborazione, memorizzazione propri dello studio.

I ragazzi di questa generazione sono forse più in difficoltà dei precedenti perché fin da piccoli sono immersi in un oceano di stimoli sensoriali ed emotivi dal quale non è facile uscire, per sperimentare un silenzio. Non è facile mettersi a studiare senza avere il cellulare che lancia squilli, le cuffie dell’I-pod nelle orecchie, msn che trilla e la tv accesa… Così il pomeriggio diviene un esercizio di multitasking, in cui cioè si svolgono più compiti mentali contemporaneamente, in una sorta di zapping frenetico tra stimoli diversi. Con le conseguenti difficoltà di attenzione, la minore memorizzazione ‘in profondità’ e un maggiore affaticamento.

Come se non bastasse, la mente di un adolescente è spesso un vulcano di pensieri diversi. Come andrà la partita che devo giocare dopodomani? Riuscirò a comperarmi per Natale l’I-phone con le mance dei nonni e degli zii? Come posso fare a attaccare discorso con il ragazzo o la ragazza che mi interessa? Che cosa pensano i miei amici di me? Come faccio a convincere i miei genitori a lasciarmi uscire?

Per qualcuno inoltre il corpo, messo in disparte per aprire la mente allo studio, si fa sentire con più forza. Mettersi a studiare e sentire fame o sete, alzarsi per sgranchirsi le gambe, sembrano sia un tutt’uno…

Di fronte a tutto questo, occorre fermarsi a pensare insieme al figlio. Bisogna riflettere insieme sul suo grado di consapevolezza di queste dinamiche. Sulla capacità (maggiore o minore) di arginare i pensieri interni e le stimolazioni esterne. Sull’ordine del tavolo e sul silenzio della stanza. Sull’utilizzo del tempo, che non è infinito (“Ho tutto il pomeriggio…”), ma limitato dagli impegni e dalla necessità di armonizzare studio e divertimento.    

Pubblicato il 30 novembre 2010 - Commenti (2)
09
nov

Quando un figlio picchia i genitori

Non sono infrequenti le consultazioni in cui i genitori vengono a parlare di ragazzi che li picchiano. Non una sola volta, ma con qualche frequenza. Di fronte a proibizioni o richieste ripetute da parte di mamma o papà. In genere i figli sono maschi alle soglie dell’adolescenza (12 -14 anni). Ragazzini non ancora maturi sul piano fisico, ma che sentono di poter dire attraverso il loro corpo tutta la rabbia per essere stati contrastati. Come se incominciassero a capire che i criteri dei genitori sono diversi dai loro e che, più delle parole, è la reazione fisica che può dire direttamente ciò che sentono dentro. Non sembra ancora acquisita quella consapevolezza della forza muscolare dell’adolescente, che lo porta ad esprimerla solo in situazioni ‘regolamentate’ (lo sport, il gioco tra coetanei…) ed eccezionalmente a scopo di nuocere, comunque non verso gli adulti più prossimi.

    Qualche volta questi comportamenti appaiono come il prolungamento di una reazione da bambini non contenuta a suo tempo. Se prendono uno scappellotto, lo restituiscono in automatico; e non importa che siano la mamma o il papà a mollarlo, anziché un coetaneo… Sembra che non abbiano la percezione della asimmetria che c’è tra l’adulto e il ragazzo, tra il genitore e il figlio. Si sentono sullo stesso piano. Molte volte, infatti, i genitori raccontano di figli che da bambini sono stati al centro di amorevoli attenzioni e concessioni, che hanno a lungo andare consolidato una posizione di privilegio, quasi di sudditanza dell’adulto (genitore, nonno, baby sitter) al bambino. Raramente, si tratta di ragazzi che le hanno prese da piccoli più spesso di quanto si dovrebbe…

    Ma tutto questo non basta a dare significato a quelle reazioni fisiche così anomale e che ripugnano istintivamente. Forse ciò che manca in questi genitori è proprio la percezione della gravità dell’accaduto. Fin dalla prima volta, le reazioni aggressive fisiche del figlio vengono rubricate come intemperanze e non come atti gravissimi. Atti di non ritorno, che possono ledere la relazione affettiva tra i genitori e i figli. Che richiedono una risposta forte e pensata, non la reazione immediata e speculare. Non l’affermazione di chi tra i due è più forte. Ma un segnale che è stata superata una barriera. Che il legame va curato e ristabilito. Dapprima attraverso il silenzio e il distacco per qualche ora, meglio qualche giorno. Non si può andare avanti come se niente fosse accaduto: occorre uno stop. Un segnale che manifesti la gravità dell’atto. Ma che dia anche tempo per riflettere. E’ il tempo in cui entrambi devono poter pensare a quanto avvenuto per dargli un senso.

    Magari, per il genitore è il momento di capire che certe richieste devono essere fatte in altro modo. Che l’ansia o la rabbia di un momento non vanno rovesciate sul figlio, soprattutto se questi è per lunga consuetudine così legato al genitore da non riuscire a prendere le distanze. E’ il caso, ad esempio, delle continue e ripetute richieste di fare i compiti rivolte a ragazzi ansiosi e in conflitto con se stessi tra divertimento e dovere, tra prestazione e fuga da essa.

    Per il figlio è il tempo per riconoscere che si può fare male ad un genitore. Che mamma e papà non sono appendici di lui, o adulti indistruttibili e idealizzati. Non sono parti di sé, fusi con lui in un legame simbiotico. Sembra che la rabbia che scatena nel figlio le botte ai genitori sia in ultima analisi la scoperta stupita e furibonda che i genitori non sono come lui li aveva pensati e vissuti, come coloro che proteggendolo si incaricano di realizzare i suoi desideri. Se il figlio coglie invece il distacco da loro, magari si può anche arrabbiare con la mamma o con il papà, perché capisce che ragionano con criteri (educativi) diversi dai suoi. Ma è il sano riconoscimento di una alterità e di una differenza che permette di crescere. E crea lo spazio per chiedersi scusa e per perdonarsi.

Pubblicato il 09 novembre 2010 - Commenti (0)
25
ott

Nuovi orientamenti 2

Un corretto orientamento richiede sempre due cose: una buona conoscenza di sé e una completa conoscenza delle offerte formative della zona in cui si vive. Entrambe poi richiedono validi criteri per essere valutate.  Che cosa possono fare i genitori in tutto questo?

In primo luogo, possono utilizzare questa fase per ripensare al figlio che crescendo sta cambiando, facendo il punto e chiedendosi «Chi è nostro figlio?». Non è una risposta facile da dare, pensando al carattere, alle qualità e ai limiti, ai desideri, ai progetti, alle preoccupazioni e alle paure degli adolescenti di 13/14 anni. Inoltre non è una risposta che posseggono i soli genitori: man mano che un figlio cresce, sempre meno i genitori possono ritenere di conoscerlo in modo completo. Molti padri e madri, che dicono di conoscere i figli ‘come le proprie tasche’ in realtà si illudono, perché non riescono a pensare a un figlio come separato da sé, portatore di un suo mondo interno, non sempre accessibile

Per questo motivo, occorre porre la domanda anche agli altri adulti che conoscono i ragazzi: insegnanti, educatori dell’oratorio, capi scout, allenatori sportivi, maestri di attività espressive (danza, musica…). Sono gli snodi della rete educativa che nel corso del tempo abbiamo costruito per sorreggere e proteggere la crescita dei figli. In questa fase (ma non solo) nei colloqui con i docenti, prima di chiedere se il figlio è un bravo allievo, provate a chiedere loro che cosa conoscono di questo ragazzo, che cosa hanno capito della personalità di questa ragazza… Magari non tutti comprendono la domanda, e riprendono a parlare di voti, di verifiche e condotta, ma si troverà sicuramente qualcuno che tratteggerà un ritratto dei nostri ragazzi più complesso, e non sempre coincidente con quello che abbiamo in mente.

In particolare, poi, approfondiamo l’interrogativo iniziale: proviamo a chiederci e a chiedere a che cosa il ragazzo è maggiormente portato, nell’ambito della conoscenze scolastiche (le attitudini), quali di queste ha sviluppato (le conoscenze e le competenze acquisite), ciò che maggiormente stimola le sue attività, sia dentro che fuori la scuola (i suoi interessi). A questo proposito, e cioè guardando le attività che svolge con più piacere nel tempo libero, chiediamoci se magari preferisce stare con le persone, o lavorare con gli oggetti, o con le forme e le immagini, oppure ragionare e utilizzare le idee… sono diversi ambiti di interesse che possono orientare verso indirizzi scolastici più aderenti al ragazzo

Chiediamoci infine quali sono i limiti dei nostri ragazzi. Anche nell’ambito degli apprendimenti: alcuni territori della conoscenza possono essere troppo lontani dalle loro attitudini e competenze per diventare l’oggetto dei prossimi cinque anni di studio. 

 

Pubblicato il 25 ottobre 2010 - Commenti (0)
11
ott

Ottobre, andiamo. E’ tempo di orientare…

Vorrei dedicare al tema dell’orientamento una serie di interventi a cadenza settimanale, che si aggiungano agli altri post periodici. E vorrei rivolgermi non solo ai genitori dei ragazzi del III anno di scuola secondaria di I grado, più direttamente interessati. Mi piacerebbe che queste riflessioni sull’orientamento si allargassero alla educazione a scegliere, Di fatto la scelta della scuola superiore è la prima importante che un ragazzo o una ragazza si trovano a compiere. Gli adulti danno una mano, aiutano a capire i criteri, a conoscersi di più, a leggere la realtà circostante. Ma non si possono sostituire al ragazzo.

Si dirà : è difficile scegliere a 13/14 anni. Sono ancora piccoli. La situazione è complessa e in cambiamento. Ci sono così tante scuole diverse

Ma l’orientamento è prima di tutto auto-orientamento, in cui al centro c’è la persona, che impara a compiere scelte libere e motivate, ‘corrette’ più che ‘giuste’. Solo alla fine della scuola superiore un ragazzo o una ragazza potranno dire se la scelta compiuta fu quella giusta. Quella orientativa diviene la prima scelta di vita che un ragazzo o una ragazza sono chiamati a compiere, la prima di una lunga serie... Solo loro devono scegliere, anche se non da soli!

 

Pubblicato il 11 ottobre 2010 - Commenti (2)
08
ott

Sui post della comunicazione in famiglia

Prima di tutto, una breve premessa. Nella società della comunicazione sembra che parlarsi, e anche dialogare, sia qualcosa di scontato. Forse ci dimentichiamo che una comunicazione di sostanza va costruita con pazienza nel tempo, e che i tempi e i modi non sono gli stessi per tutti. Che cosa ci spinge a 'mettere in comune’ i nostri pensieri con alcune persone? Non c’è un obbligo; bisogna sentirne la necessità.

Qualche figlio si nasconde, dietro a un fumetto (ele15) o a un computer (ba). Chi si nasconde magari vuole giocare a nascondino, vuole essere cercato. Un po’ corteggiato. Si fa pregare. Con il piacere, alla fine, di essere trovato. Talaltra ha bisogno di nascondersi. Mantenere un po’ di distanza, perché molte volte gli adolescenti temono un’eccessiva vicinanza, che evoca i fantasmi dell’infanzia, della  dipendenza affettiva da mamma e papà. Temono di sperimentare che i confini della loro personalità sono ancora fragili, in costruzione. E’ allora che sbottano in un “Quanto mi stai addosso!”

Non è detto che nella comunicazione si possa usare con tutti la stessa modalità. Con gli adolescenti spesso è meglio inviare messaggi in bottiglia, cioè indiretti. A tavola qualche volte è meglio parlare tra genitori, come se i figli non ci fossero. I figli ascoltano, anche se non sembra. Se poi noi adulti abbassiamo la voce, subito drizzano le antenne paraboliche… Qualche altra volta si può provare con mezzi per noi adulti un po’ strani, ad esempio Facebook o Msn, come anche bastardobuono ci consigliava in un precedente commento. Superando l’impaccio della registrazione, come fanno le persone che mi inviano i loro commenti, e che ringrazio.

Mi sembra che i figli ascoltino più di quanto i genitori pensino. Certo, un adolescente magari non dà la soddisfazione al genitore di dargli ragione, o solo di mostrare di avere ricevuto un messaggio. Poi però riporta ad altri il pensiero dei genitori. Magari allo psicologo in studio o allo sportello scolastico, che moltissime volte si sente riportare dai ragazzi le parole di mamma e papà, accompagnate da “… e hanno anche un po’ ragione!”.

I figli ascoltano più di quanto i genitori pensino. Purché i genitori evitino alcuni atteggiamenti: ripetitività (“i miei dicono sempre le stesse cose”), tono accusatorio (“ti ho colto in fallo!”), lungaggine (“per dire una cosa, mio padre parla per mezz’ora”). Qualcuno ricorderà il suggerimento di San Paolo nella lettera agli Efesini : “Voi padri, non esasperate i vostri figli!”. Mi sembra proprio la situazione in cui i figli siano meno disponibili ad ascoltarci.

La prossima volta tornerò sui temi dell’uso del computer e sulla comunicazione dei figli maschi col padre.

 

Pubblicato il 08 ottobre 2010 - Commenti (0)
27
set

Interventi di manutenzione

Molti genitori si lamentano di figli che parlano poco, che non raccontano: che cosa si può fare? Pensiamo a qualche intervento di manutenzione della comunicazione in famiglia. In primo luogo, tenere viva noi adulti l’abitudine del raccontare. Ci sono figli silenziosi a fronte di genitori laconici.  In molte case poi ci si parla soprattutto per motivi pratici : «Oggi chi fa la spesa? Con chi esci? A che ora torni? Hai tanti compiti da fare?» 

 Si parla per far funzionare la famiglia, non per il piacere di raccontare e di ascoltare. Per questo, si preferisce magari fare spazio a quello che viene dal mondo esterno attraverso la televisione (notiziari, spettacoli…), perché sembra più vario e interessante. «Possibile che a nessuno in casa mia passi per la testa di chiedermi come sto?», mi diceva un diciassettenne imbronciato e torrenziale, benché i genitori me lo avessero presentato come un Ufo che si aggirava muto per casa.

In altre case, quel che si dice sembra sempre l’occasione per emettere giudizi, perlopiù critici e negativi: verso gli altri, quelli fuori casa, ma anche verso figli che con i loro comportamenti un po’ provocano, un po’ ci tengono a marcare la differenza tra come sono e come li vorrebbero i genitori. Un padre o una madre ‘criticoni’ fanno pensare al figlio che, come succede agli arrestati nei telefilm polizieschi, ogni parola potrebbe essere usata contro di lui. Allora, meglio tacere e non sbilanciarsi. Oppure raccontare qualcosa (poco) ma solo dopo molto tempo che è successo.

 In qualche altra famiglia, invece, si parla e ci si ascolta volentieri, ma l’adolescente sembra ritirarsi da questo scambio continuo. Forse lo fa per chiarire meglio a se stesso che cosa vorrebbe dire, forse per bisogno di prendere le distanze da una famiglia sentita come troppo avvincente e interessante. Il suo silenzio allora va rispettato, anche se come genitori non possiamo rinunciare a ‘fargli la corte’ in modo discreto, come innamorati che temono il distacco.  

Pubblicato il 27 settembre 2010 - Commenti (6)
22
set

Il piacere di un incontro

 “Forse è meglio stare con i coetanei che con i familiari” scrive "bastardobuono" nel suo commento. Lo ringrazio per lo spunto, soprattutto per il forse iniziale (e lo ringrazio anche per il post sulla morte). Perché i coetanei hanno più appeal dei genitori? E poi, è così vero? Certo, se ciascuno ripensa alla propria esperienza o si guarda attorno,  sa benissimo che un ragazzo o una ragazza trovano negli altri coetanei l’occasione per un contatto alla pari, per una condivisione di esperienze, attività, discorsi…

  Però mi sembra che la relazione con i coetanei e quella con i genitori siano cose diverse, e quindi non confrontabili. Che cosa succede quando i ragazzi stanno con i loro familiari? Spesso i genitori hanno l’impressione che i figli trascorrano del tempo con loro come un obbligo di cui liberarsi rapidamente. A tavola, appena finito il pranzo, i ragazzi si alzano e se ne vanno alla TV o al computer. La proposta di un’uscita insieme è accolta con lo stesso entusiasmo di una verifica di matematica o di un concerto di musica sinfonica. Le vacanze trascorse insieme per alcuni si sono trasformate nella fatica di dover mediare in continuazione sulle cose da fare o nella convivenza con figli con il muso perenne.
 
 Sembra mancare il piacere di questo incontro, cioè il desiderio di condividere la vita dell’altro, ciò che gli accade, i suoi desideri e le sue preoccupazioni, per il gusto di farlo, e non per carpire qualcosa della sua vita o per valutare e giudicare. E’ lo stesso piacere che si prova quando si è innamorati e si ha voglia di raccontare ciò che ci succede a quella persona. Penso che questo sia il segreto della durata di molte coppie, che consente alla loro relazione di non inaridire… Per i genitori, è un piacere segreto. Non va esibito, né deve essere fonte di malcelato orgoglio, pena l’allontanamento dei figli, infastiditi da certi sguardi troppo vicini e partecipi.
 
E’ il piacere nascosto del sentire che un figlio sta crescendo, sta facendosi una sua vita, lungo una strada che noi guardiamo un po’ in disparte. Proviamo a non guardarlo solo con l’occhio preoccupato del genitore spaventato che nota sempre quanto il figlio sia distante dal modello di ragazzo che ha in mente. A volte dobbiamo sgomberare il campo dai pregiudizi (cioè dalle valutazioni che abbiamo già fatto nel passato) alimentati dalla vita in comune per vedere qualcosa di nuovo nei figli. Altrimenti rischiamo di vedere confermato solo ciò che già sappiamo. Forse è per questo che ci stupiscono tanto certi giudizi positivi che gli altri fanno dei nostri ragazzi, quando li ospitano per una sera o per una vacanza… Se riusciamo a vederli nuovi, forse anche loro possono lasciarsi andare un po’ e godere di più della nostra presenza.      

Pubblicato il 22 settembre 2010 - Commenti (1)
06
set

Uscite di fine estate

In questo scorcio d’estate, prima che inizino gli impegni scolastici, sembra che i ragazzi debbano godere fino in fondo gli ultimi scampoli di libertà. Le uscite, pomeridiane o serali, si moltiplicano e si prolungano, anche sull’onda della maggiore libertà sperimentata nei luoghi di villeggiatura. I genitori, ripreso il lavoro, sono meno in grado di controllare e più disponibili a concedere permessi (tanto poi, ricominciano la scuola e le altre attività…).

 Il tempo fuori casa non è solamente il tempo del divertimento con gli amici, della libertà di movimento all’aria aperta, degli amori, del disimpegno. E’ anche la situazione in cui non ci si sente più bambini, guidati  e sostenuti dagli adulti, in primo luogo i genitori. In cui mettere alla prova se stessi e scoprirsi capaci di essere se stessi. In cui scoprire di essere importanti anche per altre persone, apprezzati e riconosciuti dai coetanei.  

 L’amore dei genitori, ancora necessario, non è più sufficiente.

 Si gioca una partita importante: il bene degli adulti fa sentire sempre garantiti, in un modo o nell’altro si sa che non verrà mai a mancare. Quello dei coetanei no, non è così certo. Si gode della sintonia e dell’intimità della compagnia e dell’amicizia. Del divertirsi insieme, cercando di evitare i conflitti. Ma non sempre si riesce: con gli amici occorre accettare la sfida di essere sempre un po’ precari sul piano affettivo. Chi teme maggiormente di dover fare i conti con una quota di solitudine va in cerca magari del ‘grande amore’, dell’amicizia ‘totale’. Tutti i giorni ci si deve vedere, e quando ci si lascia ci si sente su msn o facebook, o messaggiando di continuo fino a notte fonda. Un modo per eludere la noia di dover stare qualche volta da soli. Come se non si fosse contenti di ritrovarsi a tu per tu con se stessi. Come se la propria identità fosse un po’ liquida, e gli altri facessero da contenitore, da garanzia e conferma della propria solidità interiore. 

  Di fronte a tutto questo, cosa possono fare i genitori? Se c’è la smania di uscire, occorre provare a dargli un senso. Solitudine in famiglia? Bisogno del supporto affettivo degli amici per ridotta consistenza interiore? Difficoltà ad organizzare un’attività personale, un proprio interesse, in cui esprimersi anche creativamente? O altro ancora? 

La libertà va poi sempre coniugata con responsabilità. Non solo quella che i ragazzi possono esprimere fuori casa (compagnie, orari di rientro, comportamenti). Responsabilità verso i propri impegni (compiti delle vacanze, rifare il proprio letto e tenere abbastanza ordinata la propria camera). Responsabilità verso l’appartenenza alla vita familiare, dando il proprio contributo (spesa, cucina…) alla vita di famiglia, soprattutto quando i genitori sono impegnati con il lavoro.  
 
  Per i più giovani (12- 15 enni) soprattutto, ma anche per chi è più grande, poi occorre aiutare a trovare un senso della misura, un equilibrio tra permanenza in casa e vita esterna, tra divertimento e impegno, tra solitudine e compagnia. Non è facile, specie se mancano le possibilità di controllo concreto. Ci torneremo. Ma intanto : voi, come vi regolate?

Pubblicato il 06 settembre 2010 - Commenti (2)
23
ago

Pensare alla morte/pensare la morte

Gli adolescenti ci sembrano molte volte pronti a ridere su tutto e di tutti. A non prendere mai niente davvero sul serio. Non è così con la morte, che ha sempre una forte presa su di loro.

Ne parlo con un prete amico durante una passeggiata in montagna. Mi dice che ai funerali i ragazzi hanno reazioni emotive intense ma labili. “Non ti dimenticheremo mai”, e dopo un mese, invece… A me sembra però che la morte occupi i pensieri degli adolescenti più di quanto appaia. Non è un pensiero depressivo, né un insano chiodo fisso. La risonanza della morte di alcuni adulti: nonni, zii, parenti, con i quali i ragazzi hanno potuto sperimentare una vicinanza diversa da quella con i genitori. Più libera, disponibile, aperta alle esperienze condivise. Meno logorata dalla responsabilità educativa dei genitori. Questi cari defunti vengono idealizzati e diventano i depositari di ciò che si vorrebbe da un adulto. Maestri di vita, persone che hanno saputo matenere dell’adolescente un’immagine di speranza e di positività.

Così Marco, durante un test, inizia a raccontare dell’ultima uscita in barca con lo zio, prima che morisse investito mentre era sceso dall’auto per prestare soccorso ad una persona coinvolta in un incidente. Una giornata luminosa, sul mare, iniziata all’alba, culminata nell’incontro con un banco di pesce azzurro. Loro due soli, sereni, liberi. Per sempre.

Così Simone vorrebbe un tatuaggio con il suo nome e due oggetti: una pistola e un paracadute. In questo modo vuole mantenere viva in sé la memoria di due cugini di sua madre, morti di recente, con i quali la madre ha trascorso la giovinezza. Oggetti che esprimono il suo vitalismo e che evocano il rischio e la sfida alla morte, che non sempre si può vincere. Intessere la propria vita che va affermandosi con un ‘memento mori’, ricordando che si deve morire, magari in modo drammatico o improvviso.

E così molti altri, che sfidano, in un modo tutto di testa (con la musica, le letture), o con il proprio corpo il dolore e la morte. Forse per rassicurarsi sulla morte di se stessi bambini che l'adolescenza porta con sé, e non senza dolore e lutto. Forse perché capiscono, a volte meglio di noi adulti, che i progetti di vita non si realizzano in modo semplice. Capiscono che vita e morte non sono in opposizione, ma si intrecciano e fanno parte di un unico ciclo e di un unico Progetto.  

Pubblicato il 23 agosto 2010 - Commenti (1)
17
ago

Genitori disperati

Incontro a volte genitori in forti difficoltà. Hanno figli adolescenti ‘giovani’, cioè dai 13 ai 15 anni, per lo più maschi. Non sanno più che cosa fare. Non riescono a contenerli. Atteggiamenti disponibili e comprensivi vengono manipolati dai ragazzi a proprio uso e consumo. Interventi fermi e decisi cozzano contro la rigidità del figlio. I castighi si spuntano di fronte all’ostentato disinteresse del ragazzo. Peggio ancora, reazioni esasperate dei genitori, che arrivano magari a colpire fisicamente il figlio, possono provocare reazioni uguali e contrarie (ma tanto più dolorose) da parte del ragazzo.

Non è vero che non ci sia più nulla da fare,  e che magari occorra pensare all’allontanamento come all’unica via d’uscita (il classico «Ti mando in collegio!» nelle sue versioni più aggiornate). Occorre una ricostruzione della storia del ragazzo e delle relazioni in famiglia, paziente e condivisa. Cercare di dare un senso ai cambiamenti intervenuti, e che non sempre hanno trovato nei genitori altrettanta disponibilità al cambiamento dei propri comportamenti. Ritrovare il valore degli atteggiamenti educativi, che non si impongono di per sé, ma solo in una ricerca comune di significati.

Spesso, si tratta di un periodo. Tra la terza media e il primo/secondo anno di scuola superiore. E’ la fase in cui maggiore è la distanza tra il corpo e la mente. Il primo è scosso dalle trasformazioni puberali, che mettono l’adolescente di fronte alla novità di poter esprimere con una forza inusitata i propri desideri, quelli vecchi e quelli nuovi, che hanno a che fare con l’aggresività e la sessualità.  La seconda, la mente, invece ha un ritmo di crescita più lento, e arranca. Con i 16-17 anni, gradualmente, la distanza fra i due si riduce e sparisce, e si riesce a ragionare di nuovo insieme. Nel frattempo ci vuole pazienza, senza mollare il timone e mantenendo la rotta anche nella tempesta.

Pubblicato il 17 agosto 2010 - Commenti (0)
04
ago

Ancora sugli amori estivi

Riprendo, dopo una breve pausa, il tema degli amori estivi, che è stato anche affrontato nel servizio di copertina di Famiglia Cristiana del 18 luglio. Per restare ai 14-16enni, mi sembra che una differenza fondamentale tra ragazzi e ragazze sia il ruolo attribuito alla relazione amorosa nella vita dei ragazzi.

Per le ragazze, essa è spesso un’esperienza centrale e che vitalizza la quotidianità. Quando sono innamorate, pensano spesso al ragazzo, la ‘storia’ con lui è al di sopra di ogni altra cosa, e ciò dà loro buon umore, serenità (quando le cose vanno bene…). L’innamoramento è molto pensato ed è oggetto di scambi  con le amiche, raccontando o, ancor di più, scrivendone sulle chat di msn e fb. Questa attività di pensiero non è sempre anche fonte di riflessione e di ragionamento: più spesso è narrazione (io gli ho detto, poi lui mi ha detto, abbiamo fatto…) o proiezione nel futuro (che cosa farà… mi piacerebbe che… penso di dirgli…). Inoltre, tutto questo pensare e parlare non esclude affatto la dimensione anche corporea della sessualità. Anzi, in questo le ragazze non sembrano così lontane dai comportamenti maschili...

I ragazzi invece vivono spesso la relazione con una coetanea con un coinvolgimento diverso: intenso, ma che non deve togliere spazio ad altro. C’è la ragazza, ma ci sono anche gli amici, lo sport, le altre attività. E’una ‘prima inter pares’. Questa diversa prospettiva è spesso fonte di conflitti nella coppia: la ragazza vorrebbe più tempo, maggiore dedizione. Vorrebbe che il ragazzo pensasse a lei quanto lei pensa a lui, ma il più delle volte non è così. Per molti ragazzi, è un’esperienza interessante, appagante, ma non più importante delle altre che riempiono la loro vita.

Ci sono per contro alcuni ragazzi che investono in modo assai intenso la relazione con la ragazza e la vivono in modo più simile a quello femminile. Sono sempre insieme a lei, e perciò si allontanano dal gruppo degli amici. Diventano totalizzanti e dipendenti. Sembra che vedano nella ragazza una riedizione dell’amore materno, dal quale si sono faticosamente staccati da poco. Per loro è difficile dare a queste ‘storie’ il carattere proprio di sperimentazioni adolescenziali. Quando poi la storia finisce, vanno incontro a vicende dolorose, a esplosioni emotive per loro difficili da pensare e che richiedono grande attenzione da parte degli adulti che gli stanno vicini. Tutto ciò si può chiamare amore? Penso di no. E’ meglio parlare di innamoramenti, magari anche lunghi. L’amore è una esperienza più complessa, che ha a che vedere con le scelte importanti e i progetti di vita delle persone. Va lasciato ad un’età più matura e definita.

Pubblicato il 04 agosto 2010 - Commenti (1)
19
lug

Amori estivi

Tra giugno e settembre accadono sempre cose importanti per gli adolescenti. Il periodo di libertà dagli impegni scolastici ordinari, più o meno riempito da altre attività (strutturate e non), consente di sperimentarsi  e mettersi alla prova in nuove esperienze. Tra queste ci sono gli amori estivi, che riguardano soprattutto i più giovani, i 14-15enni. Cotte, infatuazioni, interessamenti più o meno graduali. Facilitati dalla libertà di movimento, anche serale, e dalle occasioni dei nuovi gruppi (viaggi, vacanze, oratorio…). Le ragazze confabulano tra loro, si rincorrono su msn e facebook, scambiandosi pareri e consigli su chi scegliere e come fare. C’è un codice non scritto che vale per il mondo femminile, per cui una ragazza può anche essere intraprendente in questo campo, ma deve fare in modo che l’iniziativa parta dal ragazzo; deve evitare avvicinamenti troppo improvvisi o sfrontati, agli occhi del gruppo; deve stare attenta a non ‘provarci’ in modo troppo evidente o con più ragazzi, per non dare l’impressione di essere troppo ‘facile’. Anche tra ragazzi vigono alcune regole, più finalizzate alla solidarietà maschile che all’immagine agli occhi del gruppo: ad esempio, non ci si deve mettere insieme alla ex del proprio amico, come per non mancargli di rispetto.  Oppure bisogna scendere in campo come maschi per difendere la ragazza di uno del gruppo dagli apprezzamenti di ‘esterni’. Nuovi amori, codici spesso vecchi. L’attrazione sessuale è (ovviamente) sempre presente. Molti ragazzi e ragazze la utilizzano senza conoscerla bene, soprattutto sul piano dei significati. In questo, ragazzi e genitori appaiono spesso uniti nella scarsa capacità di capire i desideri più profondi e nascosti che si muovono dietro questi gesti. Desiderio di tenerezza, di accoglienza senza ‘se’ e senza ‘ma’; bisogno di essere importanti e ‘speciali’ agli occhi di qualcuno, di dimorare stabilmente nei suoi pensieri in modo bello… Chi dice a questi ragazzi che prendersi per mano non è solo la ripetizione di un gesto visto da altri, ma può dire la voglia di condivisione, di aiuto reciproco, di fiducia nell’altro…? Chi dice a questi ragazzi che un bacio non è solo un brivido di piacere, un atto ‘formale’ che ratifica una relazione, ma è anche il tentativo di unire il proprio respiro vitale con quello di un’altra persona, presagio e premessa ancora vaga ad una unione di anime?

 

   

Pubblicato il 19 luglio 2010 - Commenti (1)
14
lug

Risposta per Laura Maestrello

Leggo con ritardo ( e me ne scuso) il bel commento di Laura Maestrello, che ringrazio per la sensibilità che dimostra nelle sue parole. Certo, non è buona cosa l’insistenza dei genitori, soprattutto quando è sostenuta da motivazioni narcisistiche di orgoglio personale, per i propri figli e di riflesso per sé, senza la capacità di ascolto delle inclinazioni più autentiche dei ragazzi.

Un conto è sostenere i figli in un impegno sufficientemente stabile, almeno per un lasso di tempo che consenta ai ragazzi di sentirsi un po’ competenti e di provare qualche soddisfazione. Un altro è la spinta con cui alcuni genitori  premono i loro figli sul piano delle prestazioni. Alcuni padri o madri troppo appassionati (tipico è il caso dello sport) se da un lato fanno sperimentare ai figli il loro apprezzamento per quello che fanno, dall’altro finiscono per confondere e sostituire la loro passione a quella dei figli, bruciandogliela.

L’esperienza della prestazione finale, a volte frustrante sul piano tecnico, quando si riesce a mostrare meno di quel che si è in grado di fare, può essere positiva in termini di prova con se stessi se gli adulti (i genitori e soprattutto i maestri) sanno riconoscere lo sforzo che l’adolescente ha profuso nell’incontro/scontro con il pubblico. Non tutti gli adolescenti sono così esibizionisti da provare piacere ad essere visti e applauditi. Molti, al contrario, temono queste occasioni perché preferiscono una dimensione relazionale più raccolta, dove sentirsi più sicuri e protetti. Farsi vedere, con il loro carico di insicurezze corporee e mentali, è per loro un compito arduo. Riuscire ad affrontarlo è già una vittoria.  

Pubblicato il 14 luglio 2010 - Commenti (0)
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